Molto è stato scritto su questa specie di ragno e già in tempi remoti diversi autori si sono occupati di studiare clinicamente e sperimentalmente l’azione tossica di esso.

Se sono stato tentato di trattarne di nuovo, lo è perchè ho riscontrato in alcuni lavori specifici sull’argomento, compiuti recentemente qui in Volterra, inesattezze nei riguardi delle proprietà tossiche del ragno. E, più che altro, perchè il parlarne in questa pagina, la quale, dato il suo carattere non tecnico, va per le mani di gran numero di persone colte, sì, ma profane di cose di medicina, mi offre l’opportunità di far conoscere e diffondere notizie precise circa la vera importanza ed entità del veleno di questo ragno; intorno al quale si è diffusa una paurosa credenza, che ha realmente dell’esagerato e molto, circa frequenti mortifere conseguenze della sua puntura.

La prima descrizione esatta di questo ragno si deve a Francesco Marmocchi, il quale, in una memoria in data 28 luglio 1786 e dal titolo «Memoria sopra il ragno rosso dell’agro Volterrano», ne definisce i precisi caratteri, ne studia le abitudini e ne determina il potere velenoso. Riferisce infatti una trentina di casi di puntura nell’uomo dovuti alla Malmignatta constatati da, lui nel territorio volterrano, descrivendo con precisione la sintomatologia e l’andamento della intossicazione; secondo lui alcuni di questi casi furono seguiti da morte. Egli affermò che tale ragno fosse comparso per la prima volta nel territorio di Volterra verso il 1782 e che antecedentemente vi fosse sconosciuto; esso vi sarebbe stato trasportato per mezzo del grano, che in quell’epoca, causa la scarsa raccolta locale, si era dovuto far venire da Livorno. Ora, siccome il frumento proveniva dalla Sicilia e dall’Africa, secondo il Marmocchi anche il ragno rosso da lui descritto aveva questa stessa provenienza; non si capisce quindi come egli, attribuendogli una cosi recente cittadinanza, l’abbia descritto come «ragno rosso proprio dell’agro Volterrano».

La memoria del Marmocchi presentata nel 1786 al Granduca Pietro Leopoldo, ne fu fatto nel 1787 un estratto nel Giornale dei letterali che si pubblicava a Pisa, e, sotto forma di lettera, dal Della Valle nella Antologia romana, ed in fine inserita negli atti della R. Accademia dei Fisiocritici di Siena nel 1800. In essa il ragno è denominalo anche Malmignatta, perchè dal Marmocchi ritenuto affine al ragno esistente in Corsica e conosciuto sotto questo nome e del quale già da tempo erano noti gli effetti velenosi in tutto simili a quelli osservati dal Marmocchi stesso a proposito del ragno volterrano. Infatti, il chirurgo maggiore dell’armata di Corsica, De Bourrienne, aveva nel 1769 osservato questi ragni, dai caratteri morfologici simili al nostro, col corpo di colorito nero e con macchie gialle sul dorso, dai quali erano stati punti quindici soldati. l fenomeni di avvelenamento riscontrati dal De Bourrienne, analoghi a quelli descritti dal Marmocchi, anche se sul primo assai intensi, avevano avuto tutti decorso rapido e benigno senza conseguenze notevoli.

Ad ogni modo, è da ritenersi che almeno in Toscana questo ragno fosse conosciuto ancor prima dell’epoca stabilita dal Marmocchi, poichè in un opuscolo pubblicato a Firenze dal Brogiani nel 1755, «De Veneno Animantium» si parla di un certo ragno di Toscana detto Falangio, il quale produce col suo morso una speciale malattia, caratterizzata da agitazione, che lui chiama «frenitide», accompagnata spesso da vomito e talora da cangrena locale.

Inoltre il Targioni Tozzetti, professore di botanica a Firenze, possedeva un antico manoscritto del 1729, di cui era autore Tomaso Chellini, con varie figure d’insetti, tra le quali una simile a una Malmignatta con ventre sferico e con 6 tacche rosse e come spiegazione sotto vi era scritto:

«questa figura rappresenta il ragno nero a macchie rosse e tonde che fa nel popolo di Cossignano (Toscana) e fa sotto i covoni del grano, ed è tanto velenoso che non pigliando rimedio si morirebbe»

Che tale ragno fosse sempre esistito in Toscana fu anche l’opinione del Prof. Rossi insegnante a Pisa, il quale, nella sua Fauna Etrusca pubblicata a Livorno nel 1790, fa un’ampia esatta descrizione del ragno, che egli chiama Aranea tredecim guttatus. Ritiene che il Falangio di cui parla il Brogiani come di ragno abitatore ordinario della Toscana, e così pure il ragno nero pallato di rosso descritto nel manoscritto del Chellini non siano che uno stesso individuo, identificabile con quello da lui e dal Marmocchi illustrato, sia per i caratteri morfologici, sia per gli effetti prodotti dal morso del tutto analoghi. Anche la Malmignatta propria della Corsica non sarebbe che al massimo una varietà della stessa specie. Aggiunge che, trovandosi in grande abbondanza nel territorio di Volterra, si potrebbe a ragione chiamare ragno volterrano.

Le prime esperienze fatte sul veleno dei Malmignatti si devono a Dottor Luigi Toti di Volterra, e furono continuate durante gli anni 1786-1789. La prima comunicazione, di cui si conserva il manoscritto nella Biblioteca Guarnacci di questa città, fu inviata alla Accademia del Fisiocritici di Siena nel novembre 1786; a questa aggiunse nuove osservazioni nel gennaio 1788, ed infine la memoria definitiva fu pubblicata negli atti della detta Accademia dell’anno 1794.

Il Toti fu, come egli stesso dice, spinto a studiare questo ragno e gli effetti della sua puntura, dal fatto che si era verificato in quegli anni un numero straordinario di casi di avvelenamento per il suo morso; alcuni dei quali anche micidiali.

Nel suo lavoro fa cenno delle notizie date dagli autori precedenti e da queste deduce che il ragno rosso esistesse da tempo in Toscana; tanto più che, avendo interrogato i campagnoli e i vecchi medici di Volterra, seppe da questi che, anche negli anni precedenti, si era sempre verificato qualche caso di morsicatura.

Aggiunge inoltre che esso è molto simile, per la figura, grandezza ed effetti, al ragno pugliese o Tarantola, di conoscenza comune: pur tuttavia devesi tener distinto. Riferisce diversi casi di morsicatura in cui la sintomatologia è pressochè identica, e cioè: sensazione violenta di puntura; nel sito della ferita si produce una piccola macchia rossa o livida un po’ rilevata – egli la chiama pustoletta – con in mezzo un fine punto nero, segno della morsicatura; presto sopravvengono dolori violenti al ventricolo e agli arti, senso di oppressione generale, di mancanza di respiro, di spossatezza e una impossibilità a stare in piedi e camminare, specialmente per un senso di stroncatura dei ginocchi; il polso si fa frequente e pieno, ma difficilmente si ha febbre; inoltre si hanno sensazioni di caldo e di freddo, vertigini, dolor di capo; in seguito i malati sono presi da convulso, che essi definiscono più interno che esterno, e perdono il sonno; in alcuni si ha anche vomito ripetuto, in altri ritenzione di orina ed eccitazione genetica. La durata della malattia sarebbe stata, secondo i casi, dai 3 ai 15 giorni, con esito sempre favorevole, eccetto in un bambino in cui sopravvenne la morte in meno di 24 ore e che era stato punto ad un dito del piede. Dopo la puntura vi fu febbre, convulsioni, gonfiore generale, il corpo divenne livido e il bambino in breve morì. Un altro caso mortale si ebbe in un giovane di 25 anni. Secondo l’Autore, l’esito disgraziato in questi due casi fu dovuto a non essere intervenuti in tempo coi rimedi appropriati.

