Il falso Estratto del Camerotto di Volterra

La denuncia pubblica di falsità del Cod. cart. ms. Guarnacciano, intestato: Estratto delle scritture che risiede nell’Archivio ossia Camerotto della città, fatta nel 1561 apparve nelle Forschungen zur alteren Geschichte von Florenz di Roberto Davidshon (Berlino 1896), in un capitolo intitolato l’“Estratto del Camerotto di Volterra”. Si tratta di un volume cartaceo, anonimo in 4° grande, di cui 218 ff. sono manoscritti e contengono sunti di documenti che rimontano al sec. VIII, ma più specialmente riguardano la seconda metà del XI e il XII secolo; grandemente importanti per la storia della Toscana in generale e del territorio volterrano in particolare.

La prima osservazione che farà dunque il lettore sarà questa: Perchè ce ne venite a parlare dopo tanto tempo? Giusta osservazione che merita una risposta. Se, quando vennero in luce le “Forschungen” si fosse saputo contestare l’esattezza della denuncia, non è dubbio che sarebbe stato necessario rispondere immediatamente per ristabilire la verità. Ma sulla falsità del codice non è possibile sollevar dubbi. Il sospetto si presenta subito alla considerazione che neppure uno dei documenti, di cui l’Estratto figura di essere un sunto, si trovava esistente, quando il Cecina per commissione del Consiglio Generale del comune, compilava nel 1732 la sua Epitome, nè, tanto meno, quando le membrane volterrane, per decreto del Granduca Pietro Leopoldo, nel 1778, furono riunite nel Diplomatico Fiorentino; e vennero in parte riassunte, in parte integralmente trascritte dal P. Nocetti Agostiniano. Regesti che si conservano, ambedue, nella Biblioteca Guarnacci. Onde si dovrebbe supporre che, per un incendio o altra causa di distruzione, di che non si ha, del resto, nessuna notizia, fossero andati perduti tutti e soli, tra il 1561 e il 1732, i documenti comunali registrati nell’Estratto. Un rigoroso esame poi del contenuto, come ha fatto il Davidshon e che sarebbe ora inutile riassumere, non può fare, come egli dice, che il sospetto non si tramuti in certezza.

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Ma, alla dimostrazione della tesi su esposta, il Davidshon aggiunge altre affermazioni su le origini e i motivi, che il falso, secondo lui, avrebbe avuto: ed è qui che egli cade in grave errore. Non sembra tardivo e inopportuno rilevarlo e confutarlo, poiché si tratta di questione prevalentemente locale, subito che compare alla luce.

La falsificazione è veramente magistrale: il Davidshon stesso dichiara che il falsificatore fu valentissimo artefice e che non gli si può negare una conoscenza straordinaria della Storia della Toscana, in tempi molto lontani; e l’abilità di render credibili le finzioni, appoggiandole, per la massima parte, su fatti reali. Di qui la fortuna che ebbe la falsificazione, non avvertita da molti dei vecchi storici; dai quali le notizie passarono, di seconda mano, in opere più recenti, da Scipione Ammirato e dal Tronci, per dir solo di alcuni, giù giù al Passerini all’Hartwig, all’Overmann; specialmente dopo che Annibale Cinci dette in luce la Storia volterrana del Provveditore Raffaello Maffei, rimasta inedita per circa due secoli, la quale si fonda, specialmente pei sec. XI-XII, su i sunti dell’Estratto, e fu, dice il Davidshon, come il veicolo per la più larga diffusione delle false notizie.

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Su questo punto è pertanto superfluo indugiarci. Ciò che a noi importa è invece prima di tutto far sapere che la proposizione delle Forschungen non è affatto una scoperta od una rivelazione; ma era stata presentita dai migliori scrittori di cose volterrane che condussero i loro studi su l’esame accurato e sincero dei veri documenti della nostra storia. Infatti nè il Cecina nelle sue Notizie storiche della Città di Volterra nè il Giachi nel suo Saggio di ricerche su lo stato antico e moderno di Volterra considerarono l’Estratto, come fonte autentica, nè si riportarono mai ai sunti di pretesi documenti in esso contenuti. E l’Ormanni, eruditissimo Direttore dell’Istituto Guarnacciano, in un foglio di riscontro delle carte mandate al Diplomatico fiorentino, scrive dell’Estratto supposto del 1561, ma veramente del ‘600: ma rilevare la insincerità della data, che altro è se non insinuare il dubbio su l’autenticità della compilazione? Finalmente anche il Repetti non si valse affatto dell’Estratto per il suo monumentale Dizionario della Toscana. E’ pertanto evidente che tutti costoro avevano avvertito la molto dubbia autenticità del Codice; ma si erano astenuti dal proclamarla pubblicamente, per il riserbo proprio dell’indole e delle abitudini loro; limitandosi a non tenerne nessun conto, come cosa di nessun valore probatorio.

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In una nota alla storia del Maffei, sopra citata, il Davidshon trova che, con provvisione consiliare del 1557, fu ordinata la compilazione di un inventario di tutte le scritture del Camerotto. Ecco l’autore della falsificazione. “Il compilatore dell’Estratto, – egli dice – è evidentemente identico con la persona che fu incaricata della compilazione dell’inventario”. E più oltre aggiunge: “Si lascia congetturare quale scopo volesse raggiungere il falsificatore, quando egli abusava di un incarico di ufficio, registrando finti sunti di documenti, in un libro, il quale doveva servire come inventario”.

