«Bacco in Toscana», l’articolo a firma di Francesco Bianchi, mi ha divertito un mondo riportandomi indietro negli anni a contatto di quelle tipiche figure di grandi bevitori che, con le loro sbornie, gli strombotti e le stravaganze costituivano lo spasso degli anziani e di noi giovincelli.

In questo articolo, ispirato da un componimento poetico di Manlio Cherici, un mattacchione degli anni trenta, tipico discendente di una famiglia alla quale non aveva difetto la vena canzonatoria mi è sembrato che il caro Manlio abbia dimenticato nel suo ditirambo (forse non li aveva conosciuti) coloro che furono grandi «briachi» di Volterra. Era nipote di quel tal Iacopo Cherici, causidico ed azzeccagarbugli, che quando lo avvicinavi per questioni di interessi ricevevi risposte così vaghe che non sapevi mai se scherzasse o facesse sul serio.

presento Ciapo Tredici
gran bighellone nato
amico della trappola
sempre diaccio marmato

Il padre del nostro Manlio, persona molto distinta, aveva studiato avvocatura e come tale esordì all’epica processione per i fatti di Piombino, ove gli incriminati, per uno scontro fra dimostranti e forze dell’ordine, vennero giudicati nella angusta sede del tribunale di Volterra.

A questo processo, a sfondo politico, accorsero, in difesa di questi lavoratori, i più bei nomi dell’arte forense italiana fra cui Labriola, Ferri, Zerboglio, Mingrino, Dello Sbarba e molti altri di provato valore.

Al giovane avvocato Cherici capitò una volta di difendere il «pacchiano» che era venuto meno alle leggi sulla caccia. Poichè la mite condanna richiesta dalla pubblica accusa venne quasi raddoppiata, dopo la difesa dell’avvocato, non ci fu verso che il nostro pacchiano intendesse pagare la parcella al suo difensore. Quando riceveva un sollecito per sistemare il conticino mostrava il foglio agli amici con queste parole: se continua a mandarmi a chiamare e non mi rimborsa i soldi che ho dovuto pagare per la multa, vado nel suo studio e lo volo dalla finestra. Lo diceva ridendo, ma i denari della cara parcella quando uscivano dalle sue tasche per sistemare il debito, venivano sistematicamente dirottate nel cassetto dell’oste per tante bevute di vino con gli amici. Il nostro Manlio, discendente di questa famiglia, sempre allegro e pronto allo scherzo decise, al tempo della guerra in Africa Orientale, di arruolarsi e seguire le camice nere in quelle terre lontane.

Amareggiato dal fatto che alcuni fra i più facinorosi erano rimasti sul poggio pensò di esternare il proprio sarcasmo in una cartolina, indirizzata, con questi versetti, al Caffè Brachini, ritrovo preferito di questi eroi da poltrona.

Pensieroni e salutini
ai clienti del Brachini
salutini e pensieroni
a codesti bighelloni.

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Quando i ragazzi della mia lontana giovinezza si facevano vedere in giro con i capelli che da qualche mese non conoscevano le forbici di «Faria» venivano apostrofati con queste parole: – a te ci vuole il Trilli! Immaginate voi quanti denari avrebbe racimolato al giorno d’oggi e quante sbornie da aggiungere alla sua già fitta agenda. Egli, come altri della sua stessa specie, apparteneva alla folta schiera dei grandi bevitori volterrani dei primi anni del Novecento i quali, trattandosi nel maggiore dei casi di corpi disabitati, andavano in cimbali con pochi bicchieri di vino. La gioventù odierna con basi più solide, si limita a prendere qualche espresso poichè il vino se lo beve in famiglia.

All’epoca del «Trilli» e del chiassoso «Brincellone» – un boscaiolo poliomielitico che intorno agli anni Venti, fra una sbornia e l’altra, incontravamo, con tanto di fioccone rosso, in testa ai cortei socialisti, con un piede in battere ed uno in levare, come se fosse lui, così zoppicante, a guidare il corteo – c’erano alcuni gagliardi bevitori che in una sola giornata erano capaci di versare nello stomaco anche un paio di fiaschi di vino. Al nostro «Brincellone», quando alzava il gomito, piaceva concionare il prossimo con discorsi improvvisati sulla politica del giorno. Guai se qualcuno aveva l’ardire di interromperlo. Si alzava indispettito ed agitando l’indice – più grosso di quello di San Pietro – esclamava «’Gnorante! Un m’interrompe, quando sò n’della favella del discorso».