Lavori condotti con severità d’indagini sperimentali estese a molteplici specie di ragni, furono compiuti da Sachs, Walbum, Bielenowsky.

Il risultato ottenuto dai varì autori è stato concorde nel distinguere proprietà differenti al veleno delle glandule e al veleno contenuto nel corpo. Quest’ultimo sarebbe una tossalbumina, la cui caratteristica principale è di essere emolitica, cioè capace di disciogliere i globuli rossi, e sarebbe dimostrato ch’essa travasi in relazione con la maturazione delle uova.

Il Dott. Pini, che compì nel nostro Istituto ricerche sperimentali sulla tossicità del ragno volterrano e pubblicò nel 1910 un lavoro in proposito, senza però riportare osservazioni cliniche, mal si accorda nelle sue conclusioni cogli autori succitati, poichè, non avendo ricercato con esperienze adatte di differenziare le due sostanze tossiche, attribuisce al veleno delle glandule una azione che invece deve essere attribuita alla tossina contenuta negli estratti del corpo dei ragni. E ciò é dimostrato in modo esauriente dalle ricerche minuziose compiute ultimamente da Levy, il quale ha pubblicato un lavoro sulle tossine degli aracneidi sperimentando su individui di diverse specie. Uno studio sulle glandule del veleno e sugli effetti di questo è stato compiuto nel 1905 anche da Bordas, sperimentando col Latrodectus terdecim guttatus di Francia; sulla tossicità delle punture del Latrodectus esistente in Sardegna ha scritto pure il Castelli nel 1913.

La rassegna ch’io ho fatto fin qui dei lavori comparsi sull’argomento, non comprende che gli studi riferentisi alla specie di ragno che ci interessa particolarmente e cioè al ragno impropriamente chiamato ragno rosso o Falangio Volterrano, il quale non è altro che il Latrodectus terdecim guttatus (secondo Rossi), specie di ragno appartenente all’ordine degli Araneidi, sott’ordine dei Dipneumonidi, famiglia dei Theridi, genere Latrodectus. Numerosi ed ampi lavori sono stati compiuti studiando altre specie di ragni affini al nostro, sia per la conformazione, sia per gli effetti del morso; ma che io ho trascurato di citare per non rendere troppo farraginoso il mio riassunto letterario.

Il Latrodectus terdecim guttatus è un ragno assai grosso che ripete le caratteristiche di conformazione di quest’ordine di artropodi o ragni veri. Ha cioè testa saldata col torace in modo da costituire un unico segmento del corpo, detto cefalo torace, al quale sono articolate quattro paia di lunghe zampe e che è unito in dietro all’addome per un corto peduncolo. L’addome dei ragni veri è costituito da un segmento unico, voluminoso di forma abitualmente globosa; nel latrodectus esso è relativamente ancor più voluminoso rispetto alle dimensioni del cefalotorace e spicca per la sua forma a palla attaccata strettamente al torace per un cortissimo collo, tanto che sembra continuare col torace stesso direttamente; stirando però il cefalotorace mentre si tiene fermo l’addome, si mette in evidenza il peduncolo d’unione, che si allunga alquanto. La superficie superiore di questa palla è più sporgente, più convessa, mentre la superficie inferiore, quella che guarda il suolo, è più pianeggiante.

L’estremità posteriore dell’addome è alquanto appuntita, in maniera che il contorno dell’addome non è un rotondo perfetto, ma viene ad assumere un aspetto di ovoide con l’apice volto all’indietro.

Singolare e indimenticabile è la figura di questo ragno, che con il suo corpo voluminoso sembra una pallottola scura scorrente su quattro lunghe e ricurve paia di zampe; poichè nel cammino l’addome viene come sollevato e sorretto sul segmento anteriore, cioè sul cefalotorace munito di zampe; quando è fermo, l’addome è tenuto poggiato sul terreno, ma sempre leggermente.

Il colore di fondo del ragno è molto scuro, si potrebbe dire nero addirittura; sulla faccia dorsale dell’ addome spiccano 13 macchie di colorito rosso, caratteristiche di questa specie e dalle quali deriva la denominazione specifica del ragno stesso, disposte in 3 serie longitudinali, una centrale diritta e due laterali, che seguono la curva dei contorni dei fianchi. Le macchie della serie mediana sono per solito 7 e fra queste spiccano le due estreme anteriori, la prima allungata in senso trasversale e la seconda più grande ed evidente di tutte, occupante proprio il centro del dorso, a forma triangolare più o meno regolare; seguono altre 4 o 5 macchie più piccole ed irregolari disposte una accosto all’altra, talvolta tanto strettamente da presentarsi come una unica striscia rossa; talora anche l’ultima macchia non appare sul dorso, ma è spostata verso la faccia ventrale dell’addome. Le due serie laterali sono composte di 3 macchie cadauna; macchie a forma di virgola e disposte obliquamente, modellandosi sulla curva dei fianchi.

Quantunque il numero delle macchie sia ordinariamente di tredici, si possono trovare delle variazioni in più o in meno; talvolta il contarne un numero minore dipende, come ho già accennato, dall’essere alcune di esse confluite in un’unica macchia, il che più spesso avviene per quelle della serie centrale, oppure da non essere visibili sul dorso perchè spostate sul ventre. Realmente però anch’io ho riscontrato ragni con 12, 10 ed anche 8 macchie distinte; Raikem riferisce che ne sono stati descritti dai diversi autori con 4, 6, 11, ed anche però con 15 o 17 macchie; il ragno disegnato da Tomaso Chellini e descritto come Malmignatta appartenente al territorio di Cassignano ne presentava sei; un medico francese (citato dal Raikem stesso) assicura di non averne osservati che con 4 macchie. Anche nel colore delle macchie si riscontrano spesso variazioni; di solito rosso vivo; questo può a volte essere più scuro, a volte più chiaro, il più spesso tendente al giallo. In Corsica la Malmignatta si presenta di regola con le macchie di colorito giallo (De Bourrienne infatti la descrive con 8 macchie gialle sul dorso); secondo Blanchard nel Nord della Francia essa perderebbe addirittura le macchie rosse per assumere una tinta uniformemente nera.

I Latrodectus sono ragni di dimensioni relativamente grandi; gli individui adulti raggiungono di solito la lunghezza di circa due centimetri; secondo Blanchard la femmina può raggiungere al massimo 15 mm. Io però ne ho osservato di 18, 20 ed anche 22 mm. Il diametro dell’addome può essere di 10, 12 mm.

