Gli atti di questo processo, che per aver contribuito validamente all’affermazione di un principio di diritto penale, ebbe la ventura di sfuggire al naufragio e all’oblio negli sprofondi degli archivi giudiziari, permettono di sollevare dalle caligini del passato una pagina di cronaca cittadina, una triste pagina di miseria e di fame. Precisamente il 17, il 18, il 19 agosto del 1893, si svolsero i fatti che dettero origine al processo; ma essi non furono che il clamoroso epilogo di un marasma economico, che da anni travagliava la nostra città, essendosi verifìcato un tremendo e persistente arresto nel commercio dell’alabastro, che dava i mezzi di sussistenza a centinaia di famiglie di lavoratori, cui mancavano altre possibilità di scampare la vita. A quei tempi l’isolamento di questa città, erta sul poggio, dominante, di qua, le desolate «biancane», di là le campagne solitarie, era quasi assoluto, essendo disagevoli e lenti i mezzi di comunicazione; niente ferrovia, niente automobili, niente telefono (il telegrafo, sì, c’era); c’erano le diligenze per Colle e per Saline, le vetture del Simoneschi e di Castagna, qualche barroccio e le prime biciclette.

Taluni, mossi da avventuroso spirito mercantile, erano, negli anni precedenti, partiti per l’America portandosi con se dei carichi di lavori di alabastro; qualcuno non era più ritornato da quelle terre lontane (allora lontane davvero!); qualcuno era tornato con dei soldi, aveva fatto altri viaggi, si era arricchito, ma ormai anche l’America non ne voleva più sapere di quella mercanzia e non si vedeva dove diavolo collocarla. Né c’erano quelle istituzioni di previdenza e di assistenza, che esistono oggigiorno; né era sorta ancora quella Cooperativa dei lavoranti in alabastro, che, credo, venne istituita proprio in occasione di questa crisi.

Si sa, fra tanti, ce n’era qualcuno dei migliori, dei veri artisti, che riusciva a smerciare qualche pezzo, campando alla bene e meglio; ce n’era anche di quelli (pochi) che avevano messo da parte dei quattrinelli al tempo delle vacche grasse; ma in generale quella classe di lavoratori era alla disperazione.

Lo sgomento e la tristezza gravava nella città; le valli d’intorno e i luoghi aperti, come i famosi «massetti» di S. Andrea (ora scomparsi sotto i recenti fabbricati) non risuonavano più dei canti, che coronavano con patetici abbandoni verdiani o belliniani, le belle riunioni di mangiatori e bevitori, le cosidette «bisbocce», o «ribatte», che avevano allietato altri tempi, felici e spensierati.

Ho sentito dire che, in Piazzetta di S. Michele, gli scolopi mettevano su un caldaione di polenta, per sdigiunare i più affamati; altre opere di bene venivano compiute, ma erano rimedi insufficienti, anzi non erano affatto rimedi ed anche le autorità non sapevano che pesci prendere.

Ce n’erano, poi, di quelli poco scrupolosi, che sfruttavano l’estremo bisogno per comprare, diciamo meglio, per carpire, con un tozzo di pane, dei lavori, che, non so come, avevano modo di smerciare.

Ad un certo momento la corda si spezzò e successe quel che successe.

Grazie a Dio, niente di tragico; la mitezza propria del carattere volterrano, non era venuta meno, neppure in mezzo a tante miserie. Si volle soltanto ottenere con la forza quello, che il flusso naturale del commercio, l’umanità e la giustizia non erano stati in grado di concedere.

E fu così che il 17 di agosto del 1893, un certo Pietro Volterrani, che si trovava in piazza dei Priori nel caffè Parducci (forse era quello d’angolo, che fu poi del Bardola e in seguito d’Ugo e dopo non so di chi), venne affrontato da due alabastrai, i quali precedevano una turba tacita, ma dall’aria poco rassicurante, e fu «pregato» di comprare degli oggetti di alabastro. Esso si schermì, dicendo che quelli erano articoli che non si confacevano al suo commercio e che, d’altronde era sprovvisto di danaro. Ma gli venne obiettato che, a casa, i danari ce li aveva di sicuro, al che egli rispose, ingenuamente, che non ci aveva più di quattrocento lire. E allora, con buone maniere fu costretto a recarsi a casa, in compagnia di tutta quella turba ed acquistare oggetti, per lo più di scarso valore, sino all’importo di lire quattrocento esatte.

