Vincenzo da Filicaia

Il personaggio qui descritto è il protagonista di una pagina scarsamente nota della storia di Volterra. Si tratta del cav. Vincenzo da Filicaia, senatore fiorentino, detto dagli Arcadi Polibio Emonio e considerato a lungo uno dei più famosi poeti della seconda metà del Seicento, appartenente, con il Guidi ed il Frugoni, alla scuola antimarinista del Chiabrera.

Sbrighiamocela con una rapida presentazione biografica.

Il Filicaia nacque a Firenze il 30 dicembre 1642. Dopo aver studiato in un collegio di gesuiti si dedicò allo studio delle lettere classiche a cui i padri lo avevano indirizzato. Ben presto divenne uno dei più importanti ed autorevoli esponenti dell’Accademia della Crusca i cui rappresentanti si gloriavano di non commettere errori di lingua e di scrivere in un purissimo idioma italiano (così almeno affermavano i censori dell’Accademia nel concedere il nulla osta per la stampa delle opere in prosa od in versi degli Accademici).

Il nostro poeta, che non scrisse mai più versi d’amore dopo la morte prematura di una fanciulla amata in gioventù, dopo il matrimonio con la signorina Anna Capponi versò spesso in precarie condizioni economiche e fu ripetutamente aiutato finanziariamente dalla ex regina di Svezia, Cristina, ispiratrice del gruppo di poeti che, dopo la sua morte, fondarono l’Accademia dell’Arcadia. L’ex regina Cristina conosceva bene il latino, il greco, l’italiano, il francese e lo spagnolo; fu sua fanatica ammiratrice tanto da scrivere che: «Se vivesse il grande Alessandro con ragione invidierebbe ai principi del nostro secolo più voi che non invidiò già il suo Omero ad Achille»; ed ancora: «Io mi pregerò che si dica un dì: Cristina, benché straniera, lesse e gustò le opere del Filicaia».

Esagerazioni barocche, naturalmente. Ma contagiose se tra gli ammiratori del Filicaia troviamo anche l’imperatore Leopoldo d’Austria, il re di Polonia Giovanni III ed altri regnanti.

Nel 1666 il nostro poeta si trovava a Roma dopo aver studiato diritto, filosofia e teologia nella Università di Pisa che in quegli anni era forse il centro più vivo della Toscana.

Morta nel 1689 la sua regale protettrice, si trovò in brutte condizioni economiche, aggravate anche dalla salute cagionevole. Negli anni precedenti due suoi figli avevano potuto dedicarsi agli studi grazie agli aiuti della solita regina Cristina ed egli nonostante gli aiuti era stato costretto a vivere a lungo in campagna per le gravi ristrettezze economiche in cui versava. Allora l’amico Francesco Redi, l’autore del poemetto Bacco in Toscana, intervenne presso il granduca Cosimo III dei Medici, raccomandando il Filicaia che fu nominato senatore con il relativo appannaggio. Il granduca poi lo inviò nel 1696 come governatore a Volterra. Il nostro poeta tenne questa carica per quattro anni finché nel 1700 fu assegnato con lo stesso incarico politico amministrativo a Pisa dove rimase per un biennio. Tornato a Firenze fu nominato segretario delle Tratte presso la corte, mentre la sua fama di poeta andava sempre più diffondendosi in Italia ed in Europa ed era iscritto oltre che alla Accademia dell’Arcadia e della Crusca anche a quella degli Apatisti. Morì il 24 settembre 1707 e fu sepolto in Santa Croce; sulla sua tomba anche oggi i visitatori possono leggere tra l’elenco delle altre cariche anche l’accenno alla sua “pretura volterrana”.

IL FILICAIA A VOLTERRA

Il Filicaia fu quindi inviato tra noi quando il potere dei Medici stava stancamente ed ingloriosamente avviandosi verso il tramonto. Infatti, dopo Gian Gastone, il successore di Cosimo III, casa Medici si estingueva ed il Granducato di Toscana passava ai Lorena.

