9 luglio, la liberazione della città

In un arco di tempo molto breve che va dal tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, al primo pomeriggio di domenica 12 settembre, viene spezzata via un’Italia e se ne affacciano almeno due sul palcoscenico della storia, si frantuma un governo di transizione e si pongono le premesse perché risusciti il regime fascista cancellato dal colpo di stato del 25 luglio; si dissolve un esercito che non era quello degli otto milioni di baionette sbandierato dalla retorica del duce, ma che contava quasi due milioni di italiani in grigioverde, sballottati dalla tempesta degli eventi in patria e nei territori occupati; scompaiono e riappaiono protagonisti chiamati a recitare un ruolo più grande di loro e comparse che ambiscono a interpretare il ruolo di protagonisti; evapora l’illusione che la guerra sia veramente finita con una firma sotto un pezzo di carta, all’ombra di un oliveto siciliano.

> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano

Nell’arco di novanta ore una nazione si sgretola come un castello di sabbia, gli architetti di quel castello presuntuoso e fragile, che si poteva e si doveva difendere dalla rabbia tedesca e dalla tronfia superficialità degli alleati vincitori, sono uomini che rivestono un ruolo di vertice nella struttura dello Stato, ma senza avere il senso dello Stato.

Quel potere ostentato che andava gestito con nervi saldi e con la forza dell’esperienza, scivolava invece dalle mani sudate dalla paura: la preoccupazione per la salvezza personale, era stata da tutti loro anteposta a quella dell’Italia, scaraventata nella più grande tragedia della sua storia.

Processualmente non si individuerà nemmeno un responsabile della tragedia nazionale, incredibile l’abitudine a nuotare con tanta disinvoltura nel mare dell’ipocrisia, della manipolazione della realtà, degli aggiustamenti come se nulla fosse successo, come se non ci fossero state fughe, battaglie, bombardamenti, deportazioni, collasso dello stato, invasione, conquista, massacri, guerra civile, resa dei conti.

La guerra in cui si era imbarcato Vittorio Emanuele, non dava scampo: prima con i tedeschi, poi senza tedeschi, poi contro i tedeschi: prima contro gli alleati, poi in mezzo al guado, poi ad elemosinare un improbabile ruolo paritario che non era stato neppure concesso dai vincitori, rispolverando la formula ambigua della cobelligeranza.

Niente di tutto quello che c’era prima, durante e dopo, era passato immune dal disastro. Non poteva essere altrimenti: forse la patria era davvero morta dopo la lunga agonia del ventennio fascista, e la spina era stata staccata con impercettibili ma inesorabili strappi dalle sconfitte e, definitivamente dalla resa. La stanza dei bottoni però stava al Quirinale, nonostante il popolo e lo stesso Mussolini credessero che fosse a palazzo Venezia.

Quel taglio storico, sociale, politico, morale, è arrivato fino ai giorni nostri, con il fardello polemico ed inaccettabile della memoria condivisa ed in mezzo, tante carneficine, tanti massacri. L’espressione più bassa e vergognosa della bestialità umana, il livello più infimo di una scala degli orrori che non ha risparmiato nulla nel sanguinoso stillicidio dell’occupazione nazista, la figlia degenere dello sfascio del 9 settembre che a più padri e una matrigna, che è la memoria.

Strano paese, l’Italia che attraversa le tempesta e una volta terminata, se ne scrolla le gocce dalle spalle con tanta disinvoltura. Anche quando quelle gocce, sono rosse di sangue.

L’EPILOGO DELLA GUERRA A VOLTERRA

L’epilogo della guerra nella nostra città si svolge in questo clima di paura, di incertezza, di miseria e di fame. I giorni che precedono la Liberazione sono ricchi di avvenimenti, come la minaccia della distruzione della Porta all’Arco, lo scoppio della Caserma e uno stillicidio di cannonate aggiustate su Volterra, da parte degli alleati: il 1 luglio in via San Felice, il 2 in Piazza San Giovanni, il 3 a Sant’Alessandro, il 4 in Borgo Santo Stefano con l’uccisione delle famiglie Martelli e Badalamenti e poi all’Ospedale Psichiatrico, dove i morti non si contavano più, nonostante i segni della Croce Rossa, macerie anche in Via Nuova e al Carcere, dove fuggirono dei detenuti e una parte di loro, fu uccisa dai tedeschi. Sparavano i tedeschi su ogni cosa si muovesse, cannoneggiavano gli americani e il 7 di luglio il cannoneggiamento divenne furioso, era evidente che volevano farla finita con l’ostinata resistenza dei tedeschi.