Ho dimenticato che, mentre si svolgevano in Piazza le «trattative» col Volterrani, un tal Cav. Achille Guerrieri, incautamente, si appressò, domandando di che cosa si trattasse; ma ebbe un’incresciosa spiegazione, consistente nel fatto di dover comprare, tamburo battente, articoli d’alabastro per ben settecento lire, che esso si fece imprestare dal Fontanelli, quel lumaio che aveva la bottega nell’angolo di via delle Prigioni.

A quei tempi, che si faceva la spesa di famiglia con un franco, quelle erano cifre rispettabili.

Il disordine continuò anche nei giorni successivi, 18 e 19 agosto; i commercianti in generi di alabastro venivano braccati, minacciati, ingiuriati (non vi furono, a quanto appare dal processo, vie di fatto) e costretti a fare non graditi acquisti da quella turba di circa un centinaio di alabastrai, che vagava per la città ed era sempre presente, anche quando non si mostrava, a tutte le imposizioni e le minaccie. «Vi siete arricchiti col nostro lavoro, gridavano, ed ora ci dovete aiutare!».

Così venne la volta di Alessandro Miranceli, che venne insolentito e apertamente e clamorosamente minacciato; esso si rifugiò nella Farmacia Cerri (chi lo ricorda più l’onesto Francesco Cerri, sterpigno, con quella barbettina che pareva un ciuffo di scope della natia maremma?); ma anche il Miranceli non riuscì a sfuggire e infìne dovette comprare e pagare. E così Pietro Cappelli, pur avendo cessata ogni attività commerciale; e così Alessandro Bolognesi, che se ne andava a spasso serenamente ottimista, perché, avendo lavoranti propri, pensava di poter stare tranquillo. Risultò al processo che dovette comprare una buona partita di oggetti, ma volle la presenza degli avvocati Cailli ed Ormanni.

Poi fu la volta del Trinciarelli, poi del Pochini. Quante persone scomparse da decenni, rivivono nelle carte di questo processo!

Dopo un’istruttoria, che a noialtri, avvezzi alle interminabili procedure odierne, appare rapidissima, vennero rinviati al giudizio Lazzeri Rodolfo di anni 29, Pasquinelli Adamo di anni 23, Milanesi Guglielmo di anni 31, Salviati Pilade di anni 36, Bernardeschi Cesare Ernesto di Pietro di anni 25, Lazzeri Pietro chiamato Corrado di anni 19, Ridolfì Antonio di anni 30, Moltomoli Roberto di anni 38, Tognetti Enrico di anni 20, Dello Sbarba Pilade di anni 31, Soldi Valentino di anni 41, Canigiani Guglielmo di anni 33, Fratini Luca di anni 31, Landi Astolfo di anni 36, Taddei Cherubino di anni 49, Silvi Vittorio di anni 32, Lazzeri Ferdinando detto il Casini di anni 22.

L’imputazione era di violenza privata ai danni delle persone su ricordate. Dello svolgimento dell’azione giudiziaria, nella quale vennero accertati i fatti narrati e che si chiuse con lievissime condanne e varie assoluzioni, resta poco da dire. Nessuno c’è più al mondo che possa ricordare i particolari di questo processo e in special modo l’arringa di Enrico Ferri, avvocato principe del Foro Nazionale e scienziato del diritto, il quale assunse la difesa dei numerosi accusati, e sostenne la responsabilità ridotta nei delitti della folla.

© Pro Volterra, UMBERTO FOSCANELLI
Il processo degli alabastrai, in “Volterra”