L’anima del Mandorlo

Da quando ho lasciato Volterra ho quasi vissuto una seconda esistenza: quella che si può condurre sul filo della memoria e che, in certi momenti, risulta ancora più vera della stessa realtà.

E’ successo così, che nell’andatura di tutto questo tempo, mi sia ritrovato spesso sul poggio, quasi che anima e corpo potessero coesistere contemporaneamente in luoghi diversi. Uno di questi, forse il più avvincente, è il vicolo del mandorlo.

Non ho mai saputo, né mi sono chiesto perché si chiami così. Forse, in tempi lontani, davanti ad alcune abitazioni o in racchiusi giardini fiorivano i mandorli, a rendere ancora più suggestivo lo scosceso sentiero che oggi segue il distendersi delle case. Mi piace immaginarla così questa strada, dove molti ragazzi della mia generazione e di quelle precedenti, han passato buona parte della loro fanciullezza, trascorrendovi più tempo che in casa propria.

II «vicolo» cominciava ad animarsi all’inizio delle primavera: nei mesi invernali la tramontana tirava troppo forte e solo di rado ci lasciavamo tentare anche a neve alta, dalla frenesia delle pallate. Subito dopo desinare, a gruppi o pochi per volta, con altissime grida e le numerose corse che ne seguivano portavamo tutto lungo il percorso una nota di confusa allegria e una quantità di colori e pur con le non poche chiamate dei genitori, si finiva per rientrare a casa solo per l’ora di cena, pieni di polvere e di varie sbucciature. Iniziavano allora le dolenti note: le «cose di scuola» erano rimaste tutte da fare e, dopo cena, presi dal sonno e dalla stanchezza non si riusciva a portarle in fondo, nonostante le sgridate e gli scapaccioni che ne seguivano.

Il giorno dopo, comunque, era come se nulla fosse successo e tutto ricominciava da capo. La piazzetta Minucci presto si rianimava di grida, di suoni e di giochi. Quello prediletto era a «gamba zoppa» o «alle palline», ma spesso i tanti barrocci «parcheggiati» dentro o davanti alla stalla di «Pasticca», davano il via ad inestricabili giochi a rimpiattino, ad inimmaginabili corse su focosi cavalli ed a numerose fantasie di chissà quali lontane strade. Il sabato poi, giorno di mercato, ne arrivavano ancora di più, ma l’attesa era sopratutto per un grosso barroccio dall’enorme carico di paglia, perché questo trasportava un’infinità di «ciottolini» di terra cotta dalle foggie più disparate. Diversi finivano per incrinarsi, potevamo averli in regalo ed erano la manna per altre illimitate fantasie.

Ma non era soltanto la piazzetta Minucci teatro dei nostri giochi; la bottega di «Miglio» il carbonaio, il granaio di Antimo, il «vicolaccio» senza sfondo, l’officina del bravo fabbro Bagnoli, erano ugualmente pretesto e motivo di non poche scorribande.

Nel lungo e tortuoso androne che praticamente occupava buona parte delle cantine del palazzo Solaini, erano accumulate montagne e montagne di carbone e di legna ed era qui che passava la maggior parte della giornata il facchino «Spera», in attesa di scaricare i numerosi barrocci che arrivavano ogni giorno e portare le balle di brace ai clienti. Un’attesa condivisa da molti di noi, perché «Spera» si divertiva moltissimo a caricarci sul suo carretto, non appena questo si rendeva libero, facendoci scorrazzare in mezzo a mille sobbalzi dovuti alle ruote di ferro, su e giù per le non poche discese che si trovavano strada facendo.

Una figura davvero caratteristica quella di «Spera»: alto, ma non allampanato, con due baffi arruffati e diventati completamente color marrone per il continuo fumo di una pipa dalla cannuccia cortissima. Sempre con un cappellaccio dalle falde senza più linea e così unto che a strizzarlo ne sarebbe venuto fuori chissà che cosa. «Spera» era completamente calvo e la sua unica ambizione, oltre naturalmente ad un buon fiasco di chianti, era quella di non far conoscere le sue calvizie. Per questo portava quel cappellaccio pieno di polvere anche in piena estate.

A pochi metri da «Miglio» carbonaio, la stalla del Bertini, con il suo odore lieve di fieno e d! paglia. Era «Ciarde» questo il nome di uno dei cavalli da tiro, che con i suoi pesanti zoccoli che risuonavano sul selciato, ci richiamava pigramente dal sonno nelle più fredde mattine d’inverno, a prepararci per la scuola. Così alla sera: quando sentivamo di nuovo «Ciarde» per un momento ci fermavamo a guardarlo, il passo fatto più pesante e più lento per la fatica. Spesso la giornata finiva con l’immagine di questo cavallo, quasi a svanire nei nostri pensieri, mentire nel vicolo tornava il silenzio.

Tra non molto, però sarebbe seguito un nuovo giorno: le nottate passavano presto per i ragazzi ed avremmo ripreso i giochi e le grida di sempre. Di nuovo insieme con il Cecchelli, Valerio, Mino Trafeli, i Permati, Renato (divenuto poi «Bube» di Cassola), il Gremigni, il Gazzarri e tanti, tanti altri che la memoria allontana. Grida e giochi che ci portavano a ripercorrere la via, in tutta la sua lunghezza, persino ai punti più scoscesi e nascosti. Dal ciglieri di Antimo, da dove in estate veniva fuori un acre odore di zolfo, alla bottega del fabbro Bagnoli, ai torni dei Rossi, al grande androne di Petrocchi il maniscalco, sino a quella di Ganghe lo scalpellino e dello scultore Febo Trafeli.