Il maschio si differenzia dalla femmina per presentare questa un addome più grande e globulare, mentre nei maschi è più piccolo e più allungato. Inoltre la distinzione fra maschi e femmine si rileva anche dalla differente situazione degli organi genitali esterni.

Nelle femmine l’apertura genitale si trova sulla faccia ventrale dell’addome alla sua base e cioè all’estremità anteriore, ed è circondata da ogni lato dalle stigmati, che sono gli orifici delle trachee o sacchi polmonari.

I maschi invece posseggono un complicato organo copulatore situato su uno dei palpi mascellari. Sulla faccia inferiore concava del segmento terminale del palpo si trova una specie di vescichetta allungata entro cui sta ravvolto un filamento. Prima dell’accoppiamento il maschio riempie di liquido spermatico l’appendice vescicolosa e quindi estromette il filamento che introduce nell’orificio sessuale della femmina. È frequente osservare, seguendo un po’ le abitudini dei ragni, due individui accoppiati, in una posizione caratteristica, che sembra che si abbraccino, poichè sollevandosi sull’addome intrecciano le zampe mettendo a contatto le loro faccie ventrali.

All’estremità posteriore dell’addome sulla faccia inferiore si trova l’apertura anale, ed all’intorno di questa sei piccole rilevatezze cutanee o tubercoli, i quali non sono altro che le filiere o organi produttori della seta. I Latrodecti filano la loro tela disponendo i filamenti in maniera del tutto irregolare, incrociandoli cioè in tutti i sensi ed è per questo che alcuni naturalisti hanno designato la famiglia cui appartiene il nostro ragno, col nome di Inaequitelari, per distinguerli dagli Aequitelari, i quali tessono una tela a trama regolare.

Il Latrodectus è comune nel territorio di Volterra, ma non, come dice il Raikem, esclusivamente nei campi situati a mezzogiorno della città; poichè anche nel territorio posto a Nord con frequenza si ritrova (ad esempio a Villamagna). Come si è già detto, esso si trova diffuso a molti luoghi. Tralasciando di parlare della Toscana, dove si hanno notizie sicure essere stato riscontrato in parecchie località, esso è comune in Corsica (Cauro, Bourrienne); in Sardegna ove è conosciuto nella parte meridionale de l’isola col nome di Argia, nella settentrionale con quello di Arga (Castelli); in Spagna, specie nei dintorni di Barcellona (Craels de la Paz, Simon ed altri). Nel mezzodì della Francia è comunissimo in alcune località come Vauchus, Card, Herault, ecc.; rimonta, secondo Blanchard, lungo il litorale fino alla Vandea e nel Morbihan, ma qui perde le caratteristiche macchie rosse ed assume una tinta nera uniforme; è stato inoltre descritto da Dax di Sommières e da Duges a Montpellier. Blanchard assicura che vive anche in Egitto, Siria, Asia Minore, Russia Meridionale. Forse trattasi più precisamente di specie affini, quali sono il Latrodectus lugubris, o lupo nero, che vive nel mezzodì della Russia, ed è un ragno assai più grosso del nostro e molto temuto perchè pericoloso specialmente per il bestiame delle steppe. In altri continenti sono conosciute specie pure affini al nostro, come il Latrodectus menovadii, abbondante al Madagascar, ove è ritenuto pericoloso non solo per gli animali, ma anche per l’uomo, avendo provocato talvolta accidenti mortali. Il curioso è che gli indigeni lo considerano come animale sacro, per cui vive indisturbato e può quindi pullulare con tutta sicurezza (Phisalix). Nella Nuova Zelanda si troverebbe il Latrodectus Katipo Powell, e in Australia un’altra specie, il Latrodectus hasselti, i quali provocherebbero disturbi simili a quelli prodotti dal terdecim guttatus; ai quali disturbi si aggiungerebbe spesso un ittero.

In tutta l’America Meridionale e fino nel sud degli Stati Uniti è comune un ragno del genere del nostro, il Latrodectus formidabilis o mattans, conosciuto sotto diversi nomi a seconda delle regioni; così al Perù ha il nome popolare di Lucacha; al Chilì di Guima o Pallu; nella America Centrale di Casampulga, oppure di Cul rouge di San Domingo a causa della macchia rossa che circonda l’ano. La puntura di questo ragno produce effetti del tutto simili alla puntura del nostro e cioè malessere generale con debolezza, oppressione precordiale, senso di bruciore nel punto della ferita, dalla quale s’irradiano dolori intensi che in seguito si fanno generali, ma più sentiti alle gambe, alla testa, all’epigastrio; il malato appare ansioso, ha senso di angoscia, ha tremiti, sbattimento di denti, talora scosse muscolari. Nel sito della puntura appare una macchia rossa e spesso un gonfiore all’intorno. Tali disturbi dopo 20, 24 ore si vanno attenuando, raramente durano più di 2 o 3 giorni; mai è stata osservata la morte. Le esperienze eseguite facendo pungere da questo ragno diversi animali hanno dato risultati del tutto simili a quelle eseguite col Latrodectus terdecim guttatus, dimostrando la stessa potenzialità tossica e l’identità di effetti.

A Curaçao e nel Venezuela sono state descritte due altre specie, il Latrodectus curaçaviensis e il geometricus, il cui morso, che si osserva frequentemente, produce effetti analoghi a quelli determinati dagli altri Latrodecti.

Non starò del resto a elencare oltre tutte le specie e varietà del genere Latrodectus; giacchè dovrei dilungarmi troppo; mi basta avere accennato a quelle piu vicine, per struttura ed effetti venefici, al terdecim guttatus, l’unico che ci interessi direttamente.

È questo un ragno abitatore esclusivo dei campi; esso si trova con relativa frequenza specialmente nei terreni situati a sud di Volterra, abitualmente nei campi tra le località Bacchettona e Saline; ma anche altrove è facile rintracciarlo; ne sono stati visti a Mazzolla, a Villamagna; per cui si può dire che tutto il territorio all’intorno di Volterra ne sia infestato.

Vive nei solchi della terra, sulle prode dei fossarelli, nei crepacci di terreni argillosi; difficilmente negli spazi nudi, ma laddove vi è un po’ di vegetazione. Esso tesse la sua tela irregolare intrecciandone i fili in tutti i sensi, così da formare una specie di feltro spesso e resistente che si stende a mo’ di tettoietta a cupola o a capanna tra gli steli di alcune pianticelle vicine (il più spesso trattasi di quella pianta popolarmente chiamata assenziola).

Al disotto vi sta nascosto aspettando la preda che rimane impigliata nella tela, la quale essendo, come s’è detto, assai forte è capace di arrestare anche grossi insetti.

Tutti o quasi tutti gli aracnidi posseggono la proprietà di secernere veleno: è considerata questa come funzione biologica. Il veleno è utilizzato per l’attacco e la uccisione della preda, come pure serve di difesa all’individuo. Ma oltre che a servire all’abbattimento dei piccoli animali di cui abitualmente si nutrono i ragni (insetti, artropodi più che altro), tale veleno in alcune specie di ragni può giungere a fare sentire i suoi effetti anche in animali di mole più grande, e così pure nell’uomo, i quali eventualmente siano punti da un ragno.