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Fra i tenaci bevitori il più famoso di tutti è stato il «Vanzi». Un povero diavolo vissuto a cavallo del Novecento che sbarcava la vita facendo il carrettiere. I pochi danari che guadagnava li spendeva quasi tutti in vino. Dormiva nelle stalle e più spesso nelle accoglienti celle di via dell’Ortaccio od in quelle più fresche della torre Topi. A quei tempi di magre risorse alabastrine la miseria aveva fatto di lui un eccellente filosofo.

– Non va! andava ripetendo mentre spingeva il carretto.
– Cos’è che non va, domandava la gente.
– Il mondo! rispondeva lui. Siamo in troppi!
– In quanti vorreste che fossimo perché le cose vadano meglio?

– Basterebbe essere in sei: due a cuocere il pane e quattro a giocare il fiasco.

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Della famiglia Pocci, il già citato «Pacchiano», falegname e bracconiere, era un bevitorello comune; nella famiglia ce ne erano altri ben più potenti come Meo, Micciano e Bernardo. Meo, forse il maggiore, fattosi vecchio passava le sue giornate seduto nell’ingresso del Caffè Bardola, ritrovo a quei tempi di perditempo e di signorotti cacciatori. Quando qualcuno le «sballava» madornali e veniva rumoreggiato dai presenti cercava di salvare la faccia agguantandosi a Meo.

– Non credete a quello che ho detto? Domandatelo a Meo che era con me.
E Meo pronto dondolando la testa in segno di assenso: vero! vero!
– Avete visto se dicevo il vero!
Ugo, un ponce a Meo.

E così il nostro Meo fra una storiella e l’altra, un ponce ed un bicchiere di vino, passava le sue giornate riempiendo lo stomaco di ogni sorta di liquido. Alla sera quando gli avventori del Caffè Bardola prendevano il largo si alzava anche lui ed avvolgendosi nell’immancabile «rotolò» si avviava verso casa smussando tutti gli angoli della strada.

Per «Micciano», il mezzano, le sbornie erano stagionali. Quando eravamo vicini all’epoca della tradizionale stagione lirica smetteva di bere. Come capo-coro sentiva il peso della propria responsabilità di fronte ad una massa di coristi che facevano a gara a chi beveva di più. La sua era tutta una questione di dignità.

Bernardo, il minore, soprannominato «Bennai», fin da giovinetto era emigrato nel paesi del nord Europa da dove era ritornato a guerra finita (quella del 15/18). Viveva solo e quello che guadagnava lo destinava al vino. Sempre senza un soldo in tasca pretendeva di essere pagato alla fine della giornata lavorativa. Si toglieva da dosso la polvere dell’alabastro e si presentava al principale con queste parole: che mi paghi, domani ritorno; che non mi paghi domani vado da un altro. Dopo la mezzanotte era immancabilmente visibile appoggiato al muro esterno di qualche osteria pronto ad attaccar briga con tutti i passanti.

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Avere disturbato il «Tinti» un bevitore di «foravia» – il più classico «briaco» che mai abbia conosciuto non credo sia stato un errore in quanto da Castelfiorentino arrivò un bevitore di vino da far impallidire tutti i «briachi» volterrani messi insieme. Si chiamava «Romboli», cugino di un celebre cantante dell’epoca ed era venuto a Volterra allo scopo di impastare e cuocere «sèmel». Era anche un ottimo giocatore di tamburello ed appassionato dell’arte lirica. Le sue discussioni sull’arte lirica e sul gioco del tamburello terminavano sempre in grandi bevute che si protraevano fino a quando, insieme agli amici, veniva preso a viva forza e scaraventato in mezzo alla strada.

La sua passione per il canto era eccezionale. Piangeva estasiato e, sempre, per l’effetto del vino, dava in smanie quando sentiva cantare quei brani che gli toccavano il cuore. Aveva acquistato uno di quei grammofoni con la tromba e quando alla sera si poneva all’ascolto di qualche celebre romanzo preso dall’entusiasmo riempiva un bicchiere di vino che rovesciava dentro la tromba in segno del più alto gradimento.

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Se il «Bennai» voleva essere pagato alla fine della giornata c’era anche, fra gli alabastrai, chi i denari li voleva in anticipo. Uno di questi era «Buriella» – al secolo Mario Bellacchini – un poveruomo tanto onesto quanto pieno di miseria.

