Castel di Montagna

I dolci rilievi collinari ed i fitti boschi di castagni, rovere, carpine, cerro, pino, corbezzolo, roverella, ligustro, dai quali crescono una miriade di prodotti del sottobosco, dalle castagne, alle more, ai funghi, fanno dei dintorni di Castelnuovo un ambiente ideale per una ricca e varia fauna selvatica.

Il paese è situato a 576 m d’altitudine, mentre più in alto troneggia il poggio Aia dei Diavoli, che raggiunge gli 875 m.

Era, forse, questa la terra di Castellina che nel 1164 fu data in feudo da Federico I Barbarossa al conte Alberto III di Prato, una casata che all’inizio del Duecento ne deteneva ancora la signoria e che si sviluppò, poi, in concomitanza con la decadenza del castello di Bruciano, importante rocca di controllo delle valli del Pavone e del Possera.

Nel 1176 si trova citato tra i castelli sotto l’influenza dell’Abbazia di Monteverdi, ma nel 1204 e poi nel 1210 e nel 1212 i suoi Lombardi fanno atto di sottomissione al Comune di Volterra. Tra i ventisette castelli del contado volterrano, Castelnuovo era il più importante dopo Pomarance.

La parte più antica del borgo è quella dove ora sorgono la chiesa del S.S. Salvatore e la Voltola, sede del Circolo culturale Il Chiassino, che ha preso il nome da un vicolo strettissimo, forse il più stretto in assoluto esistente al mondo, largo sì e no 50 cm.

Nel 1343 Ottaviano Belforti fece fortificare il cassero e la torre a spese della comunità di Volterra, ma di queste opere e della cinta muraria edificata in epoca medievale rimangono in piedi solo Porta Fiorentina e Porta Romana.

Assalito e conquistato dalle truppe d’Alfonso d’Aragona, nel 1447, fu riconquistato dai volterrani un anno dopo.

L’innalzamento a pieve della parrocchia, con tanto di fonte battesimale, risale al 1460; la piccola chiesa fu ingrandita nel 1774 ed elevata ad arcipretura.

Dopo la disastrosa guerra del 1472 che mise fine allo stato volterrano, anche Castelnuovo passò sotto Firenze, ma nel 1530 quando all’antica repubblica furono restituiti parte delle prerogative perdute, ebbe il privilegio di nominare il proprio podestà, che non doveva, però, essere un volterrano.

Il Granduca Ferdinando II de’ Medici, nel 1639, ne fece un marchesato che assegnò a Luca degli Albizi, famiglia a cui rimase fino all’abolizione dei feudi granducali, nella seconda metà del XVIII secolo.

La peculiarità di queste terre erano i fumacchi ed i lagoni che il naturalista Targioni Tozzetti, nella sua dettagliata relazione, descriveva cosi: “Sono moltissimi di numero ed impossibili a contarli, per cagione delle tortuosità e comunicazioni, ma non ve n’è alcuno di grande quanto uno de’ mediocri di Montecerboli. Forse questa è a cagione che molti del paese non li chiamano lagoni ma fumacchi, denominandoli dal grande e continuo fumare che fanno”.

Le allumiere di Castelnuovo sono rammentate dalla fine del secolo XIII, molto prima che si scoprano le ricche miniere della Tolfa, nello Stato Pontificio.

Sulle pendici della Val di Cornia e della Possera, passava una delle principali vie dei pascoli del bestiame proveniente dalla maremma, ma non meno importanza avevano le pasture per il bestiame grosso, i lanuti ed i maiali, la produzione in piccole forme del cacio forte o salato e, infine, le castagne dei folti castagneti. La comunità esercitava il diritto di ruspa, che consisteva nella facoltà di vendere al maggior offerente il permesso di far grufolare i maiali nei castagneti, per far loro mangiare i frutti rimasti in terra. ( E. Pertici)

Ancora, durante l’ultimo dopoguerra, la raccolta delle castagne aveva un ruolo importante nell’economia della zona. Mia nonna Angiolina, industriosa come poche per natura e per la stringente necessità di campare la famigliola, trascorreva ogni anno qualche settimana a Castelnuovo a raccattar castagne, ospite di una famiglia amica.

Numerosi ed interessanti sono gli statuti medievali della comunità: presso l’Archivio di Stato di Firenze se ne contano 38. Sempre il Targioni Tozzetti ne fece uno studio particolare, riprendendo alcuni articoli, che oggi fanno sorridere: “art. 7: Pena a chi manda la bolla livida. Che nessuno possa mandare ad alcuna persona la bolla livida, o essa ricordare in alcun modo, pena soldi 10. Art. 23: Che nessuna donna vada dietro al morto considerata l’instabilità delle donne, et il rumore che fanno. Art. 45: che si spazzi innanzi all’uscio ogn’otto dì. Art. 98: Pena a chi fa scampanate. Veduta la disonesta molestia che si dà a qualunque vedovo o vedova che viene a marito, sì da scampanargli tutta la notte all’uscio, sì ancora delle parole che si usano. Art. 148: Pena alla vedova che ripigli marito dentro all’anno del vedovile.”