Tra questi ragni velenosi il Latrodectus occupa un posto eminente, poichè provvisto di organi velenosi relativamente molto sviluppati. Il suo apparecchio velenifero è costituito da due organi: l’organo produttore del veleno e l’organo inoculatore, il quale serve per pungere e inoculare nella ferita il veleno stesso.

L’organo inoculatore si trova al davanti della testa ed è formato da due appendici, le quali sono considerate come trasformazione del 1° paio di arti o zampe toraciche (giacchè sono innervate dal ganglio nervoso esofageo) funzionanti da organi della bocca o mascelle superiori e chiamate cheliceri; mentre il 2° paio di arti funzionano da mascelle inferiori e sono costituiti da un pezzo basale o mandibola, sulla quale si articola un palpo fatto di più segmenti.

I cheliceri si compongono di due pezzi, uno basale che si articola col cefalo torace ed ha una forma prismatica: largo alla base e stretto in avanti, con la faccia inferiore piana, la faccia superiore convessa, l’esterna sottile, l’interna un po’ appiattita. Essi sono riuniti per l’estremità posteriore del loro margine interno, mentre il margine esterno è molto più lungo in modo che l’estremità posteriore stessa appare tagliata a becco di flauto. Sono rivestiti da uno strato di chitina, assai resistente e spesso, e sono ricoperti di peli, più sviluppati e fitti sul lato interno; il quale essendo assai obliquo, circoscrive col lato opposto uno spazio angolare con l’apice rivolto in dietro; questo spazio è occupato dai peli.

L’altro pezzo dei cheliceri, quello anteriore o digitale, è costituito da una specie di artiglio triangolare col margine esterno convesso e l’interno un po’ concavo, finemente dentellato; termina in una estremità aguzza un po’ curva fornita di foro, il quale di solito trovasi un po’ spostato verso il margine interno. Questi due artigli in posizione normale sono ripiegati ad angolo retto sull’articoli basali e combaciano l’uno con l’altro per le estremità, formando la base di quello spazio triangolare che intercede tra i due segmenti precedenti dei cheliceri.

Quello che è interessante è 1’osservare il modo con cui s’articolano con gli articoli basilari: questi presentano l’estremità anteriore conformata a puleggia o troclea, cui corrisponde una gola sull’estremità posteriore degli artigli, in modo che i movimenti si compiono in un solo senso e in un solo piano e cioè dal di dentro al di fuori e non dall’alto al basso o viceversa; movimento quindi dei due artigli combinato a tenaglia. L’articolazione descritta, corrisponde a quel tipo che in anatomia vien detta a ginglimo, come l’articolazione del gomito.

Le glandule velenose, od organi produttori del veleno, sono situate nel cefalo-torace; la loro sede si rende manifesta anche all’esterno poichè sulla faccia dorsale del cefalo-torace si possono osservare anteriormente due piccoli rigonfiamenti simmetrici.

Stirando delicatamente i due cheliceri si riesce con facilità a staccarli dal corpo del ragno e con essi ad estrarre anche le glandole, le quali appaiono come due piccoli sacchi allungati, biancastri, opalescenti, che fuoriescono dall’estremità posteriore dei cheliceri, nei quali è contenuta una porzione della glandula stessa.

Il più spesso a forma di piccola pera, queste glandule, a seconda del grado di stiramento subito durante l’estrazione, possono allungarsi molto e diventare cilindriche, fusiformi: terminano posteriormente con un’estremità appuntita. In avanti seguitano con un lungo canale sottile che attraversa il segmento basilare e quello digitale del chelicero per sboccare nel forellino descritto all’estremo dell’artiglio. La glandula è relativamente voluminosa, è lunga d’ordinar:o da 1, 5 a 2 mm, secondo Bordas può giungere a 3, 5 mm.; ma ritengo che queste dimensioni siano artificiali e cioè provocate dallo stiramento; la larghezza di solito è di circa 1\2 mm. Talvolta una delle glandule apparisce un po’ più lunga dell’altra. Esse si toccano per la loro porzione anteriore, ma fra loro poi resta uno spazio che viene occupato da fasci muscolari, filetti nervosi e vasi sanguigni. Altri fasci muscolari a direzione longitudinale o leggermente obliqua si trovano all’esterno della glandula: questi vari muscoletti s’inseriscono poi all’interno del chelicero e servono ai movimenti di questo.

La glandula può, come si è detto, considerarsi come un sacco, il cui interno serve di deposito al veleno; la parete è formata da diversi strati:

1° – uno strato più esterno, sottile, di tessuto congiuntivo, il quale serve di membrana avvolgente e che secondo Bordas sarebbe una propaggine del peritoneo.

2° – uno strato di tessuto muscolare, costituito da fascetti di grosse fibre muscolari striate, disposte a spirale attorno alla glandula fino all’origine del canale escretore.

3° – una membrana basale, sottilissima, di tessuto congiuntivo, che serve di sostegno allo strato seguente.

4° – un epitelio glandulare costituito da un solo strato di cellule cilindriche, molto sporgenti nel lume della glandula, e che nel loro insieme formano un orletto irregolare, poichè alcune sono più alte, alcune più basse e più larghe; alla loro base travasi il nucleo ben visibile. La parte superiore dell’interno delle cellule è riempita da piccoli granuli rifrangenti, i quali occupano anche lo spazio interno della glandula: sono i granuli del veleno. Il canale escretore è costituito dagli stessi strati della glandula, ma più sottili; lo strato muscolare è di fibre circolari, l’epitelio di cellule piatte. Il canale si va facendo sempre più affilato via via che si allontana dalla glandula.

L’apparecchio velenoso del Latrodectus è già formato al momento della nascita, cioè quando i piccoli ragni fuoriescono dal bozzolo presentano già ben sviluppate le glandule, le quali appaiono come due masse rotondeggianti, rese ben evidenti da l’intreccio scuro dei vasi sanguigni molto abbondanti; masse simmetricamente poste nella porzione anteriore del cefalo-torace e distinte nettamente fra loro. Data la trasparenza dello strato cutaneo, non ancora chitinizzato, è possibile osservare anche il canale escretore e seguirlo nell’interno del chelicero hno allo sbocco esterno.

Il veleno, come ho già accennato, apparisce nell’interno della glandula sotto forma di globuletti sferici omogenei, i quali occupano anche la metà superiore del lume cellulare, dimostrando così la loro provenienza dal protoplasma cellulare stesso; tali globuli non si colorano coi comuni colori da microscopi a o solo leggermente in rosa con l’eosina. Sotto l’azione dell’alcool la massa del veleno si contrae in un tutto compatto, talvolta granuloso e d’apparenza aereolare. Allorché fuoriesce dai cheliceri esso ha l’aspetto di un liquido chiaro, limpido, più o meno viscoso, il quale, secondo Faust, avrebbe sapore amaro. È facile, irritando il ragno, con lo stuzzicargli i cheliceri, far secernere il veleno che si mostra sotto forma di due goccioline limpide, brillanti, posate sugli estremi degli artigli. Coagula con l’alcool; ha reazione il più spesso acida; l’analisi chimica dimostra che esso contiene oltre a sostanze albuminoidi, un alcaloide instabile, il quale si distrugge col riscaldamento a 60° e che, secondo Breeger, sarebbe la vera sostanza tossica.