Che cosa fece in questi quattro anni a Volterra il nostro amico? In un volume settecentesco di Angelo Fabroni, scrittore ed editore giansenista pisano, ho trovato una epistola in versi latini del Filicaia, credo mai più pubblicato da allora, in cui il poeta, rispondendo all’amico Francesco Montanio, parla, in verità in maniera piuttosto enfatica, di tutto ciò che ha compiuto di importante durante il suo governatorato volterrano. La trascriviamo per intero nelle note1.

La prima impressione è quella del ricordo di certe satire ariostesche. Poveri poeti costretti dalle circostanze della vita a scendere dal sacro Parnaso per occuparsi di scartoffie giudiziarie, di carteggi diplomatici, di provvedimenti di polizia, di atti amministrativi. Stando alla lettera, il cav. Filicaia si dette molto da fare nella sua carica volterrana.

Dopo aver accennato ai freddi inverni ed alle calde estati trascorsi, afferma orgogliosamente di avere spalancato le porte del teatro volterrano (non il Persio Flacco, si badi bene) troppo a lungo negato alla cittadinanza (da 18 anni), di avere riattivato strade, di aver difeso la legge, di avere estinto odi e rivalità antichissime, di aver schiacciato il vizio della prostituzione, di aver aiutato i poveri ed i deboli. Si compiace della sua assiduità e dice di aver atteso a lungo alla composizione di poesie latine. Infine umilmente sostiene di aver compiuto tutto quanto sopra affermato non per solo suo merito ma sotto l’auspicio di Dio. Inutilmente egli avrebbe vigilato se Dio non avesse custodito la città. È una parafrasi della frase biblica tratta dal Libro dei Salmi (Salmo 126, Cantico di Salomone) incisa in una lapide della facciata del Palazzo dei Priori che ancora oggi si legge agevolmente.

Compì veramente il cav. Filicaia tutto ciò di cui ci parla nella lettera riportata in calce? Abbiamo consultato gli archivi locali, vecchie pubblicazioni settecentesche ed abbiamo ricostruito per i nostri lettori ciò che sotto esponiamo.

A Volterra gli spettacoli teatrali erano sempre stati molto in auge. Non per niente i Volterrani discendono dagli Etruschi, gente appassionata della musica, della danza e degli spettacoli in genere. Questi si svolgevano dal 1567  nel teatro vecchio in Piazza dei Priori. Vi si accedeva dalla loggia che oggi porta agli uffici del Commissariato di Pubblica Sicurezza, compresa tra le due arcate del Mercato coperto. Nel Salone delle Commedie nel 1642 (tanto per fare un esempio) gli Accademici Sepolti rappresentarono l’opera drammatica musicale Madonna di Liesse, forse del concittadino Maffei Raffaello iunore, in onore della granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere. Già che siamo in tema forniamo altre notizie inedite su un melodramma intitolato Amor vince fortuna rappresentato nel teatro vecchio nel 1704. Autore Carlo Capacci.

Negli anni precedenti la venuta del Filicaia a Volterra erano stati rappresentati altri melodrammi di Cosimo Villifranchi come La serva favorita, L’ipocondriaco, Lo speziale in villa, Il finto chimico, Filippo il Macedone.

(Sarebbe interessante uno studio sulla storia del teatro volterrano in questo periodo). L’Accademia dei Sepolti era allora attiva patrona del teatro, ma dal 1669 il teatro non era più agibile perché pericolante. Nel 1679 furono iniziati lavori di restauro del palco e delle scene ormai malamente ridotti. In data 30 aprile 16962 il senatore Filicaia, essendo ormai compiuti i lavori, chiedeva, a nome dell’Accademia dei Sepolti, di porre sotto gli auspici della Real Altezza Serenissima il teatro stesso che descriveva con queste parole: «Il Teatro di Volterra è grande, sfogato e bene inteso; ha il palco ampio e molte stanze intermedie per esercizio dei recitanti e, quel che è da stimarsi, uno sfondo di quasi trenta braccia di lunghezza col comodo di far anche maggiore volendo».