La scampanata ai cornuti, veri o presunti, era un costume di dubbio gusto ancora in uso nel secolo scorso, come racconta in un gustoso aneddoto Carlo Groppi. Quando si spargeva la voce che una donna metteva le corna al marito un popolano, chiamato Cento, prendeva un grosso campanaccio da bestie vaccine e, usando come megafono un corno di bue, faceva il giro del paese per avvisare i ragazzi che la sera ci sarebbe stata una scampanata. I monelli andavano al Fossato a cercare lamiere, barattoli di latta e batacchi di castagno e nel tardo pomeriggio si ritrovavano al Piazzone per dare inizio al divertimento, quindi, il rumoroso e sgangherato corteo si dirigeva verso l’abitazione della vittima, sotto le cui finestre sostavano per ore scampanando a più non posso.

Le gazzarre cessarono con l’intervento dei carabinieri che richiamarono all’ordine Cento, soltanto dopo che fu preso di mira un personaggio in vista del paese.

Dagli ultimi anni dell’ottocento la storia di Castelnuovo s’intreccia con quella della vicina Larderello, tanto che si può parlare di un’unica zona produttiva, che iniziò a svilupparsi con Francesco de Larderel.

Castelnuovo fu un centro del più antico socialismo e ancora nelle elezioni del 19 settembre 1920 il comune rimase in saldo possesso del partito socialista, ma ciò non impedì al principe Carlo Ginori Conti, il Principone, di costituire nel 1921 uno dei primi fasci della provincia di Pisa.

Verso la fine della seconda guerra mondiale, i tedeschi, aiutati dai fascisti, prelevarono nel borgo minerario di Niccioleta, 77 persone, fra minatori e familiari, che furono portati a Castelnuovo e fucilati.

Primo in Italia il paese è oggi teleriscadato, riscaldato cioè tramite l’energia geotermica.

Una simpatica manifestazione organizzata dagli amici Paolo e Yuri per Slow Food mi ha fornito il pretesto per rivisitare il vecchio borgo e per fare una salutare passeggiata lungo il sentiero che porta al torrente Pavone.

Ad onor del vero Ingrasso libero non era stata organizzata per lo spirito, ma per la pancia. Dopo la pesa, tutti i partecipanti si sono abbuffati lungo il percorso che prevedeva ben cinque tappe “d’ingozzo”, dalla bruschetta ai formaggi, ai fagioli, alla trippa. Il vincitore della singolare gara, nonostante il sudore lasciato nella lunga e faticosa camminata e le inevitabili soste tecniche, è riuscito a metter su due chili e seicento grammi!

Ancora una volta sono rimasto affascinato da questi luoghi dell’anima, intrisi di bellezza, pace, paesaggi stupendi. Ad ogni passo si aprono nuovi orizzonti, dal vecchio castello che ci sovrasta e ci appare con sfumature sempre diverse, ai casolari sparsi nella vasta campagna, agli antichi borghi che si affacciano erti sui colli immersi nel verde, in lontananza.

Oltremodo suggestivi sono i mulini e i ponti sul Pavone, costruiti letteralmente “a misura d’uomo”, con una carreggiata molto stretta, che consentiva il transito di persone e bestie da soma, ma non di carri; il Ponte Basso o Ponte del Defizio, dalla caratteristica forma a schiena d’asino risalente al XIII secolo, formato da due lunghe arcate sostenute da un pilone centrale, su cui una volta esisteva una piccola statua della Madonna, che portava al Mulino del Defizio, o Mulino Grande. Questo edificio, abbellito da un elegante cortile interno con archi a tutto sesto, sostenuti da colonnine in pietra, ancora abitata negli anni cinquanta, è ora completamente in rovina. Dotato di ben quattro grosse macine, moliva soprattutto cereali da foraggio, ma verosimilmente in passato vi era annesso anche un opificio per la lavorazione del ferro.

Il Ponte Alto, con i massicci pilastri che sorreggono l’unica alta campata, oggi completamente ricoperto da rampicanti che oscurano e minano la stabilità della leggera struttura svettante sopra rocce cristalline, era prevalentemente utilizzato in passato per il trasporto delle merci. Un sistema di canale di legno ed in muratura recuperava l’acqua del mulino più alto per alimentare quello più in basso. I mulini erano su sponde opposte, per cui la costruzione di due ponti a così poca distanza l’uno dall’altro si rese necessaria per assicurare l’attraversamento d’uomini e mezzi in ogni stagione.

I ponti sul Pavone conservano intero il loro fascino, ma privi da decine d’anni di qualsiasi manutenzione, mi chiedo come facciano ad essere ancora in piedi.

Il borgo medievale di Castelnuovo ci appare come un paesino da favola, arrampicato a forma di pigna su un ripido e scosceso colle, con le sue stradine, i vicoli, le scalette, le belle e dignitose case che vi si affacciano, l’antico impianto urbanistico ancora intatto, dominato dalla chiesa del Santissimo Salvatore, costruita dove si ergeva l’antico castello.

Ma le favole non appartengono più al nostro mondo, assetato di comodità, schiavo delle macchine; le strade sono vuote e il paese sembra disabitato: non si contano i cartelli con la scritta Vendesi, appesi alle porte chiuse!

Per come l’ho conosciuto io, specialmente attraverso splendidi compagni ed amici come Benso, Carlo, Otello è stato una fucina d’idee, un luogo intriso d’umanità e di partecipazione alla vita civile.

© Bruno Niccolini, BRUNO NICCOLINI
Castello di Montagna, in “I luoghi di Velathri, Da Velathri a Volterra”, a. 2010, pp. 129-131