Ma nel ’43 o nel ’44?

Puntuali come una febbre del fieno, appena riviene Maggio, rièccoteli fuori, i ricordi. Ma di anno in anno, e ormai ne son passati parecchi, sempre più labili e rimpiccioliti, quasi immagini osservati col cannocchiale alla rovescia. Non solo, ma anche sempre più frammentari e slegati, per cui mi sarebbe impossibile oggi tirar fuori da quegli eventi una trama da farne un racconto.

Potrebbe afferrare l’idea qualche anziano, solo che ricordi “la lanterna magica”, quella misteriosa cassettina dalla quale un pezzetto di fumosa candela faceva uscire e fermarsi sul muro la danzatrice in gonnellino, e poi una farfalla variopinta, e poi un pagliaccio e un pappagallo e un diavoletto. Immagini dai colori smaglianti, ma senza nesso fra loro, calcomanie appiccicate sul vetro, accostate a capocchia: vivaci, e pur morte, senza un muover di ciglia, senza un battito d’ali.

I librettini a disegni animati vennero dopo, ma noi s’era già grandi. Ed ecco: ma, nel 1943 o nel 1944?

M’incontrò Guido, quello della Questura, e mi disse senza tanti preamboli:
– Li vogliono arrestare. C’è una nota lunga. Una trentina.
– Chi? – dissi io.
– Non me li ricordo tutti. Non ho fatto in tempo a copiarla, l’ho letta in furia. In cima c’è Tobia, e subito dopo c’è Beppe, c’è anche Arnaldo un po’ più in giù. Prima di lui dell’altri, e dopo anche dell’altri. Appena lo so te li dico.
– E intanto, che fai?

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L’ambulatorio era aperto, e seduta in attesa c’era una donna che non conoscevo. Si accapò la Beppina per fare uscire il paziente ch’era dentro, e mi vide, e dovette capire qualcosa perché mi disse:
– E’ un momento, una ricetta e basta.
Quando entrai, Beppe era in camice bianco, sempre massiccio, ché da mangiare non gli mancava, con la sua professione. La Beppina era sparita, Beppe aveva bell’e capito che c’era qualcosa. Il colloquio fu breve:
– Sei nella lista.
– Subito?
– Subito. Una pistola ce l’hai?
– Beretta, 7,65; ma un caricatore solo.
– Vedrò, mi pare di averne.
– Addio.

Doveva essere un po’ prima del tocco. La curiosità era sempre pericolosa a quei tempi, ed io non sono curioso per natura. E poi, non avrei potuto rivelare quello che non sapevo. In nessun caso. Più tardi, molto più tardi, qualcuno mi accennò a una tonaca da frate, a un tentativo di espatrio in Svizzera conclusosi nelle fogne di Firenze, fra i partigiani, al passaggio del fronte. E forse fu poi Beppe stesso che me ne accennò, e mi mostrò una carta d’identità con una faccia barbuta e un nome curioso: Caprino.
Oggi, certamente, qualcuno ricorderà con maggiori dettagli.

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Dopo mangiato (si faceva presto a mangiare, allora) ero già laggiù nel Chiostro, ma Arnaldo non lo conoscevo di persona. M’ero fatto dire chi era e dove lavorava, ma girando alla larga, e mi pare che la mia mamma lo conoscesse perché gli aveva fatto scuola. Ma io, no, e gli alabastrai non attaccavano fino alle tre, e dopo la prima capatina nel Chiostro per individuare l’uscio me n’ero andato per non dare nell’occhio.
Quando ci ritornai, sentivo di fuori il ticchettio del mazzolo sullo scarpello. C’erano; aprii l’uscio; l’ebbi davanti.
– Arnaldo?
– Io.
– Vai via.
– Subito. Ci ho un posto in campagna.

L’ultima immagine che mi è rimasta: due manate alla cappa giallognola, e una nuvoletta di polvere bianca.

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Se lo conoscevo! La nostra amicizia datava da anni, nata così, come nascono le amicizie, da un incontro fortuito, e s’era via via radicata e sviluppata, complice una comune passione sportiva, che al mattino mi buttava fuori dal letto ad ore impossibili.

Ma Tobia era di un’altra razza e a quel tempo ciò costituiva una vera vergogna. Ma s’era amici e quel discorso io lo trovavo stupido.