La supposizione, anzi l’accusa, del Davidshon che si debba imputare la falsificazione agli Ufficiali del Comune nasce dal ravvicinamento della data della citata deliberazione 1557, con la data dell’Estratto 1561. Ora è certo che questo, come osservava l’Ormanni, non è del sec. XVI ma deve attribuirsi, senza esitazione, ad un secolo posteriore: basta guardare il manoscritto per esserne convinti. Del resto non fu, quella del 1557, la sola deliberazione che constatasse il disordine dell’Archivio e proponesse la redazione di un inventario regolare. Tali deliberazioni sono, un po’ come le Gride dello Stato di Milano contro i Bravi, di cui parla il Manzoni. Si succedevano, l’una all’altra, a breve distanza, senza che nessuna, pare, raggiungesse l’effetto voluto. Io ne ho trovate ben trenta dal 1502 al 1575; tutte, presso a poco, nei medesimi termini e con le stesse raccomandazioni e ingiunzioni. Sparisce quindi quel rapporto di date, dal quale il Davidshon ha dedotta la sua conclusione. Inoltre l’Estratto anche nella sua forma esteriore, non ha carattere di inventario; tanto che contiene sunti, oltre che di documenti del Comune, anche, nelle ultime 100 pagine, di molti altri, tuttora, almeno in parte, esistenti nell’archivio capitolare. Sì per la forma, sì per il contenuto, esso simula niente altro che uno spoglio, da un qualche studioso fatto per suo uso particolare.

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Fortunatamente siamo in grado, non solo di escludere l’idea di una falsificazione ufficiale; ma di poter indicare anche il compilatore: il quale si rivela, dalla stessa mano della scritture, che è di Curzio Inghirami. Il fatto non meraviglierà certo chi sa delle ingegnose falsità documentali ed epigrafiche tanto comuni nel sec. XVII, in cui fiorì l’Inghirami dottissimo tra i dotti del tempo suo. “Si lascia ben comprendere” – scrive il Davidshon – “quale scopo volesse raggiungere l’Autore del presunto spoglio: le invenzioni tendevano, in generale, ad attribuire a Volterra una parte specialmente importante negli avvenimenti e a riportare lo stato di qualche famiglia a un tempo molto più antico: particolarmente gli Inghirami sono spesso rammentati.” E infatti il finto regesto di documenti medioevali serviva, anzi dava l’ultima mano, a un vastissimo disegno, che Curzio Inghirami aveva concepito per esaltare Volterra e farla apparire come elemento di principale valore nella Storia d’Italia. Nel 1637, dopo la scoperta, che egli annunciava di aver fatta, nella sua villa, di Scornello, dei famosi Scaritti, nei quali sarebbe contenuta gran parte della storia e dei riti e dei vaticini etruschi, egli pubblicò Etruscarum antiquitatum fragmenta che sollevarono sì viva e larga discussione tra i dotti e dettero luogo alle Animadversiones in E. antiquitatum fragmenta Leonis Allatii; e alla replica apologetica dell’Inghirami stesso, che, a giudizio del Giachi, per la sua dottrina, gli fece più onore che non il ritrovamento sospetto.

L’Estratto continuava, per il Medioevo, l’opera che, con gli Scaritti, Curzio Inghirami si era proposto per l’età antica. E, come egli stesso svolgeva negli Annali Toscani rimasti inediti, il materiale fabbricatosi con gli Scaritti, così il Provveditore Raffaello Maffei attingeva largamente oltre che alle genuine fonti, a quella impura dell’Estratto inghiramiano per la sua pur sempre giudiziosamente consultabile Storia Volterrana edita, come si è detto da Annibale Cinci, nel 1887. Che il Provveditore Muffei se ne servisse in piena buona fede, secondo il Davidshon, fa meno meraviglia del non essersi, nè alla pubblicazione del manoscritto nè dopo, sollevato nessun sospetto contro quel regesto di documenti. E’ però molto da dubitare che il Maffei fosse ignaro della nuova invenzione dell’amico Inghirami, quando si vedono i due nomi associati in una singolarissima attestazione.

Tra le notizie date dall’Estratto, tiene per importanza il primo posto quella della venuta di Carlo Magno nel 774 nel villaggio di Villamagna presso Volterra, dove il Viceduca Resonulfo e i Castaldi Roderigo e Riburbo avrebbero al grande Carlo venduta la città. Per un fatto così straordinario parve all’accorto compilatore evidentemente troppo poco la testimonianza di un anonimo sunteggiatore di membrane.

Ed ecco che nel Processo delle Sacre Reliquie del 1649, che è una relazione redatta per servire all’opera dei Bollandisti, da Curzio Inghirami e dal Provveditore Raffaello Maffei, si trova modo di attestare, in via incidentale, la esistenza del prezioso documento: Quod – dice il compiacente notaro – egomet olim vidi et legi et domini Raphael et Curtius nunc in secreto vulterranae civitatis tabulario conservari testantur. Prudentemente il notaro si rifugia, per conto suo, in un vago lontano ricordo – olim -; addossando su gli altri la responsabilità della affermazione incontrollata. Non è certo fare onta all’insigne erudito, riconoscergli la paternità della dotta invenzione, quando si tratta di purgare gli ufficiali del Comune da un’accusa ben altrimenti grave, come è quella del D., di una vera e propria falsità, commessa nell’esercizio del loro ufficio.

Un discendente di Curzio Inghirami, grande davvero e di autorità tutt’ora riconosciuta dagli archeologi per le sue opere, che dettero un nuovo indirizzo allo studio delle antichità etrusche, Francesco Inghirami, scherzava argutamente su Le imposture di Curzio. Bisogna però convenire che questi, nell’ordire quelle sue imposture, dette prova di un ingegno non comune, e fu aiutato dalla sua vasta erudizione, tanto abile nel presentarle, che occorsero quasi due secoli perchè apertamente venissero riconosciute.

© Accademia dei Sepolti, EZIO SOLAINI
Il falso Estratto del Camerotto di Volterra, in “Rassegna Volterrana”, n.1