Capostipite di questa famiglia è un Piero, detto Peruzzo, vissuto nei primi decenni del secolo XIV. Dal figlio Salvadore discesero i Peruzzi; da un altro figlio, Francesco, discesero i della Bese. Questo cognome deriva dalla moglie di Francesco, che si chiamava Bese.

Al catasto del 1429 sono presenti Piero e Giovanni di Giusto di Francesco, i quali, pur vivendo separatamente, hanno ancora gli interessi in comune. La famiglia di Piero, il quale ha 55 anni, conta 13 persone; quella di Giovanni, di 49 anni, ne conta otto. Il loro patrimonio è considerevole, ammontando al netto, secondo le loro stesse stime, fiorini oro 2664 e soldi 10. Oltre ad alcune case poste in contrada di Piazza, posseggono terre nelle pendici (presso Porta a Selci, a Corrente, a S. Margherita, in Valle) e nei castelli di Querceto, Mazzolla e Libbiano. Disponevano anche di numerosi capi di bestiame e di greggi.

Ma, oltre che nell’agricoltura, erano interessati nel commercio. Ascritti all’Arte della lana, conducevano una bottega di mercerie nei locali situati sotto la loro casa e trafficavano in zolfo che estraevano da una cava di loro proprietà a Libbiano. Secondo le denuncie catastali avevano in magazzino oltre 16 migliaia e mezzo di libbre di zolfo giallo.

Agli effetti urbanistici ci sembra interessante ricercare l’abitazione dei della Bese. Negli statuti comunali circa della stessa epoca è disposto che:

“La via overo chiasso de’ Forti appresso la piazza del Comune, viene muovendo da via maestra chiamata Vigna dei Calzolai sotto la casa di Giovanni di Giusto di Francesco in fino nella via del Comune dove è la pubblica prigione, sia monda e pulita”.

La via maestra detta La Vigna dei Calzolai era via Guidi, il vicolo de’ Forti era l’attuale vicolo dei Cai (questa denominazione risale ai primi dell’Ottocento), la prigione si apriva sul fianco del palazzo del Podestà. Quindi mi sembrerebbe che la casa dei della Bese, facendo angolo tra via Guidi e il vicolo del Cai, sia da identificarsi nella casa Miranceli, e la bottega di mercerie si trovasse nei locali in parte poi occupati dal fotografo Brogi. Ricordo che alcuni anni fa, quando furono fatti dei lavori in questa casa, tornò alla luce un cortile interno con loggiato di pregevole architettura, che mi auguro non sia stato poi distrutto o imprigionato.

E tutto sembrerebbe così tranquillo ed onesto nella storia di questa famiglia, se altri documenti d’archivio, rìspolverati nel 1938 dall’amico Giuseppe Pilastri, non ci rivelassero di quanta infamia si macchiò nel 1432 il figlio maggiore di Piero di Giusto.

Dopo la ribellione del 1428 e la triste fine di Giusto Landini, non deve credersi che tutti i volterrani si rassegnarono alla dominazione ed ai balzelli imposti dalla repubblica fiorentina. Nel 1430 alcune ribellioni furono soffocate nel sangue. La calata in Italia dell’imperatore Sigismondo, il quale si fermò a Siena per alcuni mesi nell’anno 1432, riaccese le speranze dei ghibellini e di quanti erano avversi al predominio di Firenze. Una congiura di notevole ampiezza fu ordita in Volterra.

A grandi linee, il piano era questo. Un contingente di truppe, assoldato fra i senesi e gli imperiali doveva concentrarsi nei pressi di Pomarance, per poi trasferirsi nella notte sul 29 settembre a ridosso della porta a Selci. Altri armati dovevano attestarsi alla Fonte all’Agnello e, per la valle di Pinzano, penetrare in città attraverso la porta di Docciola, più facile delle altre ad essere smantellata. Unitisi ai congiurati dovevano aprire la porta a Selci alle truppe provenienti da Pomarance, impadronirsi dell’aree di Castello e sollevare tutta Volterra.