Nel teatro vi erano tre ordini di palchi (che nel 1740 giungeranno a cinque), la volta della platea era di braccia quadrate 40 ed il tetto di braccia quadrate 860.

Questo attivo interessamento del Filicaia per il teatro si spiega molto bene. Il povero uomo, forse, a Volterra si annoiava un poco. Egli aveva frequentato Firenze, una città allora di circa 60.000 abitanti, in cui erano in funzione più di 20 teatri che allestivano spettacoli teatrali e musicali. Per ordine dei granduchi nel Seicento e nel Settecento furono ripetutamente invitati musicisti come il Peri, lo Scarlatti, lo Haendel ed altri di fama europea. Il Filicaia stesso fu provetto musicista; narra un contemporaneo che “non pure sonava e cantava leggiadramente ma componeva ancora non senza lode degli intendenti di tal professione”.

L’accenno ai lavori pubblici da lui curati, probabilmente, riguarda normali lavori di riadattamento ed assestamento della viabilità urbana ed extraurbana.

Le liti, poi, in realtà erano allora numerose ma non di eccezionale gravità. Non ho trovato traccia di risse e provvedimenti giudiziari di particolare entità. Il temperamento dei Volterrani è sempre stato alieno da questo genere di liti. Insomma anche qui si dovette trattare di normale amministrazione della giustizia enfaticamente ampliata dalla fertile fantasia poetica del nostro cavaliere.

LA LOTTA CONTRO LA PROSTITUZIONE

Di particolare interesse è invece l’accenno alla repressione della prostituzione perché essa s’inquadra in una politica generale in tal senso voluta espressamente dal granduca Cosimo III. Il Battistini3 fa in una sua memoria un rapido cenno sulla prostituzione in Volterra che, purtroppo, si ferma molto tempo prima del periodo del governatorato del Filicaia. Fin dai primi del 1300 i Priori della nostra città stabilivano che nessuna “meretrice pubblica” potesse stare ad abitare nelle vie principali, né nei pressi delle chiese cittadine. Tutti i postriboli pubblici dipendevano allora dal Comune che li controllava tramite una Giunta di Ufficiali dell’Onestà. Questi locali erano ubicati nella contrada di Castello, nel Vicolo del Forno, in Via della Pietraia. Sembra che il Comune incoraggiasse la frequenza di questi luoghi che erano tassati piuttosto salatamene, anche per combattere, si diceva, la sodomia, vizio particolarmente diffuso allora anche in seguito alla predicazione di eresie catare che sostenevano che “matrimonium est lupanar” e che spingevano, quindi, a sfogare gli istinti sessuali o in maniera anormale o in relazioni illegittime4. Ma torniamo alla fine del Seicento.

Sotto Cosimo III in Firenze, e di conseguenza in tutta la Toscana, si era scatenata una campagna moralizzatrice. Il granduca aveva perfino proibito i balli mascherati ed aveva imposto che nelle commedie le parti femminili fossero impersonate da giovinetti vestiti da donna.

 A Firenze era stato inoltre istituito un Ufficio del Decoro Pubblico che  faceva circolare speciali pattuglioni di “Salti”, di agenti cioè che potevano “saltare addosso” a qualsiasi povera meretrice che infrangesse le regole della sua triste professione. Le meretrici in questo periodo, in tutto il Granducato, erano costrette a portare un nastro giallo tra i capelli o al cappello, triste anticipazione della stella gialla che nazisti imposero agli ebrei in tempi a noi più vicini.

