Anche i ricordi delle cose hanno le loro stagioni: non c’è inizio di primavera che non mi riporti agli occhi della mente le violette di sotto San Giusto, quelle che fiorivano lungo la scorciatoia che si apriva sulla sinistra andando verso il poggio, quasi all’altezza delle Balze. “Sotto San Giusto” era un nome che le avevo messo io.

Stretto. Proprio un sentierino strettissimo, ma quasi pianeggiante che sempre in costa, conduceva in città facendo risparmiare un quarto d’ora di cammino o forse più. Intagliato come un solco sul fianco del poggio, richiedeva attenzione: non si poteva camminarci con lo sguardo rivolto al panorama del fondo valle, così, a forza di guardare in terra mi accorsi di tutte quelle piante di viole anche se l’inverno crudo le aveva rattrappite. Ai primi di marzo, parvero prendere coraggio e cominciarono a distendere e aumentare le foglie, un po’ di sole bastò a far alzare gli steli con i bocci, e infine venne il giorno che potei cominciare a farmene mazzolini e poi mazzi.

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Tornavo a casa affondando ogni tanto il viso in quel profumo tenue che i calendari illustrati del tempo indicavano come particolarmente adatto a «fanciulle timide e gentili». Io non ero una fanciulla timida e gentile, ma le violette mi piacevano lo stesso. Le coglievo con attenzione, me le guardavo con amore e credendo all’anima delle cose si potrebbe dimostrare che ne fui ricompensata: le violette di sotto San Giusto vennero a trovarrnì cinque anni dopo, in una strada gelata della Germania regalandomi una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Una esperienza magica, appunto di cui le ringrazio ogni anno, come posso, cioè ricordando come erano belle in quella scorciatoia che ora non c’è più.

A Malekow, d’inverno e di notte. Facevamo i turni e la fabbrica era molto lontana perciò bisognava marciare rapidamente, con un duro rumore di zoccoli, stringendoci sotto braccio per l’illusione di un filo di calore a difesa dal nerissimo gelo che ci circondava.

Era faticoso e anche noioso, così avevo preso l’abitudine di marciare con gli occhi chiusi, ascoltando il ritmo scandito dalla fila; un modo come un’altro di ingannare quel percorso che sembrava non finire mai: una parete nera di abeti a destra e una a sinistra, in mezzo, il baluginare biancastro della strada che portava alla fabbrica mimetizzata nella foresta.

Mi mettevo sempre all’interno della fila, in modo che la stretta delle compagne mi permettesse di procedere diritta, nel buio e in silenzio, cambiando abitudine soltanto al ritorno dal turno di notte, quando la grande stella di cui nessuno ricordava il nome, brillava splendidamente pura nel cielo che annunciava l’alba.

– La nostra stella! Guarda, la nostra stella ci saluta!

Le ragazze si voltavano a guardarla. Il loro bisogno di protezione e di speranza era tale che avevano trasformato quel corpo remoto in un fulgido segno di buon augurio, lo sguardo di una potenza infinita che irradiava per loro, pietosa e benevola, quella luce brillante.

Sorridevano, ripetendo le solite frasi: ormai la guerra stava per finire, l’eco dei bombardamenti si faceva più distinto, i russi avanzavano. Pur esauste dal lungo lavoro e dal lungo cammino trovavano la forza di ripeterselo, lungo la strada e in baracca, prima di precipitare in un sonno che sembrava morte.

– Ma cosa fai? Hai bevuto?

Quando cominciavo a sbandare, mi rimettevano in sesto con uno strattone. Spalancavo gli occhi e subito li richiudevo perché volevo vedere contro il nero delle palpebre le violette che in quel mese dovevano cominciare a fiorire nella scorciatoia di sotto San Giusto. L’istinto di conservazione mi spingeva a cercare conforto non rievocando persone, ma cose: le cose, infatti, mancano del risvolto doloroso indiscindibile di ogni relazione umana. Pensavo alle violette evocandole con passione e pedanteria, fino a vedere le foglie contro il colore argilloso del terreno, il puntino giallo nel cuore di ogni fiore e il viola che in alcune era più tenero e quasi sbiadiva nel lilla, fino a sentire contro il ginocchio il sasso su cui mi ero poggiata.

Le pensavo con intensità e con calma.

La strada era lunghissima, il turno di notte durava una settimana; il tempo per evocarle non mi mancava di certo. E, fìnalmente, una notte le violette di sotto San Giusto arrivarono davvero.

All’improvviso, così vicine che non ebbi modo di vedere il terreno, così profumate che le narici si dilatorono aspirando con delizia. Una gran macchia viola incorniciata di verde, un mazzo di violette scure e profumate.

Le vedevo e, contemporaneamente, le sentivo. Una carezza fresca contro e il naso e le guance; una sconvolgente, tenera carezza di velluto.

Di colpo mi fermai, spalancando gli occhi. Le violette, le violette! Sotto l’urto del sangue il cuore sembrò fermarsi, poi riprese a battere, disordinato e violento, mentre la testa avvampava. Le violette!

A occhi aperti mi parve di di scorgere ancora un confuso lampo vardeviola. Subito dopo tornò il buio: gli abeti come un nero più nero, la strada come una guida biancastra, intorno l’odore asprigno della terra gelata.

Non c’erano più. E vano fu ogni sforzo per richiamarle. Per giorni e giorni, con passione e con fede, invocai che le violette di sotto San Giusto ritornassero a visitarmi, le pregavo come si può pregare una immagine venerata. Ma ogni implorazione fu inutile: le violette volterrane non ripeterono il viaggio.

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© Pro Volterra, LIANA MILLU
Le violette di sotto San Giusto, in “Volterra”