Zio Ferruccio era un ometto basso e grasso: sembrava, anche per i lineamenti del viso piuttosto marcati, che si fosse alzato da un coperchio di un’urna etrusca del Museo Guarnacci.

Lo chiamavamo tutti zio: in realtà era zio di mio padre. Era alabastraio: lavorava in una botteghina in Via lungo le Mura, non lontano dalla Porta all’Arco.

FIGURE DI ALABASTRAI D’ALTRI TEMPI

Suonava i piatti nella filarmonica cittadina. Ero abituato a vederlo tutto ricoperto di polvere di alabastro, con una bustina di carta di giornale in testa. Alla domenica si metteva il vestito migliore, con un cappello dalle tese un po’ larghe ed incominciava, con gli amici, la visita delle sette chiese. Sì: gli piaceva il vino, come a tutti gli alabastrai del resto.

Fu verso i quindici o sedici anni che zio Ferruccio incominciò a trattarmi non più da bambino ma da uomo.

Era stato ed era socialista. Lo sentivo qualche volta discutere di politica con altri compagni di lavoro. Tutti i discorsi finivano con invettive colorite contro quel “delinquente”, che poi sarebbe stato quello che, a scuola, ci avevano insegnato a chiamare “il Duce”. Né sorte migliore toccava al re che era indicato, nel migliore dei casi, con l’appellativo di “Parapì”.

Ma fino a quel momento, per me tutto quello che riguardava la politica era sempre stato molto oscuro. Ero un balilla perché, allora, “i bimbi d’Italia si chiamavan balilla… ”.

Fu in un afoso pomeriggio d’estate che conobbi zio Ferruccio sotto una dimensione più umana e nuova.

Frequentavo, mi pare, la prima Liceo, ero in vacanza e non sapevo che cosa fare. Capitai nella sua botteghina per riportare uno dei romanzi che, ogni tanto, egli mi presentava. Erano opere di Victor Hugo, di Eugenio Sue, di Dumas, di Blasco Ibanez in edizioni popolari illustrate, consumate per essere passate per le mani di chissà quanta gente.

La finestra era mezza accostata. Zio Ferruccio era solo e pensieroso, forse un po’ stanco per l’afa che toglieva il respiro. Restituii il libro e cominciammo a parlare. Il discorso capitò sulla politica in generale. C’era la guerra civile in Spagna. «Tu studi, – mi disse – ma scommetto che di tante cose non ne hai mai sentito parlare. Non sai nemmeno chi era Matteotti».

Risposi che, effettivamente, ne avevo sentito parlare confusamente. Allora lo zio Ferruccio chiuse la porta e la finestra di bottega. Rimase solo una striscia di luce che filtrava dagli scurini accostati. Si avvicinò ad un modello di gesso di una statuetta che, insieme ad altri, era collocato su di una tavola polverosa, in alto, in un canto della stanzetta; con un ferro spaccò il gesso alla base e trasse fuori un giornale sbrindellato e mezzo rovinato dall’umidità. Lo spiegò religiosamente e me lo porse.

«Leggi – disse – e fai alla svelta perché è roba che scotta». Era un articolo dell’Avanti! del maggio o giugno 1924 e riportava il discorso di Matteotti alla Camera dei deputati: conteneva quella drammatica denuncia che il 10 giugno dello stesso anno doveva portare il deputato socialista alla morte ed alla scomparsa del cadavere per mano di squadristi fascisti.

Mentre leggevo a mezza voce mi accorsi che zio Ferruccio piangeva in silenzio. Da fuori giungeva, smorzato, nel silenzio dell’afoso pomeriggio, il canto degli alabastrai delle botteghe vicine:

Cielo di stelle e cielo color del mare
tu sei lo stesso cielo del mio casolare.
Portami un sogno verso la patria mia
portami un sogno pieno di nostalgia.

Le righe mi ballavano davanti agli occhi. Era una specie di iniziazione ed il cuore mi batteva forte. Mentre continuavo la lettura i canti seguitavano:

Finestra chiusa
al mio cuore innamorato
questa notte son tornato
per restar vicino a te.
Finestra chiusa
senza luce e senza amore
se fai piangere il mio cuore
tu non hai pietà di me.

Le parole un po’ tristi e piene di nostalgia delle canzoni sottolineavano la mia emozione. «Voi giovani dovete sapere – diceva zio Ferruccio – ma, mi raccomando, non parlare con nessuno di questo giornale. – aggiunse mentre lo rimetteva nella statuetta – Per aver conservato qualche numero de “La Fiamma” di trenta anni fa certa gente si è trovata nei guai durante le perquisizioni. Ma le cose non dureranno sempre così. Ci sarà qualcuno che fermerà quel pazzo».

Poi, mentre uscivo turbato ed in silenzio, riaprì la finestra ed il sole tornò ad inondare di luce la bottega.

Ogni volta che ripenso a quel pomeriggio lontano, insieme a zio Ferruccio mi tornano in mente ricordi di tanti altri alabastrai. In fondo zio Ferruccio, per me, è il simbolo di tutti coloro che, nella mia città, costituirono per venti anni un’isola impermeabile all’ideologia della dittatura imperante. Furono degli esuli in patria. Passavano il tempo chiusi nelle loro botteghe artigiane o in casa; andavano in campagna il lunedì e la domenica a fare merenda ed a bere qualche fiasco di vino. Il vino era uno sfogo, un modo per riunirsi e per parlare tra amici e compagni fidati. E poi era rosso come la loro passione. Nella comunità non contavano nulla. Erano i sovversivi, gli emarginati.

Non erano certo immuni da vizi o da difetti. Ma quanta umanità c’era in loro, in mezzo a tanta tracotanza ed a tanta retorica.

Come è più povera oggi la mia città! È il progresso, dicono.

Sarà. Mi pare, però, che questo tipo di società e di progresso distrugga gli uomini, impoverisca le comunità.

Un tempo c’era poco più di…

… un valzer di povera gente
un semplice valzer ch’è fatto di niente.
Con due chitarre ed un mandolino
si balla sino al mattino.
Sentite la musica suona
un povero valzer che fatto è alla buona.
Un motivo che ritorna alla mente
lo canta la povera gente.

Povera? Certamente più povera di soldi, affamata spesso, ma più ricca di dignità, di idee, di passione, di speranze, di umanità.

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
Figure di alabastrai d’altri tempi, in “Volterra”, giugno 1972; in “Scritti Volterrani” di Silvano Bertini, a cura di Gianna Bertini, Enrico e Fabrizio Rosticci, Pisa, Pacini Editore, 2004, pp. 378-380.