Queste donne erano povere vittime più affamate che viziose. Catturate di frequente, erano gettate nel carcere fiorentino delle Stinche, dove non era difficile che esse morissero di fame. Chi sopravviveva perdeva ogni traccia dell’antico fascino. All’uscita, in genere, c’era la possibilità di entrare nel convento delle Convertite, come religiose. Alcune ci stavano per sempre; altre, rimessesi in carne, lasciavano l’asilo per continuare la loro triste vita. Non saprei dire con precisione quali locali di meretricio fossero in funzione quando venne a Volterra il Filicaia. Certo che in quel clima di generale rilassatezza ed ipocrisie imperversante in tutta la Toscana sullo scorcio di quel secolo, il livello morale pubblico e privato non doveva essere molto elevato. Quasi certamente questi locali dovevano essere stati concentrati nella contrada di Firenzuola, presso Porta a Selci, in quel dedalo di viuzze che guarda l’entrata dell’attuale penitenziario. A giudicare dalle parole del Filicaia i Volterrani (forse anche in questo eredi dei lussuriosi etruschi?) dovevano essere dell’epicureico parere dell’umanista Lorenzo Valla che «melius merentur scorta et postribula de genere humano qua sanctimoniales virgines et continentes»5. Le disgraziate che abitavano nella contrada di Firenzuola dovevano forse scegliere i loro clienti anche tra i soldati del presidio della Fortezza medicea. Le fortezze del Granducato sotto Cosimo III erano 43. Solo quelle di Portoferraio e di Livorno avevano una guarnigione del tutto adeguata alle esigenze. Quella di Volterra non era certo ridotta nelle condizioni della rocca di S. Miniato dove c’erano solo un custode ed un artigliere, ma doveva possedere una guarnigione media. Ricordiamo che dal 1672 al 1706 fu maggior governatore della Banda e castellano della Rocca di Volterra Simone Vannuccini di Arezzo.

Tornando ai provvedimenti presi dal Filicaia possiamo dire che egli in una lettera dalla nostra città all’amico Benedetto Gori, in data 25 luglio 16996, dopo altre notizie di carattere familiare, dice testualmente: «… avendo io fatto sfrattare in diversi tempi molte di quelle donnette che quando venni quassù avevano aperto un mezzo bordello in Volterra, non mancando altro se non gli uomini e le donne facessero per le strade quello che fanno i cani e le cagne, ho risoluto, per finir di espurgare questa città, di dare lo sfratto ad una altra che è la peggior di tutte ed oggi, appunto, ne voglio far negozio col signor Fiscale tra le 10 e le 11; mentre stava pensando al futuro sfratto mi è venuta fatta in piccolo la statua di questa perfida donna».

Questa parte della lettera è molto importante per vari aspetti. Non conosciamo il nome di questa cortigiana di rilievo. Nomi di meretrici compaiono nella citata memoria del Battistini come certa Pasquina da Verona bandita dalla città il 15 aprile 1458, Nastagia da Bologna, Anastasia da Barga, Margherita detta Cassandra, Elisabetta de Tridentino “discreta et formosa meretrix”, ma riguardano secoli precedenti. Può darsi che il nome di questa donna sia citato in qualche provvedimento dell’Archivio comunale. Ma io non ho avuto il tempo di fare queste ricerche. Questa donna doveva essere molto bella  e piena di fascino se il nostro poeta dice che “gli viene fatto di fare in piccolo la sua statua”. Si trattava di un ritratto in versi o di un disegno o di una statuetta in creta?

LE POESIE LATINE SULL’ALABASTRO

Perché il Filicaia, così versatile in molte arti, non avrebbe potuto imparare qui a Volterra, se già non la conosceva, l’arte di plasmare in creta delle statuette? Non è forse evidente nelle sue poesie la tendenza ad una certa plasticità? Il suo interesse per la lavorazione dell’alabastro trova numerose conferme nell’opera citata del Fabroni7 dove si dice che scrisse molte poesie latine a Volterra, sulla caccia ai passeri, sulle sculture di alabastro, sul sale e sulle altre attività economiche volterrane. Purtroppo inutilmente ho cercato nei nostri archivi traccia di queste poesie latine tanto lodate da tutti i contemporanei. Esse sono rimaste in gran parte inedite, con ogni probabilità. In calce al citato volume del Fabroni, Regnero Galli così scriveva al Magalotti (ambedue contemporanei del Filicaia): «Oh perché egli non dà alle stampe le sue composizioni latine, così gravi e sode dove bisogna, così galanti e delicate ove la materia lo ricorda. Diale fuori, quanto non fosse altroché per dar a di vedere che l’antico latino negli italici cuor non è ancor morto».

