Sui casi di colera scoppiati nel volterrano troppo poco si sa, addirittura non si sa nulla di come e del quando scoppiarono quelli a noi remoti anche perché non si sa neppur se scoppiarono. Qualche cosa invece si sa sugli altri casi e perché ci sono documenti in proposito e perché ce li hanno raccontati.

Si sa che nel 1855 il colera funestò Volterra in maniera tale che nel solo mese di agosto furono trasportati trentacinque malati al lazzaretto e sessantacinque cadaveri al cimitero. Altri volterrani morirono successivamente e tra questi Gaspero Fiaschi di cui ho potuto rintracciare queste notizie.

In una bella mattina del mese di agosto dell’anno 1855 Gaspero Fiaschi, colono alla «Burlanda», fu aggredito dal bacillo del colera. Strizzato da continue trafitte e da struggimenti di pancia si attorcigliava imprecando e di sotto e di sopra rimetteva una sostanza biancastra che sembrava riso stracotto. Per di più aveva continuamente sete, aveva la pelle disseccata, aveva gli occhi stralunati, insomma aveva tanti di quei mali che non ci sarebbe stato neppure bisogno del dottore per dire che Gaspero aveva il diavolo addosso.

Il dottore però ci voleva; lo disse anche il trinaio mentre faceva un riposino prima di riprendere il suo giro. E la massaia, che andava e veniva sospirando, borbottava che in nottata non ci voleva entrare senza medicamenti e chiarimenti.

Si era del tempo in cui le notti si presentavano corte e serene ma erano anche tempi in cui si andava tanto a piedi e la «Burlanda» si trovava lontana, laggiù sulla destra del fiume Era, quasi alla confluenza con la Strolla, dirimpetto al casamento del «Pian de’ noci». Per questo si pensava che il dottore sarebbe arrivato la mattina dopo anche perché il trinaio non lo avrebbe potuto avvisare prima di sera. E invece il dottore arrivò la sera stessa, quando il sole stava per andare via. Era il dottor Luigi Verdiani abitante in Via del campanile, 2.

Magari il suo primo pensiero sarebbe stato quello di rimandare la visita al giorno di poi ma il discorso del trinaio lo portava a pensare diversamente. Pensò ad una malattia grave, contagiosa, epidemica alla quale non avrebbe voluto pensare mai e difatti andò a finire proprio a quella maniera perché appena vide Gaspero disse subito che era stato aggredito dal bacillo virgola.

Si affrettò allora a somministrargli le prime medicine poi disinfettò la camera e poi tornò in cucina chiudendo l’uscio dietro di sé. In cucina si lavò le mani col cloruro di calce che si era portato dietro e con quello fece lavare le mani degli altri. Infine cominciò a parlare così, o press’a poco:

«Gaspero è tanto malato: gli è saltato addosso il colera ed è quindi costretto a soffrire e forse anche a morire. Io farò l’impossibile per combattere questo terribile morbo però c’è poco da sperare perchè la scienza ci può poco e gli scongiuri meno. Intanto faccio la relazione al Pieretti, delegato del Granduca a Volterra, perchè questi la rimetta al ministro della sanità affinchè vengano presi quei provvedimenti che riterrà opportuni. Voi però dovete aiutarmi a impedire che si sviluppi un’epidemia che vorrebbe dire come aggiungere il male al malanno: per questo occorre fare queste cose (e si mise a contarle sulla punta delle dita): Primo: non fare uscire Gaspero di camera neppure per scaricare il ventre. Secondo: ritenere il cesso (o la ritirata, come dite voi) per le rimesse di Gaspero. Terzo: disinfettare la padellina. Quarto: mandare da Gaspero la solita persona (io direi la massaia) con un po’ di chinino in bocca. Quinto: lavarsi le mani con acqua di calce; Sesto: mettere i panni nel «cenerone». Settimo: non divertire le acque. Ottavo: bollire l’acqua corrente e di conserva per qualunque uso. Nono: bruciare le immondizie. Decimo: lavare il cane e il gatto con acqua di calce spenta».

