Agli inizi del 1920, poche abitazioni potevano godere dell’illuminazione elettrica di recente giunta in città perciò le abitudini dei volterrani erano delle più semplici e il loro carattere di una grande ingenuità. Il loro modo di pensare gli veniva dai «secoli bui».

Le nostre nonne ci ninnavano addirittuna con delle storie venute a noi dall’alto medioevo. Si credeva agli spiriti. Si credeva che questi, al calar delle tenebre, quando si accendeva la candela o il lume a petrolio, cominciassero a vagare nella penombra, nel buio delle altre stanze, nelle quali senza il «lume» non tutti osavano entrare. Primordiali credenze, di notte, ci inibivano. Vi erano delle case che nessuno voleva abitare: c’erano gli spiriti, ci si sentiva.

La mia povera mamma mi raccontava di aver sentito più volte da bambina, uno spirito chiamare aiuto. Lei viveva al podere detto «Il Purgo di sotto», in prossimità delle Balze.

Un giorno un contadino, chissà perché, si suicidò buttandosi nel baratro. Da allora nelle notti d’inverno quando più forte infuriava il vento e la tempesta, coloro che abitavano nei poderi vicini alle Balze, presi da una psicosi collettiva, sentivano una voce disperata venire dall abisso urlare un nome: «Gigiii…»

Questo Gigi abitava all’ultimo podere in fondo alle Balze; il podere dal quale maggiormente si udivano queste, invocazioni. Forse era un parente, forse un amico del suicida, chissà? Il fatto è che ancora oggi, questo podere, lo chiamano «Le Paure».

Gli spiriti erano le anime dei defunti che di notte vagavano nell’ambiente dove erano vissuti. Si diceva che l’anima di chi si suicidava stava in pena per tutti gli anni durante i quali avrebbe dovuto vivere e questa pena la portava a manifestarsi in modo pauroso. L’unica maniera per placare quest’anima, erano le preghiere e le benedizioni dei luoghi in cui questi fenomeni avvenivano. Se queste cose terrorizzavano i grandi, figuriamoci i ragazzi. Per farci star buoni ci dicevano: «Un ci andà costà, c’è li spiriti!»

Quando di sera, soli, salivamo le scale di casa, per farci coraggio si cantava, credendo con questo, di farci largo tra tanto mistero, nell’innocente tentativo di allontanare da noi, queste paurose anime inquiete.

Fu in questa Volterra arcaica e sempliciona che un giorno una notizia scoppiò come una bomba: «L’Omo Nero». Essa si diffuse nella città come un lampo; dai Borghi a San Lazzero essa si ingigantì, terrorizzando i più creduloni. Era stato visto più volte un uomo calarsi giù dal muro della Via di Castello e dileguarsi tra le tenebre degli orti. Ne seguì una allucinazione collettiva; la gente cominclò, a vederlo dappertutto, nei luoghi più impensati.

lo stavo nel Vicolo delle Prigioni. Una finestra mi dava nel giardino del Palazzo Ruggeri. Con terrore, suggestionato dai dìscorsi degli adulti, vidi un’ombra salire un muro impossibile di una casa e sparire nel buio della sera.

In questo clima, cominciò la caccia all’Omo Nero. Giovanotti armati di randelli; la notte andavano nella via di Castello per far luce in tanto mistero, ma in quelle notti, l’Omo Nero, non si faceva vivo.

Forse poteva essere anche lui tra loro. Forse, nei fumosi bar, allora sempre pieni di gente che giocava a carte, a biliardo, lui, poteva sentire i discorsi di tutti e meditare se era il caso di rischiare. Per questo fatto forse, le sue apparizioni si fecero sempre più rare e col tempo, l’Omo Nero, sparì.

Se ne parlò sempre più di rado. Si disse poi che era un uomo che scendeva quel muro per andare dall’amante. Se davvero era un uomo che per amore rischiava tanto, si doveva trattare di un grande amore, di un amore proibito, inconfessabile: se così fu, i due amanti seppero portare nella loro tomba il loro grande segreto.

Nessuno seppre mai, con precisione chi fossero.

© Pro Volterra, PIETRO CHIARINI
L’Omo Nero, in “Volterra”