Il consiglio, forse, non fu accolto e queste poesie latine di argomento volterrano non sono riuscito a rintracciarle. È vero anche che io non ho molta pazienza. Lascio questo incarico a qualche studente universitario che potrebbe effettuare queste ricerche per una ipotetica laurea.

Altre testimonianze sull’eccellenza di queste poesie latine si trovano nelle lettere e nelle composizioni poetiche di un singolare ambasciatore inglese presso il granduca, sir Enrico Newton, accademico della Crusca, il quale si dimostra un fanatico ammiratore del Filicaia8. Costui può essere considerato un precursore di quegli ambienti anglofiorentini che, dal Settecento ad oggi, si sono sempre dimostrati affascinati da tutto ciò che è italiano e fiorentino in particolare. Egli inviava, dopo averne fatta incetta, ai suoi amici inglesi ed alla regina Anna le composizioni, manoscritte, del Filicaia con particolare riguardo per quelle di poesia latina. Mylord Giovanni Sommer, barone di Eveshan, scrisse all’ambasciatore inglese a Firenze che «non c’era cosa ch’ei non desse per poter averle tutte». Qualcuna di queste composizioni latine si trova nel Tomo IV degli Elogi degli illustri toscani del Fabroni e nell’opera del Newton, ma quelle poesie, alcune delle quali veramente notevoli per la padronanza della lingua e dello stile latini, non riguardano Volterra. È un vero peccato perché esse, forse, potrebbero compensare la scarsità delle notizie sulla lavorazione dell’alabastro in quel periodo. Forse, nei castelli inglesi dei primi del Settecento, nobili cavalieri e gentili dame riuniti intorno al fuoco scoppiettante, ascoltando la lettura di quelle poesie, sentivano parlare per la prima volta dell’alabastro e di Volterra. Il Newton paragona addirittura il nostro poeta ad Orazio ed afferma che è il solo poeta lirico dei suoi tempi degno di essere letto.

Nelle poesie in lingua italiana non c’è nessun accenno diretto alla lavorazione dell’alabastro e a Volterra in genere. Ne esiste però qualcuna che mi sembra ispirata dalla diretta conoscenza dei fenomeni vulcanologici e dalle ricchezze minerarie del Volterrano9. Come questa:

Dai cupi fondi della terra ognora
di leggerissimo alito sull’ale
sulfureo spirto si solleva e sale
ver la parte porosa ond’esce fuora.
Esce  e dall’aria i vari semi allora
tutti adunati in sé stesso, e diventale
ch’ora in Allume, or li trasforma in sale
talora in Nitro ed in Vetriuol talora.
Così dal fondo degli umani affetti
un’aurea sorge, ch’a sé tutto tira
il suo velen di mille esterni oggetti
e i velenosi fiati allor che aspira
mostrasi a noi sotto diversi aspetti:
or di Lussuria, or di Superbia, or d’Ira.

Così, perseguitando le prostitute, cacciando i passeri, componendo poesie latine, godendosi le serate musicali nel nostro teatro vecchio ed amministrando la giustizia, l’imparruccato cav. Filicaia passò i quattro anni del suo governatorato a Volterra. La campagna gli piaceva molto. L’amava sul serio e non come i giovin signori del Settecento che si recavano in villeggiatura e si divertivano con balli campestri, cavalcate, fuochi di gioia, tornandosene poi in città senza aver visto un frutto pendere da un albero od un grappolo d’uva sulla vite.

Vicino a Montaione c’è ancora oggi una villa di proprietà dei Filicaia. Prima di venire a Volterra vi passò giornate molto felici. In un sonetto dedicato a Firenze egli dice: «Altro difetto non trovo in voi che il non aver Figline» (la sua villa).