Detto ciò, quasi a sottolineare quei comandamenti, il dottore si disse di sentimento di tornare l’indomani mattina col delegato e difatti tornò, ma tornò solo. Il delegato gli aveva detto di dire che non c’era e che comunque aveva da pensare per stendere le grida sul colera e per comporre una bella lettera per il Granduca per significargli come e in quale modo aveva circoscritto quel terribile bacillo virgola. Per queste ragioni il dottore fece tutto da sé: disinfettò la sugaia, la stalla, il castro. il pollaio, il fienile e poi tornò a visitare Gaspero ma lo trovò peggiorato. D’altra parte aveva già detto alla massaia che bisognava aspettare che quel male «ribaltasse» se si voleva che Gaspero guarisse.

Intanto nell’attesa di quel ribaltamento, il tempo sembrava passare più lento, ma la notte del dì 8 settembre Gaspero peggiorò ancora e la sera del 9 morì, emaciato e consunto.

La mattina del giorno dopo dall’uffizio del delegato granducale di Volterra partivano queste disposizioni:

«A riguardo del decesso avvenuto nella decorsa sera in persona del Choleroso Gaspero Fiaschi colono alla Burlanda, la prevengo che il di lui cadavere potrà e sere tumulato in questa sera dopo le ventiquattro, senza che preceda a detta tumulazione alcuna cerimonia ecclesiastica. Quindi procurerà che sia osservata la Legge sulla profondità della fossa che deve essere non minore di braccia tre, e di più sarà usata la cautela di porre sopra al cadavere una quantità di calcina, per la più sollecita dipolazione del medesimo.»

«Tolto che sarà il cadavere dalla stanza ove è decesso il Fiaschi farà in modo che i di lui Congiunti non abitino la detta stanza fino a tanto che non è ben ripulita, ed imbiancata. Sarà sparsa sul pavimento, appena portato via il cadavere, l’acqua di cloruro di calce che per mezzo dell’espresso le viene spedita in un fiasco.»

«Nel giorno di domani sarà tolta dal letto la materassa ed il saccone, e quant’altro è servito per il Choleroso. Prima di questo spoglio sarà usata la cautela di lavarsi le mani nell’acqua di cloruro di calce, e quindi sarà rinnovata questa cautela dopo che sarà stato disfatto il detto letto dalle persone che s’incaricheranno di tale operazione, che è quanto dire dovranno nuovamente lavarsi le mani. La piuma della materassa dovrà essere sotterrata. La paglia, o foglie del saccone bruciate, ed il traliccio con il resto della biancheria da letto, e quant’altro è servito per detto Choleroso, dovrà essere imbucatato, come lavate pure le panchette, e le asserelle del letto medesimo.»

«Confido che mercé la sua diligenza saranno puntualmente eseguite le accennate precauzioni, e perciò oltre il primo fiasco di cloruro di calce di sopra rammentato, le ne viene trasmesso altro per le lozioni che debbono aver luogo dopo aver tolto il cadavere dalla stanza preaccennata».

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Alle dieci di quella sera otto persone erano alla «Burlanda» pronte per il trasporto e pronta era la portantina con sopra la bara con dentro il morto, però il delegato era stato chiaro: «dopo le ventiquattro». Ma il tragitto era troppo lungo e «le ventiquattro le troveremo prima di arrivare al cimitero», aveva dello un incappato aggiustandosi la pazienza.

«A noi!», disse allora il capo guardia chiamando alla voce.
« A loro!», risposero subito gli incappati alzando contemporaneamente la portantina per mettersela sulle spalle ed avviandosi a passo lento verso il fiume.

Al di là c’era un barrocciaio con una «gabbia» di cavalli attaccati al barroccio e con la lanterna accesa. Era stato anche incaricato di aiutare l’interratore a mettere Gaspero nella buca fonda tre braccia volterrane.

© Pro Volterra, GIOVANNI BATISTINI
Un Choleroso alla Burlanda, in “Volterra”