Carico di famiglia affogava i dispiaceri nel vino alla stregua di tanti lavoranti d’alabastro. Nelle prime ore della mattina, quando non aveva ancora smaltito la sbornia del giorno precedente veniva raggiunto sul posto di lavoro dalla moglie che batteva cassa per le spese della giornata. Il povero «Buriella» avrebbe fatto volentieri a meno di quella visita inopportuna, ma purtroppo le condizioni della famiglia erano quelle che erano. La richiesta della moglie veniva fatta con modi così gentili da convincere perfino il poco disponibile principale ad aprire la borsa. In quelle prime ore mattutine la poveretta, per ovviare ai grugniti del marito e le occhiate canzonatorie degli altri lavoranti, cercava di darsi un contegno salutando tutti con parole così ricercate che a sentirla sembrava una damina francese. Questo dialogo fra marito e moglie veniva ripreso in senso parodistico dall’amico Giustarini, ex sindaco, il quale ripetendo gesti e voce con un’arte imitatoria da far impallidire Alighiero Noschese, costituiva lo spasso dell’intera mattinata. A lavoro ultimato buona parte del guadagno veniva destinato dal nostro «Buriella» nell’acquisto di tanti fiaschi di vino che lo tenevano allegro per tutta la settimana.

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Difficile trovare un artiere dell’alabastro che non fosse un seguace del Dio Bacco. In verità il vino a Volterra piaceva a tutti; era un gusto che penetrava nelle ossa fin da bambini. La polvere dell’alabastro che veniva respirata costituiva un buon motivo per loro invitare a schiarirsi la voce con dei buoni calici di vino. Il piacere del buon bicchiere investiva tutti quanti, artieri di spiccato valore ed alabastrai mediocri. Per essere sinceri dovremmo dire che i grandi “briachi” allignavano proprio in questa seconda categoria. Come non ricordare il «Nelli» fabbricante di canini che avevano così poco comune con il fedele amico dell’uomo. Un omone magro e lungo con due baffi spioventi che sembrava uscito da un racconto del Cervantes; fratellastro di «Argentino» – altro grande bevitore – che si riteneva un grande fantino capace di spodestare il vecchio «Tabarre» campione invincibile delle tradizionali corse in Vallebuona. Quando si presentava a queste corse finiva sempre per venire disarcionato. Subissato dai fischi e gli schiamazzi non si dava per vinto. Rimontava in sella ed a coloro che protestavano esclamava convinto: mi rivedrai passare!

Il «Nelli» quando aveva bevuto si sfogava con il canto. Dotato di una voce cavernosa entrava nelle botteghe degli alabastrai, situate di solito nei fondi di antichi palazzi, per dare sfogo alla sua passione canora. Richiesto di cantare la «vecchia zimarra» domandava prima se le mura (un metro di spessore) avrebbero resistito ai suoi «conati». Rassicurato chiedeva se la romanza la volevano coronata dal bacio. Poichè prevaleva la richiesta con il bacio si faceva prestare un cappotto che avvolgeva al braccio destro. Straziando da par suo la romanza pucciniana, terminava con un grande singhiozzo che sembrava un boato e dopo avere impresso un bacio sul cappotto gettava tutto in aria fra gli applausi degli astanti. Naturalmente pretendeva di essere compensato con almeno tre bicchieri di vino che potevano aumentare a seconda del buon cuore dei presenti.

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Quanto ritorno ti porto un garofano,
viva Cristofano, viva Cristofano.

Chi alla sera avesse sentito cantare queste strofette non doveva faticare troppo per scoprire chi fosse il cantore. Era sicuramente il «Nacci» il minore dei Cristofani, una modesta famiglia di alabastrai che abitava in una straducola del Labirinto. Sempre «briaco fradicio» a forza di bere aveva perduto perfino il gusto del vino.

Una domenica entrò allo Stallone, ex caffè centrale posto davanti a Via Nuova e gestito a quell’epoca dalla vedova di Quintilio Cappelli. Come al solito si avvicinò al banco della mescita chiedendo un bicchiere di vino che gli venne subito servito.

Alcuni amici lì presenti misero al posto del vino un bicchiere pieno d’acqua che lui buttò giù tutto di un fiato. A quel momento uno dei presenti gli domandò:
– Dimmi Nacci, come ti sembra il vino del Cappelli?
– Buonissimo! Il migliore vino di Volterra. Detto questo salutò gli amici per entrare in un altro santuario per la stessa funzione.