Nella Biblioteca Guarnacci10 esistono i decreti di conferma del senatore a commissario di Volterra per gli anni 1697, 1698 e c’è anche una lettera dei Volterrani al granduca Cosimo III negli stessi anni per ottenere la conferma del poeta a governatore della loro città. Lo lodano per l’amministrazione di una retta ed inalterabile giustizia, per aver fatto loro trovare “gli atti più puri di perfetta pietà e di massima quiete”, per essere stato “il sollievo dei poveri”. Gli Accademici Sepolti lo fecero loro socio (non sono riuscito però a trovare il decreto di nomina perché l’Accademia conserva le nomine solo a partire dal 1746).

Per dare una pennellata finale di patina seicentesca abbiamo tratto altre notizie inedite da altri documenti della Guarnacciana11 e precisamente da una relazione del vescovo Ottavio del Rosso (1681-1714) sullo stato della sua chiesa, nell’anno 1694, alla sacra congregazione del Concilio essendo pontefice Innocenzo XII. Da essa si apprende che in quello scorcio di fine Seicento le parrocchie in città erano tre, sei i monasteri entro la città e nei sobborghi, le parrocchie della diocesi (che allora comprendeva anche San Gimignano) erano 143, le monache 440, i regolari 163, preti semplici beneficiari 238, sacerdoti beneficiati 36, non beneficiati 65, chierici beneficiati e non beneficiati 78, con un totale di abitanti in tutta la diocesi di 36.486 anime.

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
Vincenzo da Filicaia, in “Volterra”, a. novembre 1964; in “Scritti Volterrani”, a cura di Gianna Bertini, Enrico e Fabrizio Rosticci, Pisa, Pacini Editore, 2004, pp. 58-65.
1 Angelo Fabroni, Vitae italorum doctrina excellentius;  Pisis, 1781, Tomo VII, pp. 305-306.
«Me praetore, quater gelidi rediere dicembres
quaterque arista floruit.
Quid Montane, actum, dices; magna aedepoledi
magna, hercle, nec pauca admodum,
queque operae sit praetium fit dicere. Redditus urbi est
diu negatus Histrio; bisque novem clausae, populo indignante, per annos
iam comicae patent fores: sublati anfractus passim, salebraeque viarum:
hinc saxo et hinc laterculo;
defensae leges: odia intercisa: diremptae
lites perantiquae et graves:
indictum sceleri bellum : meretricia lobes
astersa : difficillimis
nec non temporibus servata annona. Quid ultra?
Non orphano, non virgini
praesidium viduae non defuit, et mihi toto
nox una quadriennio
extra urbem haud sane transacta ; egisse me non absumo.
Egi autem? Sim stulte audax, nisi cetera dicam
Egi haec, deo sed auspice
Atque auctore Deo. Frustra vigilo ipse vigil ni
Urbem custodiat».
2 Biblioteca Guarnacci, Filza 43, doc. 27, Negoziato per la riapertura del Teatro, 1696.
3 M. Battistini, Miscellanea volterrana. Il postribolo pubblico in Volterra, 1930. Jean Guitton, Il Cristo dilacerato, 1964, pp. 132-156
4 L. Valla, Opera. Basilea, 1543, p. 924
5 M. Sterzi, Rassegna bibliografica di Letteratura Italiana,  XIV, 1906, p. 277 e seg.
6 Fabroni, op. cit., pp. 306-307: “plura scripsit carmina, ad passerum venationem, ad alabastrorum sculpturas, ad salis…  quibus Volaterrae florent”.
7 Henrici Newton, Epistolae orationes et carmina, Lucca, 1710.
8 Filicaia, Poesie toscane, Firenze, 1707.
9 Biblioteca Guarnacci, Filza 43, doc. 28.
10 Biblioteca Guarnacci, Filza 43, doc. 26, Octavii del Rosso Episcopi Volaterranae Relatio status ecclesiae suae…, 1694.