Il pane mancava, furono macellati e messi in vendita otto capi di bestiame per dare un po’ di carne alla gente, ma nel pomeriggio di quel giorno una pattuglia americana proveniente dalla Tignamica, raggiunse il “Cancellino” a San Lazzero, accolta con gioia dai contadini e dagli sfollati; fu festa breve però, perché da Papignano i tedeschi accorsero in forze ed impegnarono duramente i soldati statunitensi che si ritirarono con i loro feriti. Nel pomeriggio di sabato 8 luglio i tedeschi provvidero a smontare la linea telefonica che univa i loro punti cruciali, sgombrarono i feriti all’Istituto San Giuseppe e presero la via di Porta Fiorentina, verso Santa Margherita.

Calarono le tenebre e gli ultimi guastatori tedeschi provvidero a compiere l’ultimo “lavoro”, dalle 1 alle 5 con regolare cadenza, saltò in aria un tratto della S.S. 68 tra Roncolla e San Lazzero, i macelli pubblici in cima a Via di Porta Diana, l’incrocio tra Viale Garibaldi e i Ponti dove uno dei monumenti al granduca Leopoldo II, era già stato distrutto da una cannonata americana e infine la Spalletta all’altezza della Dogana.

Il bollettino di guerra americano comunicava la liberazione di Colle e che reparti francesi, avevano assunto il controllo della statale 68, fin quasi al bivio di Mazzolla.

Nel frattempo un sardo, sfollato a Volterra presso una famiglia alla Rampa della Croce, resosi conto che i tedeschi avevano abbandonato la città, partì attraverso i campi di Fontecorrenti e incontrò gli americani nei pressi di Scornello, e li esortò ad intervenire.

Poco dopo, ormai erano le 6, la prima pattuglia americana salì attraverso il ponte della ferrovia a San Lazzero ed entrò in città da Porta a Selci. La targa sotto il ponte di San Lazzero, inaugurata dall’ANPI fissa proprio quel momento. Una gigantografia di uno scatto celebre e di immagini che abbiamo visto scorrere sullo schermo. Appartenevano all’88^ Divisione di fanteria della 5^ armata, i cosiddetti “diavoli blu” per il loro stemma a forma di quadrifoglio di quel colore.

La notizia si diffuse immediatamente ed esplose il giubilo intorno ai soldati che apparivano un po’ frastornati dalla festosa accoglienza. Poi le pattuglie diventarono reparti e i soldati statunitensi marciavano in tutta la città. Si provvide a stampare il volantino, destinato alla popolazione,che abbiamo riprodotto e che avete trovato sui tavoli e sulle sedie.

A palazzo dei Priori si erano già insediati gli appartenenti al C.N.L., con la giunta a suo tempo designata e composta da Amedeo Meini (sindaco), Umberto Borgna (vicesindaco), Mario Bartaloni, Giuseppe Bruci, Mario Giustarini, Giulio Nannini, Giulio Cesare Topi, e Aldo Tozzi. Con i membri del C.N.L., trattò il governatore alleato, il maggiore inglese Clive Robinson.

La Giunta, dedicò particolare cura alla tutela dell’ordine pubblico e alla ricostruzione delle amministrazioni di enti di particolare interesse per la vita di Volterra, come gli Istituti Ospedalieri e la Cassa di Risparmio.

La vita cittadina riprese lentamente a scorrere, pur tra mille difficoltà, nel segno della libertà e della democrazia appena riconquistata. Ma la guerra era ancora vicina e di tanto in tanto le artiglierie tedesche si facevano sentire sul nostro colle. Non a caso infatti, solo il giorno 11, la radio alleata dette notizia della liberazione di Volterra. Nelle campagne vicine si continuava a combattere; il 10 gli americani occuparono Pignano, mentre a Ulignano, i tedeschi resistettero fino a sera, lasciando poi sul campo un morto, 4 feriti e 24 prigionieri.

La Wermacht organizzò la sua ultima resistenza più dura a Villamagna, che venne liberata solo il 13. A Camporbiano morirono 22 soldati tedeschi sotto le macerie di un loro alloggio. All’ospedale cittadino si continuava a morire, il numero dei ricoverati che giungevano anche da paesi vicini, aumentava continuamente e fu necessario ospitare feriti anche al collegio di San Michele.

Per mesi continuò lo stillicidio di morti accidentali, di mutilati e feriti in campagna, dove i tedeschi in ritirata avevano disseminato un numero infinito di mine, ma la battaglia poteva dirsi conclusa.

© Anpi Sez. Volterra FABRIZIO LONGARINI
9 luglio, la liberazione di Volterra