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Bestia nera della famiglia di «pettirosso» al secolo Topi – un ometto che in gioventù aveva viaggiato per terre lontane a smerciare alabastro riuscendo a mettere insieme una piccola fortuna che gli aveva consentito di acquistare un poderetto (Rioddi) ed una casetta fuori Porta San Francesco – era Dante il più giovane dei tre figli; un beone scatenato amante del dolce far niente. Al calar della sera, eludendo la sorveglianza dei genitori, faceva come le libellule: usciva di casa passando tra un osteria e l’altra per completare il pieno. Come tutti i «briachi» attaccava a brigare con i vari passanti per finire poi nelle mani dei ragazzi che, dopo avergli tolto di tasca i pochi centesimi di cui disponeva lo rotolavano per terra dove lo lasciavano in attesa che ritornasse le facoltà mentali e la porta di casa.

Altro bel tipo della famiglia era Cesare il maggiore dei fratelli soprannominato «Banfata». Abitava nel poderino di Rioddi dove passava gran parte della giornata a contare i frutti degli alberi per paura che il contadino, al momento della raccolta, facesse la parte del leone. All’epoca della guerra 15/18, tanto per rendersi utile, si fece includere nel Comitato di Assistenza alle Famiglie dei Combattenti, una associazione formata soprattutto da persone della Volterra bene. Fra tutta quella gente il nostro Cesare, la cui intelligenza era piuttosto limitata, si sentiva un personaggio importante. Tutti i giorni non faceva che criticare il Comando Supremo responsabile dell’andamento della guerra che si trascinava per le lunghe.
– Vedete, disse un giorno tutto convinto appoggiando le mani sulla carta delle operazioni di guerra costellata da bandierine tricolori che segnavano le nostre posizioni, se i nostri generali si trovassero tutti d’accordo stabilirebbero un piano comune: ad una determinata ora tutti i pezzi da fuoco si metterebbero a sparare. Una bella «banfata» e del nemico non se ne parlerebbe più.

E’ vero che lui, almeno di giorno, dimostrava di essere l’opposto del fratello Dante, chissà che alla sera però, nel silenzio della casetta di campagna, non tracannasse più calici di vino del fratello ubriacone.

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Avere portato agli onori della cronaca «Mariano» ponendolo nella lista dei grandi ubriaconi è un torto che si è voluto usare nei confronti del fratello minore che in fatto di sbornie avrebbe dato dei punti anche al «Trilli». Ai suoi tempi, giovane e baldanzoso, amicone di «Succhiello», del «Tanghero», di «Stianti» e «Cicciaccia», bevitori impenitenti al pari di lui, non passava domenica che non desse dimostrazione della sua grande classe di provetto bevitore.

Una volta prese una sbornia così violenta che cadde per terra come uno straccio. Gli amici, che anche loro si reggevano in piedi a malapena, lo caricarono su di una carrozzina da neonato e dopo avergli fatto fare un paio di volte il giro del centro lo lasciarono in un angolo della strada in attesa che il fresco della notte gli calmasse i bollenti spiriti. Ogni lunedì mattina allo scopo di disintossicarsi si faceva portare alcuni fiaschi d’acqua che un altro ubriacone attingeva ad una fonte miracolosa nei pressi di Cozzano.

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I vecchi coristi volterrani sostenevano che per cantare bene occorreva schiarirsi la voce con dei buoni bicchieri di vino. Era quello che faceva il buon Olimpio Marcacci il quale, nonostante la sua voce poderosa, non c’era verso riuscisse ad amalgare il proprio canto con quello dei vari coristi. Olimpio era uno stradino che abitava in Santo Stefano ove si trova la sede di una società chiamata La Punta. Era qui che questo stradino, dopo le fatiche della settimana trascorsa a spaccare sassi e raddizzare le strade dell’Era trovava ristoro e la possibilità di dare sfogo alla sua passione per il canto e per quella del vino. Del melodramma, in maniera molto distorta, conosceva alcune cose, ma se qualche volta esagerava nello «stonio» la colpa era certamente del vino. Il suo pezzo preferito era «amor ti vieta» della Fedora di Giordano. Che il buon Dio gli perdoni quello che usciva fuori dalla sua bocca. Parole e musica assumevano un aspetto del tutto diverso ma guai a noi a movergli obbiezione: Giordano l’aveva scritta come la cantava lui e quindi nulla da ridire. Antifascista per la pelle (quante corse povero Olimpio) non tralasciava occasione di poter dimostrare anche con il canto questa sua tendenza politica.