Il meccanismo d’inoculazione del veleno si effettua mediante i movimenti dei cheliceri e la contrazione dello strato muscolare che circonda la glandula. Come abbiamo visto il movimento dell’artiglio rispetto all’articolo basale del chelicero si determina in un solo piano, e cioè trasversalmente, data la disposizione dell’estremità articolari dei due segmenti. Nell’interno dell’articolo basale sono racchiusi dei muscoli dei quali uno, situato al lato esterno, ha il compito di estendere l’artiglio; ciò che porta ad un divaricamento delle due ganasce della tanaglia formata dai due artigli stessi. Dal lato interno si trovano altri muscoli che hanno la funzione, antagonista di flettere, gli artigli, cioè di avvicinarli tra loro, o, per seguitare il paragone, di stringere la tenaglia.

Quest’ultimi muscoli sono più sviluppati e potenti dovendo servire all’introduzione dell’artiglio nell’interno delle carni del nemico attaccato per cui è necessario vincere la resistenza di queste.

Al contrario dell’artiglio, l’articolo basale si può muovere in più sensi e, assumere diverse posizioni: tali movimenti si compiono per l’azione di diversi muscoletti, contenuti dentro il cefalo-torace e situati all’intorno della glandula del veleno.

Allorché il ragno è riuscito a impiantare, mediante i vari movimenti combinati dei cheliceri, gli artigli nel corpo della preda o del nemico, la contrazione dello strato muscolare della glandula fa spremere dall’interno di questa il veleno che vi è raccolto, il quale, attraversando il canale escretore penetra nei tessuti sotto una certa pressione.

Come già si è accennato, la funzione di secernere veleno ha lo scopo precipuo di servire all’abbattimento della preda; questa di solito è costituita da insetti, i quali durante il loro volo o il loro cammino rimangono invischiati ai fili della tela e mentre si sforzano di liberarsi, il ragno, il quale sta in agguato, accorre, afferra la preda, vi affonda i suoi artigli inoculando il veleno che l’uccide quasi istantaneamente. Ridotto così il potere velenoso del nostro ragno alla sua entità di veramente pericoloso per le varie mosche, o farfalle che gli capitano a tiro; rimane pur certo che accidentalmente possono esser morsi da esso animali di maggior mole ed anche l’uomo. E ciò avviene specialmente d’estate allorchè i ragni pullulano rigogliosi, allorquando i lavori dei campi pongono maggior numero di persone nella condizione di maneggiare erbe o grani, ove di preferenza essi si nascondono, e nell’ora per lo più della siesta mentre i contadini riposano sdraiati e seminudi; se poi la stagione è ancor più calda e secca del consueto sembra che i ragni si facciano più attivi e i casi di morsicature allora son frequenti, tanto da aver assunto talvolta, in alcuni luoghi, la gravità di una vera e propria epidemia. Di solito il ragno punge quando si sente costretto o pressato; egli naturalmente si difende contro il presunto nemico.

Anche se alcuni autori ritengono nulli, o press’a poco, gli effetti della morsicatura sull’uomo, è non di meno accertato che tali effetti si verificano spesso con una certa imponenza, la quale se non deve allarmare il medico, può giustificare la temenza suscitata nel volgo dal Latrodectus. Questi effetti della virulenza del veleno possono variare molto e limitarsi talvolta a semplici fatti locali come arrivare a disturbi soggettivi gravi ed impressionanti; benchè non si debba ammettere oggi della possibilità di accidenti mortali, dovuti esclusivamente all’azione del veleno.

Nella valutazione degli effetti di quest’avvelenamento si deve tener conto di vari fattori, quali: la stagione più o meno calda e asciutta che pare influisca tanto sulla virulenza del veleno; le condizioni di maggiore o minore resistenza dell’individuo colpito; la grossezza del ragno e lo stato di carica delle sue glandole velenose, giacchè si capisce come un ragno che ha già punto poch’innanzi può inoculare minor quantità di veleno che se fosse in riposo da molto tempo. E appunto dalla variabilità di questi elementi determinativi che dipende, secondo me, quella disparità di giudizio che si constata fra i vari autori. Ad esempio: mentre Dafour non crede all’azione nociva di questo ragno, H. Lucas afferma esser stato punto più volte in Algeria senza averne avuti inconvenienti e Eug. Simon in Spagna non avere constatato che la gran paura dei paesani alla vista del ragno; Laboulbéne assicura essere il veleno dei Malmignatti poco o nulla velenoso nell’uomo e non avere effetti mortali altro che per gli insetti preda del ragno stesso; Duges dice che produce solo una sensazione di bruciore locale la quale dura al massimo due o tre ore; Toti e Cauro, invece, riferiscono casi mortali, Graels, Lambotte, Rossi, Keissler, Boccone, e più recentemente, Roger e Pini, stimano il veleno capace di produrre nell’uomo fenomeni talvolta gravissimi; Bordas, che ne ha fatto recentemente uno studio clinico molto accurato, esclude la gravità reale dell’avvelenamento, limitando gli effetti di questo a lievi fatti locali e a disturbi generali, i quali possono variare d’intensità da individuo ad individuo colpito, ma sono sempre guaribili senza cura in pochi giorni; Castelli, il quale ha avuto agio di osservare questo ragno in Sardegna, riconosce che la puntura di esso dà esigue lesioni locali e sintomi generali spesso imponenti; egli anzi riferisce che le sofferenze talvolta sono tali da indurre in tentativi di suicidio.

È da presumere che l’esito mortale, verificatosi nei casi riferiti da Toti e Cauro, non sia conseguenza esclusiva dell’intossicazione, ma piuttosto sia da imputarsi alle medicazioni barbare che talvolta erano usate, Cauro stesso riferisce che in Corsica il malato si poneva in forni ben scaldati e gli venivano propinate forti dosi di alcool; il Raikem critica pure i casi mortali di Toti, attribuendo piuttosto alla cura impropria unita a condizioni anormali dei malati, che al potere intrinseco del veleno, la estrema gravità riscontrata. Ma nel popolo la paura è stata ed è tutt’ora grande, e nei paesi dove il Latrodectus è conosciuto il timore per il suo morso è generale, perchè ritenuto veramente pericoloso. Intorno a questo ragno si sono diffuse credenze esagerate, frutto della facile credulità del volgo, e come conseguenza strane e superstiziose pratiche curative, se non spesso addirittura brutali.

In Sardegna e altrove si usava suonare e danzare in ridda rumorosa intorno al letto del malato; talora questo, per calmarne le sofferenze, veniva interrato persino nel mucchio del letame.

I casi di morsicatura da Latrodectus sono relativamente poco frequenti nel nostro territorio. Un’inchiesta eseguita presso i colleghi di Volterra mi ha convinto che i morsicati che capitano sotto l’osservazione del medico possono essere tre, quattro al massimo, in un anno e sempre durante l’estate; eccezionalmente di più, come pure, in qualche annata, nessuno. Eppure i ragni vi si trovano in gran numero, tanto è vero che ogni qualvolta io ho inviato persona pratica a ricercarne, me ne è stata portata un’abbondante raccolta.

