Quando venimmo a Volterra per studiare le urne etrusche, io e mia moglie prendemmo spesso alloggio nell’Albergo Etruria. Di sera poi si sedeva e si mangiava da Beppino, che in quel periodo era ancora cameriere e che tuttavia sapeva già offrire il suo talento di ospitalità e di arte gastronomica agli amici, che, stanchi del giorno, venivano da lui per le ultime ore. Quanto lo supplicammo allora di non «modernizzare» questo caratteristico locale con luci al neon e cose simili. Certo, fu in quel tempo che insieme al mio primo libro sugli Etruschi nacque questa prima amicizia, che per molti anni rese Volterra quasi sempre come la nostra patria.

Nell’albergo Etruria occupavamo una stanza luminosa e ampia con pavimento scricchiolante e semplice lavabo. Ma come era squisita allora l’acqua! Dalla strada poi non perveniva alcun rumore. Il nostro agio era perfetto. Dalla finestra lo sguardo correva su giardini, un vecchio pezzo di mura e, verso destra, nel piccolo cortile, faccia a faccia con la casa di Enrico Fiumi, che in quegli anni divenne un nostro amico stimato per scienza e umanità, che ci concesse nel suo Museo ogni libertà e aiuto: in quel tempo, in cui in città non esisteva ancora turismo e il Museo era visitato soltanto raramente dai forestieri, quando le strade erano immerse nel sapore della calura estiva del mezzogiorno, al pari di grossi cuniculi.

Oh, il cortile dell’«Etruria»! Lungo i fili tesi di traverso c’era un cinguettìo, un batter d’ali e un cicaleggio dall’alba al tramonto. Là fuori era come se ci fosse un intero giardino d’infanzia di vivacissimi rondinini, che si facevano imbeccare, tentavano i primi voli e, dopo aver compiuti archi prima corti e poi più lunghi, ritornavano velocemente al punto sicuro di partenza. Infaticabili nel foraggiare veleggiavano i genitori in alto e in basso, sempre ciarlieri, pazienti e impegnati in sempre nuove cadenze.

Viene in mente quel C. Plinio Secondo del Lago di Como con la sua Naturalis Historia. Nel decimo Libro si parla anche delle rondini, che, egli scrive, sono gli unici uccelli sprovvisti di artigli dei rapaci che mangiano carne. D’inverno abbandonano le loro sedi abituali, ma il loro volo non va lontano, perché cercano rifugio negli anfratti solatii delle montagne. E’ qui che esse vengono alle volte trovate con il corpo privo di piume. Egli sa anche che le rondini non avrebbero nidificato nell’antica Tebe, laggiù nella Grecia, perché questa città venne distrutta ripetutamente da mani nemiche e lo stesso avvenne nella tracia Bizyes a causa dei terribili delitti commessi dal suo re Tereo. Il cinguettare e il nidificare delle rondini testimoniano, secondo Plinio, della natura pacifica e retta delle persone, presso le quali esse si fermano a cantare.

Ma Plinio c’informa anche in modo speciale delle rondini volterrane. C’era in quel tempo in città, esattamente non si può sapere, anche se forse si tratta dei primordi del periodo imperiale, non molto lontano quindi dallo stesso periodo di vita dello stesso Plinio, un certo «Eques», un cavaliere della nobile famiglia dei Ceicna/Cecìna, di cui abbiamo testimonianza sia da fonti romane, che dal Teatro e da numerose urne del Museo. Questo Ceicna, di cui purtroppo ignoriamo anche il nome, faceva, quale facoltoso signore e allevatore di cavalli, partecipare le sue quadrighe alle corse del Circo Massimo di Roma. Quando egli si recava nella capitale, cosa che allora rappresentava un ben lungo viaggio, portava con sé delle rondini, certo che esse sarebbero ritornate veloci come frecce ai loro nidi, attraversando monti e piani, non appena fossero state messe in libertà.

Per poter annunziare ai suoi familiari nel tempo più breve possibile o la vittoria o la sconfitta egli portava con sé dunque i piccoli volatili con il colore del partito vincente, verde o rosso, e quindi li metteva in volo. Prima posta aerea! Come il senso della famiglia e dell’amicizia trova le strade del reincontro al di là di ogni distanza!

Quando d’estate le rondini nidificano anche da noi, quando in autunno si raccolgono in grossi stormi e quando all’improvviso non le troviamo più in un mattino, come anche a Volterra, allora io penso alla vecchia città etrusca e agli amici, quelli viventi e quelli che non sono più. Penso anche all’Acropoli di Paestum, dove le vidi a centinaia fare il nido e imbeccare i piccoli, penso agli stormi strillanti e chiassosi delle grosse procellarie grigio-nere, che si avventano in maggio lungo le strette e angolose viuzzole della Siena vespertina o di Grosseto. Volterra, città delle rondini, una delle tante!

Quando il 6 aprile 1975 facemmo ritorno a casa dalla Toscana già in clima primaverile, irruppe nel bacino delle Alpi ancora una volta e con estrema durezza il rigore dell’inverno. Delle slavine sbarravano il Brennero e, già nella discesa verso l’Austria, anche il Passo di Resia. Con centinaia di rimpatrianti attendemmo per ore e ore fino a sera inoltrata, con bufera di neve e gelida pioggia, fino a che rassegnati non decidemmo di cercare rifugio nel villaggio mediovale di Glurns.

Il mattino dopo il paesaggio era bianco sotto un cielo luminosamente azzurro. Un vento gelido soffiava su tutta la spoglia superficie del passo. E di nuovo rondini! Quasi schiacciate al suolo dalla tempesta, sballottate, vacillanti, ma tenaci, esse ci passavano davanti svolazzando, a una a una, per poi scomparire verso nord nell’incerto, spinte dall’indomabile istinto verso i nidi, verso l’estate al di là delle Alpi, in volo di gara mortale con la fame e il gelo. Perché là non c’era in lungo e in largo l’ombra di un insetto o di una mosca, di cui potersi cibare, ma soltanto la neve bianca, il freddo tremendo e la tempesta di vento. «Allora vengono ritrovate nude e senza piume», dice Plinio.

Rondini della mia patria tedesca, rondini di Volterra, messaggere di pace e di amicizia, spinte fra sud e nord e poi ancora fra nord e sud!

© Pro Volterra, OTTO WILHELM
Rondini di Volterra, in “Volterra”, n.3, a. 1979
Traduzione di Saverio Perrone