Nella sede della La Punta erano esposti alla pareti i quadri del Duce e del Re e quindi non erano infrequenti certi riferimenti canori in favore dell’uno o in dispregio dell’altro. Quando aveva bevuto più del solito racimolava due o tre cappelli, che si metteva dietro la giacca per simulare una certa gibbosità e divaricate le gambe per imitare Rigoletto si poneva sotto il ritratto del Re cantando con quanto fiato aveva in gola: vecchio t’inganni! un vindice avraiii… e giù fino al termine di questa invettiva con i presenti che si tappavano le orecchie da così tanto strazio. Per non deluderlo troppo la fine di questa cabaletta veniva accolta con grandi applausi e con l’offerta di numerosi bicchieri di vino che lui buttava giù tutti di un fiato per dimostrare a sua gratitudine per questi omaggio alla sua grande arte.

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Tutti grandi bevitori e cuori d’oro, ma cose normali come in ogni paese del mondo. Volterra però vantava il suo «briaco» da libro di fiabe: «Maghettinne». Lo conoscevo molto bene, come tutti i ragazzi di Volterra, ma non ho mai saputo quale fosse il suo vero nome, da dove venisse né cosa facesse. Ogni tanto faceva la sua comparsa in città trascinandosi dietro una turba di ragazzi.

Era un uomo piuttosto tarchiato con una faccia tonda incorniciata da una gran barba cresputa e due occhietti piccoli atteggiati costantemente al riso. Vestiva piuttosto malamente, un cappellaccio nero in testa ed una sacca di tela completamente vuoto dietro le spalle. Quando aveva bevuto si divertiva a spaventare i ragazzi che gli correvano d’attorno per farlo inquietare. Lui ci rideva, ripeteva il suo nome a più riprese agitando il sacco in aria come se volesse rinchiudervi dentro chissà quanti ragazzi. Credo che abbia finito i suoi giorni fra i vecchietti di S. Chiara.

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Tanti altri «briachi» meriterebbero una descrizione particolareggiata ma, per taluni come «Panciottone» immortalato nelle poesie dell’indimenticabile «Marziale» si rischierebbe di sciuparne il profilo e quindi chiuderemo con lo «Sbracioni» le cui comiche smargiassate ritornano alla mia mente come se fossero cose di ieri e lo rivedo ancora curvo sul carretto carico di blocchi di alabastro faticare per le ripide strade di Volterra allo scopo di guadagnare danari per aiutare la numerosa famiglia. Nei giorni di festa, con un grosso paniere sotto il braccio, lo trovavi sempre in mezzo alla gente a smerciare semi e noccioline. Il suo vero nome era Bruno Lavoratorini figliol di un vecchio alcolizzato e fratello del famelico «Gheghe». Beveva, diceva lui, per mantenersi in forze ma, dato che spesso eccedeva nella «cura», allora si sfogava a cantare e dire parole triviali. II suo canto preferito era «La donna è mobile» (parole e musica tutta sua) e quando aveva finito di cantare apriva la valvola dell’aria che emetteva rumorosamente dalla bocca e dal sedere. Quando il rumore era stato inteso da tutti i presenti si faceva dovere dedicarlo al Sindaco, al Vescovo, ad altre personalità o, più collettìvamente, a tutti color che avevano assistito alla «novena» in San Francesco.

Una domenica mattina, dato che era un appassionato giocatore del lotto, si recò nella piazza dei Priori per conoscere i numeri che erano stati sorteggiati il giorno precedente. Si piazzò in mezzo alla gente che a quell’ora sostava davanti alla ricevitoria in attesa che venisse esposto il bollettino dei numeri usciti nelle diverse stazioni. Era fortemente miope e quindi strofinandosi vicino agli occhi il biglietto della giocata, cerca di farsi largo il più possibile fra il capannello dei curiosi. Quando si accorse di non avere azzeccato nemmeno un numero lasciò esplodere dalla parte posteriore un rumore così maleodorante che fece arretrare tutti quanti.

– Per il Vescovo! gridò con voce abbastanza forte. Il direttore del giornale Il Corazziere, piuttosto basso di statura, che si trovava dietro di lui, investito in pieno da quella esplosione si risentì esclamando:
– Bravuomo! Altro che per il Vescovo; questa l’avete fatta per me!

© Pro Volterra, DINO LESSI
Bella Che l’hai!, in “Volterra”