I sintomi locali sono sempre lievi e circoscritti: due fini soluzioni di continuo, quali traccia della ferita prodotta dagli artigli del ragno, così vicine da confondersi in un unico punto scuro, spesso situato alla base di una piccolissima piega epidermica sollevata. All’intorno un alone rossastro o livido, e poi un modico edema circostante, non mal molto diffuso.

Sono i sintomi generali quelli che dominano il quadro della malattia, caratterizzati da disturbi a carico del sistema nervoso; ciò che fa ascrivere l’intossicazione da Latrodectus al tipo di Aracnidismo nervoso, secondo Houssay, o neuro-tossico secondo Mazza.

I fenomeni si avvicinano molto a quelli dovuti al morso della tarantola; che è poi un ragno molto affine al nostro, benchè appartenente ad un’altra famiglia, ed il cui morso, produce quella sorta di avvelenamento conosciuto col nome di tarantolismo, frequentissimo in Puglia e descritto magistralmente dal Baglivi fin dal 1699. Vale la pena riprodurre le parole con cui questo autore sintetizza la fenomenologia dell’intossicazione per il morso del ragno:

«Paucis elapsis horis a morsu, patientes ingenti cordis angore, gravi maestizia sed graviori spirandi difficultate, primo corripiuntur, oculis turbatis incipiunt, et interpellati ab astantibus ubinam doleant, vel nihd respondunt, vel affectam cordis regionem, manu pectori apposita, demonstrant, quasi cor prae coeteris officiatur».

Ad illustrare la sintomatologia dell’avvelenamento in seguito al morso del Latrodectus terdicim guttus di Volterra, riporterò la storia clinica di due casi, recentemente capitati sotto la mia osservazione.

PRIMO CASO

Rossi Terzilia, di anni 50, abitante in frazione Villamagna, colona. In un giorno dell’Agosto, mentre era intenta a falciare l’erba lungo la proda di un campo situato nei pressi di Villamagna, avvertì una puntura al polpastrello del pollice sinistro. Immediatamente insorse un vivissimo dolore a carattere utente, con sensazione generale di malessere, accompagnato da sudore freddo. Ebbe sul momento l’impressione d’essere stata morsa da un serpe, però, osservando il fascetto d’erba che aveva stretto in mano, potè scorgere un ragno, che subito riconobbe, date le caratteristiche note, per il comune ragno volterrano. Praticò allora col fazzoletto una legatura alla base del pollice e, quantunque avvertisse un senso di debolezza e di tremito interno e di grande malessere, da sè, alla meglio, raggiunse la propria abitazione per mettersi in letto.

Ciò che è notevole da rilevarsi è che fin dal primo tempo dopo la puntura avvertì un dolore folgorante, a trafitture, che le attraversava il cranio da tempia a tempia, e un dolore vivacissimo irradiantesi dal polpastrello del pollice ferito, dapprima lungo l’arto sinistro, poi diffusosi all’altro arto e a quelli inferiori. Poco dopo si iniziarono delle scosse muscolari improvvise, le quali terminavano in contratture doloroso nei muscoli; tali scosse si susseguivano a brevi intervalli e dapprima localizzate all’arto sinistro si diffusero al destro, poi agli arti inferiori; infine si generalizzarono fino a divenire sussulti di tutto il corpo. Le scosse assunsero il massimo d’intensità tre ore circa dopo la puntura, verificandosi allora, per breve tempo, anche netto opistotono, cioè contrattura ad arco della colonna vertebrale.

Ma ciò che costituiva una sofferenza grande per la donna erano i dolori, i quali si diffusero per tutto il corpo, esacerbandosi durante le contrazioni muscolari, e che davano come un senso di stroncatura. Verso la sera dello stesso giorno i disturbi si andarono attenuando e la mattina di poi residuavano rare scosse degli arti e leggero edema della mano; il pollice però era sempre dolente e sensibile molto alla pressione. Le scosse muscolari si fecero via via sempre più diradate cessando poi in ordine inverso a come si erano presentate, e cioè, dapprima agli arti inferiori, poi al superiore destro; persistendo fino al giorno seguente solo all’arto sinistro, ma molto distanziate fra loro.

Non ebbe febbre, il polso e il respiro non si alterarono, ebbe inappetenza; in complesso non si ebbero disturbi a carico dei vari apparecchi organici all’infuori dei su descritti. All’inizio del terzo giorno dopo la puntura, ogni manìfestazione era scomparsa, residuando, semmai, un senso di stanchezza e di vago malessere.

SECONDO CASO

Fulceri Emma, di anni 29, colona. Anche questa fu punta in uno dei primi giorni d’Agosto in un podere nei pressi della frazione Roncolla. Mentre falciava l’erba lungo un argine si sentì pungere nel palmo della mano sinistra. Istintivamente mosse rapida la mano o vide cascare in terra un ragno, il quale venne riconosciuto per i suoi caratteri per un ragno volterrano. Insorse subito nel punto della ferita vivo dolore, il quale, irradiò lungo il braccio: fu colta da un tremito generale e da una azione di grave malessere e d’angoscia: la donna si mostrava come in preda ad un grande spavento. Dopo circa due ore ebbe un leggero deliquio, ma ben presto si riebbe, tanto che alla meglio potè venire a piedi a Volterra, dove io la vidi, constatando nel luogo della puntura l’impronta evidente del morso del ragno, sotto forma di una piccolissima piega sollevata della cute con due finissimi punti scuri nel centro, circondata da un alone nerastro; vi era anche leggero edema della mano. Dopo poco i dolori insorsero di nuovo fortissimi alla mano e in tutto l’arto, che era come intorpidito e impossibilitato a muoversi; il gonfiore della mano aumentò; la donna era in preda a uno stato di smania di agitazione d’irrequietudine straordinaria e nello stesso tempo aveva senso di frustrazione e di stroncatura generale. Furono praticate iniezioni eccitanti e impacchi caldi alla mano. La sera ebbe vomito muccoso alimentare e presentò febbre a 38,6, che la mattina dopo scomparve. Per altri tre giorni soffrì ancora disturbi consistenti in spossatezza generale, senso di stroncatura allo gambe e d’indolenzimento nei muscoli, torpore psichico, perché appariva come sbalordita, inappetenza, nel mentre che la sete era viva. Non presentò mai cefalea forte nè convulsioni. Al quinto giorno si alzò, ma avvertiva ancora senso di stanchezza o di torpore generale.

La sintomatologia dei miei due casi non si differenzia da quella descritta e rilevata dai vari autori, i quali hanno studiato questa forma di avvelenamento.

Più o meno intensi, più o meno complessi, essi indicano un’alterazione della funzionalità del sistema nervoso.

Le conoscenze attuali che noi possediamo sul modo d’agire dei veleni dei vari animali (e diciamo anche sulla costituzione intima dei veleni stessi) non ci permettono ancora di stabilire in che consistano precisamente le alterazioni che avvengono nei nervi, nei muscoli o nei centri nervosi dell’animale intossicato.

Il dibattito su tale argomento è ancora aperto e il problema ha ancora molti punti oscuri. Il criterio, infine, che mi ha guidato nella compilazione di questo articolo, per renderlo il più possibile adatto alla natura della rivista, non mi permette di entrare in particolari strettamente scientifici.