Ero stato io, a fargli lasciar la Città, quando il terreno cominciava a scottare, e lo sapevano tutti, dov’era. Ed ora si trovava in cima alla lista, e farlo sparire non era semplice, ché una persona non è un capo di spillo, e poi, conosciuta da tanti. Ma in tutti i modi bisognava levarlo di lì, e poi si sarebbe visto. Una decina di chilometri in discesa e quattro in salita, per uno che andava, sia pure con una bicicletta incrociata fra “da passeggio” e “da corsa” non costituivano problema; però lo divenivano per due che tornavano, specie se uno mai aveva premuto un pedale. E bisognava giungere a buio, ma che non fosse tanto buio, da incappare nel coprifuoco. Nel suo tranquillo rifugio, che poi era casa sua, un po’ fuori del paese, arrivai stronfiando allorché, biciclo in spalla, avevo preso la scorciatoia per non farmi notare. La mia visita fu scambiata lì per lì per una delle solite. Mi mostravo tranquillo, e non volevo allarmare, perché c’era una moglie e due bimbi piccini, e una suocera e un suocero, ancora ottimisti.

Però, appena soli, dovetti esser chiaro. Subito, voleva dir subito, con me. Senza perdere un minuto, per non doverlo rimpiangere, e come. Coi bimbi, silenzio assoluto; il suocero invece non si voleva convincere: – ma c’era anche un altro, proprio lì vicino. E nessuno gli dava noia, e perché tanta furia!
Anche Tobia la mummiettava, e fu allora che mi feci duro e spietato:
– Va bene, Me ne vado. Arrangiatevi. Ma se va male, non contate su me: non potrei far più nulla.
Se andava male, andava male davvero! Avevo portato con me un telo da tenda, di quelli mimetici, e questo vuol dire che qualcosa dovevo aver già progettato. Difatti poco dopo quel telo era diventato un grosso fagotto con dentro vestiti, biancheria, libri, roba da mangiare, e … che so io?

Legato per le cocche, me lo portavo a spalla con le braccia infilate fin sotto le ascelle, come uno zaino informe e mostruoso. Non era pesante, ma dava fastidio, con quel suo scomposto dondolare, specie sulle svoltate, tanto più che lui l’avevo in canna e la strada sterrata pareva un maggese. In discesa, giù, sbìsciando per scansare le buche più grosse e il brecciame; in quei pochi pianerottoli, a pigiar sui pedali; in salita, vale a dir quasi sempre, a piedi tutt’e due.

Cominciava a scurire quando da Citerna s’attaccò per le Piagge, una pettata da sputar l’anima. Il viottolo franoso, e in parte franato, non si distingueva più bene, anche per certe toppe di loglio che mascheravano le buche, e la bicicletta in una mano, e quel fagotto sul groppone mi davano noia. Ma mi dava noia di più la paura di far tardi e d’inciampare in qualcuno che era bene non ci vedesse.

A metà rampa, era finito. Non il viaggio. Lui, Tobia. Io tiravo lungo e lui mi seguiva, zitto, affannato per l’inconsueta fatica, e di tanto in tanto, e poi ogni poco, mi fermavo per prendere fiato e fargli coraggio.

– Su, gli dicevo, ancora un po’ e poi si trova la strada buona. Lì ci si riposa.

Poi, la tragedia. Bastò un ciuffo d’erba che pareva erba ma era invece una buca, e sparì con un gemito soffocato, sotto il viottolo. Un ruzzolone da poco, forse da mezzo metro, e nemmeno di picchio, ma nel buio. Mi liberai dagli impicci, gli andai vicino.

– Niente di rotto?
– No.
– Meno male. Hai avuto paura?
– No, no.
S’era impaurito, invece, e trovava difficoltà a risalire l’argine, poco più che un gradone.
– Ma cos’hai?, chiesi ancora, dammi mano; sali, il viottolo è subito qui.
Nella semioscurità lo vedevo atterrito e quasi lo sentivo tremare.
– Ma cos’hai?, chiesi ancora.
– Ho perduto gli occhiali. Non vedo più.
– Mancava questa, ora! Dove sei cascato? Più avanti o più indietro? Cerca di raccapezzarti.
Lo feci sedere e mi misi a cercare, più che altro a tastoni, sempre nella speranza che un qualche luccichio mi guidasse. Un paio di cerini non servirono a nulla: anzi, era peggio. E poi, poi li trovai, e glieli resi. Bastò perché si riprendesse.

La strada continuava a salire, ma ora era larga e più liscia. Poche case. Dalle finestre stoppinate, ogni tanto, una fessura di luce. Gli parlavo sottovoce, più che altro per farlo parlare. Mi spiegava che i miopi, non soltanto non distinguono con chiarezza i dettagli, ma che nell’oscurità la capacità visiva gli si riduce di molto.

S’era al boschetto del Mori. Dal lavatoio di Santo Stefano, per il viottolo sotto il muro, s’arrivò a San Felice. Poi non ricordo più. Ci aspettava qualcuno per la stradetta di sotto Ponti. La mattina dopo, prima di giorno, un barroccino lo portò via.

Ma s’era nel 1943 o nel 1944?

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© Pro Volterra, LORENZO LORENZINI
Ma nel ’43 o nel ’44?, in “Volterra”