Pur nei giochi più scalmanati, comunque, non eravamo dispettosi, ma ad una tentazione non riuscivamo talvolta a resistere: la bottega del fabbro Bagnoli si trovava un po’ al di sotto del livello della strada, anzi sulla via del mandorlo non aveva ingresso, bensì una finestra che si affacciava pari, pari su un banco di lavoro pieno di arnesi ben ingrassati e pronti per l’uso.

Fatto un grosso fagotto di carta velina e terra d’alabastro lo gettavamo con forza da quella finestra, con la conseguenza che quando arrivava sul piano del banco si apriva rumorosamente, la terra schizzava da ogni parte, invadendo ogni cosa e seppellendo tutti gli arnesi. Le reazione dal povero fabbro era logicamente furente, ma prima che fosse uscito di bottega ognuno se l’era data a gambe ed era già ben lontano dall’essere preso.

Con i piccini (perché noi di dieci-dodici anni ci ritenevamo già grandi) la gara dello «sdrucciolo» era cosa quotidiana, né a niente valevano le non poche raccomandazioni dei genitori prima che uscissimo di casa.

Lo «sdrucciolo» era un barbacane largo poco più di un metro e mezzo, posto a sostegno di una piccola casa nell’ultima viuzza tortuosa che congiunge il «Mandorlo» con via Ricciarelli ed era lì, ancora più chiassosi per la gara che ognuno metteva per arrivare primo all’estremità e poi lasciarsi andare, con il benefico effetto che ne derivava per il fondo dei pantaloni, che ci accaldavamo per ore, pressati uno su l’altro, sin quando dalle finestre più vicine, stufi delle nostre grida, non ci rovesciavano addosso un secchio d’acqua e con altri mezzi altrettanto convincenti ci costringevano ad andarcene.

Un gioco modesto e che non aveva di per sé niente di eccezionale, ma tale comunque da smuovere la nostra ambizione di conquistare la cima e di mantenerla il più a lungo possibile, prima di essere scalzati da un altro.

Lo «sdrucciolo» si trovava quasi sul fondo del vicolo: di rado comunque ci portavamo oltre, forse per una puerile paura di un androne in prossimità dell’ultima curva. Una lunga stanza con poca luce, piena di ferri e di arnesi, con sul fondo, sotto ad una finestra semibuia piena di ragnatele e di ruggine, una fucina di fabbro-ferraio da cui zampillavano alte scintille a rendere ancor più cupo con il loro bagliore, il fondo della stanza. Anche il suono dell’incudine non era vivo e squillante come nelle altre botteghe, ma cupo e ottuso, così come tutto il locale. Lo stesso fabbro era un uomo strano, dallo squadro spento e inespressivo, di poche parole, che mal sopportava gli schiamazzi e le corse dei nostri giochi e più di una volta, uscito precipitosamente dalla bottega con un lungo ferraccio arrugginito in mano, minacciava di rincorrerci fino a chissà dove.

Soprattutto per questo motivo non si andava oltre, ma anche perché pochi metri dopo, la via, fatta una curva, coperta com’è dalle varie case, rimane senza cielo e diventa uno stretto cunicolo buio. Pochi vi si addentravano, preferendo tornare a metà vicolo, dove la strada si fa più aperta e più largo ad esempio è lo squarcio di cielo, che si può vedere fra le case.

Così, quasi ogni giorno, la nostra vita nel «mandorlo», sino al nuovo inverno, quando eravamo costretti a rinchiuderci in casa da impossibili tramontane.

Incredibilmente, in fondo all’anima, sono rimasti quei desideri e quei sogni, quasi con la stessa intensità, certamente con la medesima presenza. Il mondo di allora, così diverso per verità e semplicità di abitudini e d’ambiente da quello per lo più appariscente dei ragazzi di oggi, permetteva anche un rapporto diverso con gli adulti e soprattutto con la famiglia. Rispetto e amore senza alcuna contropartita, ammirazione anche per le cose e gli aspetti più semplici delle cose, faceva sì che ci avvicinassimo con devozione e comprensione a tutto ciò che ci legava ai genitori, per il solo fatto che erano tali, senza nulla chiedere, senza lamentele, senza l’arroganza dei rapporti di oggi, accettando con umiltà e modestia le condizioni della vita quotidiana.

Erano queste le virtù che ci caratterizzavano o comunque ci animavano, dandoci altresì la possibilità di capire il bene grande della famiglia, ora così dissacrata. Ed era su questo rapporto, pieno di comprensione e di umanità, che ci si muoveva, intessendo in ogni momento l’andatura avvenire.

Ogni tanto, quasi inconsciamente, sono ritornato nel «vicolo», ora silenzioso e deserto, a ricercare i canti degli alabastrai vestiti di polvere e il suono dell’incudine di “Petrocche”, ma vi ho trovato solo qualche macchina, qua e là, a renderlo ancora più diverso. Erano certo anni tenuti segreti, di cui solo ora scopro un improvviso sapore.

© Pro Volterra, GINO GENNAI
Vicolo del Mandorlo 932, in “Volterra”