Dirò solo che nel veleno del nostro ragno è manifesta la presenza di una sostanza con proprietà neurotossiche, di una sostanza velenosa, cioè, con azione elettiva sui centri nervosi; presentando perciò affinità col veleno prodotto dalla glandula della estremità caudale dello scorpione e delle glandule buccali di molti serpenti.

Il veleno di questi animali presenta pure la proprietà di agire sul sangue (azione emolitica ed emorragica); proprietà che non possiede il veleno elaborato dalle glandule dei cheliceri del nostro Latrodectus; nel mentre che – particolarità interessante – il fermento emolitico compare nei tessuti di questo ragno e specialmente nelle ovaie, durante il periodo della maturazione della uova, per scomparire col termine di questa funzione ed esser contenuto allora nella sostanza delle uova stesse.

Non mi dilungherò oltre sulla sintomatologia dello Aracnidismo da Latrodectus, nè sulle genesi dei fenomeni morbosi; basti concludere col ritenerli quali conseguenza di uno stato d’irritazione della corteccia celebrale per opera di un agente neurotossico contenuto nel veleno del ragno. I disturbi variabili nei limiti dell’intensità e della durata, a seconda della disposizione individuale, hanno sempre carattere transitorio e non grave, chè razione del veleno non è mai stata fatale.

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Riferirò ora i risultati di esperienze eseguite allo scopo di studiare l’azione del veleno del Latrodectus su alcuni animali. Premetto che i ragni sono stati raccolti e usati sempre nei mesi di Luglio e Agosto, nei periodi in cui il ragno mostra un esaltamento delle sue proprietà velenose; forse perchè questi mesi dell’anno corrispondono all’epoca della sua maturità organica. Ho diviso l’esperienze in due gruppi; nel primo gruppo ho studiato i fenomeni consecutivi alla puntura diretta dell’animale per opera del ragno, nel secondo i fenomeni consecutivi all’introduzione del veleno per via indiretta, iniettando il liquido di macerazione di glandule estratte dal corpo dei ragni.

PRIMO GRUPPO

1° Coniglio, del peso di grammi 1550. Lo faccio morsicare da un grosso ragno femmina al labbro inferiore. Il ragno un po’ irritato morde subito e rimane attaccato alcun tempo, dopo di cui si stacca spontaneamente e tende a fuggire. Il coniglio dà subito sogni di vivo dolore e si agita come in preda forte paura; viene inoltre colto da un tremito generale. Dopo il morso rimane per circa un’ora come intorpidito, tremante, sta ripiegato su sè stesso e rincantucciato con il pelo un po’ arruffato.

Nel punto ove il ragno ha morso si nota una macchietta violacea con, nel mezzo, un fine punto nero; il labbro è gonfiato; toccando la parte il coniglio si scuote vivacemente e grida dimostrando che avverte dolore.

Dopo due ore circa si manifestano scosse muscolari agli arti posteriori, le quali via via si fanno più forti e rapide, per cui pare che il coniglio tiri calci e a volte salti, appoggiandosi sui piedi posteriori; il tremito si fa più intenso. L’animale presenta gli orecchi molto caldi, si mostra irrequieto e manda gemiti, scappa da un’angolo all’altro della gabbia, anche senza esser molestato, e messo fuori di questa corre disordinatamente per la stanza dirigendosi a preferenza verso gli angoli e spesso sbatte contro i muri. Non mangia, mentre ha perdita frequente di feci e d’orina, per cui imbratta e si bagna le cosce e la pancia. Se viene toccato aumentano l’irrequietezza e le scosse.

Questo stato di cose dura per qualche ora; il giorno di poi, però, si mostra già migliorato, è più quieto, l’occhio è più vivace e benchè persista sempre leggero tremore, le contrazioni muscolari non si verificano più. Al terzo giorno mangia volentieri, soltanto si mostra alquanto diffidente e pauroso. Nel sito della puntura si nota ancora un po’ di gonfiore e una macchietta rotonda di colorito giallastro.

2° Coniglio. Peso grammi 1500. Vien fatto mordere al labbro superiore successivamente da due ragni. I fenomeni subbiettivi palesati dal coniglio sono identìci a quelli presentati dal primo. L’irriquietudine e le contrazioni muscolari si manifestano dopo un tempo minore e cioè una mezz’ora soltanto dopo l’essere stato morso; però le caratteristiche sono le stesse che nel precedente. Il giorno dopo il coniglio sta già meglio.

3° Coniglio. Peso grammi 1400. Fenomenologia ed esito in guarigione come sopra.

4° Coniglio. Del peso di grammi 1300. Viene fatto pungere da tre ragni. I fenomeni sono più rapidi a insorgere e assumono carattere più violento. Dopo circa due ore si hanno contrazioni spasmodiche dei muscoli dello labbra, per cui si scoprono i denti, scosse sussultorie di tutto il corpo e in seguito paralisi del treno posteriore, il quale è rilasciato o poggia inerte sul suolo. Insorge dispnea intensa, le congiuntive s’iniettano fortemente e a poco a poco si verifìcano tutti i segni del collasso; il coniglio dopo tre ore è morto.

5° 6° 7° Coniglio, di circa grammi 1300 cadauno. Vengono fatti pungere da tre ragni. Fenomeni di avvelenamento intensi ad insorgenza rapida; ma chi prima, chi dopo, in due o tre giorni si ristabiliscono.

8° 9° 10° Coniglio del peso di grammi 1300, grammi 1420 e grammi 1460 rispettivamente. Sono fatti mordere da cinque ragni ciascuno ai labbri e al padiglione dell’orecchio. La morte sopravviene nel 1° e nel 2° due ore dopo la puntura, nel 3° tre ore dopo. I sintomi d’irritazione nervosa furono gli stessi dei precedenti, cui susseguì, in tutti, la paralisi, delle arti inferiori. Dopo un periodo di forte dispnea seguì una respirazione irregolare, intercisa a scatti. La morte avvenne con fenomeni di collasso.

L’autopsia eseguita nei conigli morti N. 4, 8, 9, 1O fece rilevare una congestione dei vasi sanguigni meningei, e una leggera infiltrazione rosea della sostanza nervosa corticale. I polmoni erano pure congesti e presentavano piccole emorragie sotto pleuriche. L’esame istologico dei vari organi non mi dimostrò alterazioni di carattere degenerativo o infiammatorio; come pure non potei rilevare modificazioni strutturali delle cellule dei centri nervosi.

Avendo a disposizione quattro canini di pochi giorni, feci pungere anche questi, coi seguenti resultati.

Il primo canino, del peso di grammi 220, fu fatto mordere da un ragno in un punto basso dell’addome, ove poi comparve una macchietta rosea con lieve edema circostante. Il canino sotto il morso guaiva dando ad intendere le sue sofferenze. In seguito si mostrò inquieto, si lamentava, rifiutava il latte, che prima beveva avidamente, aveva tremito, stava raggomitolato, si metteva in piedi mal volentieri o sospinto a camminare si mostrava titubante, incespicava e mal si reggeva su gli arti di dietro. Il giorno dopo presentava diarrea. Al quarto giorno i fenomeni, che non si erano fino allora modificati andavano man mano attenuandosi: il cammino si fece meno incerto, ricominciò a nutrirsi, acquistò vivacità e le forze si ristabilirono. È da notare che la bestiola nel frattempo era notevolmente dimagrita.