Svanita la possibilità di entrare da Docciola, si pensò di rimediare concentrando degli armati nel convento di S. Andrea, il cui priore, ser Michele Dini da Bologna, era amico dei cospiratori ed ostile ai fiorentini.

Ma il giorno avanti della data fissata per l’esecuzione del piano, Giusto di Pietro di Giusto ebbe modo di avvicinare segretamente il commissario fiorentino in Volterra, Mariotto Baldovinetti, e riverargli la trama della cospirazione e le persone che ne facevano parte. E’ più che evidente che il della Bese non poteva essere a conoscenza di ogni particolare della congiura se egli stesso non vi avesse partecipato. La sua delazione non può trovare alcuna giustificazione. Tanto più che egli tradì i congiurati non per amore verso Firenze o perchè scoperto e costretto alla confessione, ma per ripromettersi una sostanziosa ricompensa in denaro.

Tutto ciò risulta chiaramente da una lettera che il 10 ottobre Giusto inviò alla Signoria di Firenze. Dopo avere accennato ipocritamente alle sue tristi condizioni economiche (“mi è rimasto solo un asinello che porta acqua alle donne”) ed essersi compianto per il suo destino (“sarà necessario partirmi da questa isventurata città per non essere tagliato a pezzi»), il delatore presentava il conto del suo servizio. La Signoria tenga fede alle promesse che a lui aveva fatto ii commissario Baldovinetti:

“Tu m’hai fato favore; di nuovo ti dico che ti farò grande maestro”.

I congiurati erano tredici; sette furono arrestati, gli altri sei riuscirono a fuggire. Il della Bese si compiace della fondatezza della sua denuncia:

“Tutti senza alchuno tormento confessarono ogni cosa, come io avevo detto”.

Gli imputati di maggior rilievo erano: messer Benedetto di Iacopo Lisci, Bartolomeo di Ricciardo Paganellini, Michele di Francesco Naldini, Cristofano di Matteo Borsellì, Sasso di ser Ranieri Lottini, Bartolomeo di ser Giannello Picchinesi, ser Michele Sighieri, Nanni di Iacopo Lisci. I primi due erano nel novero dei Priori.

Dei sette arrestati, sei furono giustiziati il 3 ottobre, uno, il priore di S. Andrea fu graziato. Il carnefice “che tagliò il capo a sei traditori”, fu compensato con lire 12.

Conosciamo il nome di quattro dei sei giustiziati, perchè “in articulo mortis” chiamarono al carcere il notaro ser Piero Caffarecci per dettargli le loro ultime volontà. I quattro furono: Michele Naldini, Sasso Lottini, Bartolomeo Pìcchinesi e Bartolomeo Paganellini. Tutti i condannati, contumaci o non contumaci, subirono la confisca dei beni.

Il delatore della Bese, la cui coscienza era pari alla propria moralità, non soltanto non si allontanò da Volterra, ma resosi insolente per la protezione dei fiorentini, tenne atteggiamento oltraggioso e superbo. I priori stanchi alla fine delle sue prepotenze, lo condannarono ad una multa per le parole ingiuriose pronunciate contro di loro. Tra l’altro aveva dichiarato:

“Se mi saranno tolti i miei paschi io ficcarò questa coltellessa per le budella a messo Benedetto e a ser Lodovico che hanno tale pratica nelle mani”.

Fu infine privato in perpetuo di tutti gli uffici e di ogni onore “a causa della sua vita sregolata, de perversi costumi del parlare arrogante e scandaloso, delle sue inique e pessime azioni”.

Giusto ebbe tre figli che certo non furono orgogliosi di tale padre, ed i della Bese si estinsero solo verso la fine del secolo XVI. Però, forse proprio per la malvagia azione del loro avo, avevano cambiato cognome, assumendo queìlo di Leostelli.

© Pro Volterra, ENRICO FIUMI
Della Bese, in “Volterra”