Gli altri tre cuccioli, morsi ciascuno da un ragno, presentarono gli stessi fenomeni, e tutti, in quattro o cinque giorni, si rimisero completamente.

Di un gruppo di sei cavie invece, che feci mordere da un ragno ciascuna e che prosentarono segni d’intossicazione consistenti in irrequietezza, tremori, arruffamento del pelo, diarrea, e in alcuno anche in scosse muscolari cloniche, una sola morì dopo circa due ore dalla puntura, coi segni d’una paralisi muscolare invadente o di collasso terminale. Le altre cinque in due o tre giorni si ristabilirono completamente.

SECONDO GRUPPO

Per ottenere il veleno e farne una diluizione da iniettarsi agli animali da esperimento, ho cercato di estrarre le glandule dal corpo dei ragni senza che si perdesse porzione del veleno, giacche, come ho già accennato, è facile, irritando il ragno, fargli secernere il veleno raccolto nell’interno della glandula. Per far questo staccavo con un colpo rapido di forbice il cefalo-torace dall’addome, aprivo lo scudetto ventrale con un taglio nel mezzo e sollevando le due metà mettevo allo scoperto le due glandule, le quali, afferrate con una pinza, venivano, mediante leggera trazione, estratte facilmente senza che sfuggisse la più piccola parte di veleno.

Ponevo le glandule in un piccolo mortaio e aggiungevo soluzione fisiologica, triturando delicatamente. Dopo decantavo e raccoglievo il liquido di macerazione, tenendo conto della proporzione fra il numero delle glandule e il volume del siero fisiologico, in maniera che 1 cc. di questo corrispondesse ad una glandula. Si comprende che tutte le manipolazioni erano fatte curando l’asepsi più rigorosa.

Senza star qui a riportare il protocollo delle esperienze, riferirò i risultati ottenuti in 12 conigli, divisi in diversi lotti, a seconda della quantità di estratto iniettato; e cioè:

1° 2° 3° Coniglio. Viene iniettato sotto cute a ciascuno un cmc. di estratto, corrispondente ad una glandula. I conigli non avvertono disturbi se si eccettua qualche segno di lieve malessere transitorio.

4° 5° Coniglio. A questi vengono iniettati 4 eme. di estratto, e quindi corrispondenti al veleno di due ragni. I conigli mostrano ben presto irrequietezza, tremore, non però forte; ma dopo due o tre ore tornano ad essere normali.

6° 7° 8° Coniglio. Vengono iniettati a ciascuno cmc. di estratto corrispondenti al veleno di 4 ragni. Si banno intomi d’intossicazione rapidi a comparire e simili a quelli verificati nei conigli morsi dlrettamente da due ragni, e cioè malessere, agitazione, tremore, scosse muscolari. Il giorno dopo sono migliorati, al terzo rìstabiliti.

9° 10° Coniglio. Vengono iniettati parimente 8 cmc. di estratto, ma, invece che sotto cute, dentro la vena marginale dell’orecchio. I fenomeni tossici compaiono immediatamente e cosi pure le contrazioni cloniche e talvolta tetano dei muscoli degli arti posteriori. Dopo poche ore però i fenomeni si attenuano e scompaiono del tutto entro 24 ore; più rapidamente cioè che nei precedenti.

11° 12° Coniglio. Sempre per via endovenosa si iniettano 12 cmc. di estratto. Dopo pochi minuti si hanno scosse violente di tutto il corpo, alternate da rigidità muscolari; entro due ore si manifesta paralisi posteriore, dispnea, angoscia, cui segue un’inerzia progressiva e morte alla terza ora.

Coll’iniezione quindi dell’estratto di glandule si ottengono gli stessi fatti da avvelenamento; va però osservato che se il veleno agisce con più rapidità, in quanto è abbreviato il tempo di comparsa dei fenomeni, tempo che si riduce al minimo quando si immette il veleno nel torrente circolatorio mediante puntura endovenosa, l’estratto glandulare si mostra meno attivo del veleno introdotto direttamente nei tessuti dal ragno con il morso; nel senso che per ottenere effetti equivalenti occorre iniettare una quantità di estratto corrispondente ad un numero superiore di glandule viventi.

Un’altra osservazione che ho potuto fare nel corso delle mie esperienze è la seguente. Avendo triturato le glandule in soluzione fisiologica, aiutandomi con fine polvere di quarzo, filtravo in seguito attraverso candela di porcellana. Il filtrato veniva poi iniettato ai conigli secondo le modalità cui sopra. Ebbene, anche usando quantità grandi di estratto grandulare, corrispondenti ad un numero di 1O, 12 e perfino, in alcuni conigli, di 24 glandule, non si provocava negli animali iniettati, sia sotto cute sia per via endovenosa, disturbi di sorta, nè immediati nè secondari. Io interpetro tali risultati negativi come dovuti al fatto che il veleno del ragno non attraversa i pori del filtro di porcellana, data la sua costituzione globulare, quale si osserva all’esame diretto microscopico.

In ultimo ho voluto saggiare se il veleno del ragno avesse potere emolitico, cioè fosse capace di sciogliere i globuli rossi del sangue. Si è già visto come le ricerche più recenti abbiano dimostrato che nel corpo dei ragni, e specie nell’ apparecchio genitale della femmina, si trova una sostanza tossica con spiccate qualità emolitiche; ma indipendente dal veleno delle glandule dei cheliceri.

Ad ogni modo, dappoichè alcuni autori, fra i quali, da noi, il Pini, hanno affermato senza specificare che il veleno del nostro ragno ha proprietà emolitiche, ho ritenuto opportuno fare alcune ricerche in proposito.

A questo scopo – non riferirò i particolari della tecnica dell’emolisi, nota a tutti gli studiosi – ho usato globuli rossi di coniglio, agnello, bue ed anche di uomo. Ho eseguito molteplici esperienze, sia adoprando estratto glandulare solo, sia aggiungendo una quantità di lecitina, la quale è considerata come sostanza eccitatrice del processo emolitico, senza mai ottenere emolisi; dimostrando, in tal modo, che il veleno dei cheliceri del Latrodectus non ha proprietà emolitiche.

CONCLUSIONI

Il ragno volterrano (Latrodectus terdecim guttatus} non è esclusivo del territorio volterrano, ma è assai diffuso in molti paesi. Il suo veleno non è mortale che per i piccoli animali, i quali sono preda abituale del ragno stesso.

Negli animali di maggior mole (cavie, conigli, cani ecc.) produce gravi disturbi; ma per provocare la morte occorre il veleno di più ragni.

Nell’uomo è pure tossico, ma i disturbi che determina, anche se apparentemente imponenti, non devono esser considerati gravi; ma transitori e non mai capaci di provocare la morte.

Il veleno delle glandule del ragno non è filtrabile attraverso candela di porcellana ed è sprovvisto di proprietà emolitiche.

© Accademia dei Sepolti., VEZIO GIUSEPPE
Falange Volterrana, in “Rassegna Volterrana”