Giulio Orzalesi era nato a Volterra il primo dicembre 1897, nella casa segnata allora col numero dieci, in via Vittorio Emanuele. Dopo le sei classi elementari si era iscritto al primo corso preparatorio della Reale Scuola d’Arte Applicata all’Industria dell’Alabastiro, sotto la direzione del protesser Luigi Mengoli.

Terminato con profitto quel corso, prese a frequentere i corsi normali ottenendo sempre risultati brillanti1. A diciotto anni si iscrisse al corso di perfezlonarnento rna il soldato e la guerra gli impedirono di frequentarlo.

Anni prima la Scuola e la Cooperatìva Alabastri avevano istituito due borse di studio e la commissione incaricata «riconoscendo le ottime qualità di disegno e di modellazlone», gli assegnò all’unanimità, la borsa di studio dl lire venti mensili, col punteggio di dieci decimi per la prova a mano libera. L’anno dopo vinse pure il premio di quaranta lire: una somma apprezzabile per quei tempi lontani. Naturalmente fu conteso tra le varie ditte di scultura ma non volle mai lasciare né la scuola né lo studio di scultura Solaini dove era entrato giovanetto.

Allora la scuola d’arte era in piazza Marcello Inghirami e l’orario delle lezioni, limitato alle ore del mattino, comprendeva un po’ di cultura generale, plastica e soprattutto laboratorìo e disegno, compresa la teoria delle ombre.

Erano tempi in cui le famigIie volterrane preferivano mandare i loro giovani a «bottega», dove un ragazzo ben avviato poteva guadagnare, si e no, la metà di un operaio «rifinito». Per questa ragione c’era sempre qualcuno a darsi da fare per convincere i ragazzi a trascurare la scuola: guadagni certi, prospettive effimere, e poi la “pratica più della grarnmatica” riuscivano spesso nell’intento.

Associando il ricordo dello studio Solaini con quello del nostro Giulio, mi sovviene un aneddoto gustoso: tempo fa, nella sua piccola galleria di via Ricciarelli, mi venne fatto di dirgli che un certo DeI Rosso aveva tirato il violino2 al mio zio; non l’avessi mai detto! Saltò indietro e in avanti, com’era solito fare, e mi apostrofò così: “Gli devi dire al signor Del Rosso che il violino al tu’ zio gliel’ho sempre tirato io! lo gliel’ho tirato! Diglielo al signor Del Rosso! Lui, semmai, ha tirato qualche moccolo!”

Alcuni passanti si erano fermati e ascoltavano e ridevano rnentre io non sapevo cosa riepondere. Quegli scatti improvvisi, quel saltellare continuo lo rendevano ancora più simpatico. Quella sua vitalltà caratteristica sapeva metterla in evidenza anche a ottant’anni suonati.

DeI resto, per questo suo “argento vivo” gli fecero fare il militare negli arditi ed anche soldato, ed anche al fronte, trovava il tempo per disegnare, per fare i ritratti, cattivandosi la simpatia di tutti.

Di idee politiche avanzate, si iscrisse giovanissimo al partito socialista ed a questo partito rimase fedele tutta la vita, ricoprendo anche cariche direttive e in organismi comunali.

Buono d’animo, gentile, brillante, aperto con tutti, anche con i ragazzi pareva il ritratto della serenità. Semmai si scaldava un po’ al sentir parlare di arte moderna ma ritornava subito sereno: gli bastava l’antifona di un motivo musicale o una sdolcinatura in sordina per farlo tornare sereno; in un batter d’occhìo girava su sé stesso, saltellava un po’ e andava a riprendere quel discorso che aveva sentito in sottofondo.

Bisogna dire tuttavia che era un tantino disordinato ma non era un difetto: tanti uomini grandi sono stati o sono disordinatì! E quando la sua Maria gli metteva ordine in bottega bofonchiava e diceva: “E’ un ordine che mi scombussola e mi fa perdere il tempo e la pazienza”. E poiché non si poteva fare a meno di dargli ragione, aggiungeva, tra il serio e il faceto: “Anche la tua è come la mia? Lo vedi: sono tutte uguali le donne!”.

Era bravo Giulio. E quante cose ho imparato da lui! Mi tornano alla mente i discorsi improvvisati nella sua bottega o nella galleria “Daniele da Volterra”: “La scultura non si fa ‘alla sansfason’3, – per dire come diceva lui – “Bisogna sentirla! Bisogna dargli il pathos, alla scultura!”.

Amava tanto disegnare e pitturare a pastello ma la sua vera passione rimaneva la scultura, quella “vera”, somigliante, fresca. “Bisogna sentirla – diceva – bisogna dargli i pathos. La scultura alla sanfason falla fa’ a chi ‘un sa fa’!”. Infatti si sarebbe detto che “parlava” la sua scultura. Quelle testine messe su a palline di creta, rotolate tra le sue dita come un prestigiatore quei suoi ritratti in alabastro e in pietre dure sparsi in tutto il mondo stanno a testimoniare un’abilità superiore, a render vivo il ricordo nei volti della gente, come li ritroviamo evidenziati in tante sculture di urne volterrane.  Egli sapeva fare un ritratto in creta nel giro di pochi minuti, anche a persone viste per la prima volta, affidandosi alla memoria o alla fotografia.

Nel settembre 1970 eseguì il busto di Verdi per il centocinquantesimo anniversario della realizzazione del Teatro Persio Flacco. Per la circostanza veniva data l’opera verdiana “La forza del destino”. Fu allora che la soprano Linda Vajna e il baritono Aldo Protti, accompagnati da Aroldo Pocci, fecero irruzione, uno dopo l’altro, nella sua polverosa botteghina di via Campanile, supplicandolo furbescamente, ma con fervore ed umiltà, per un bustino in creta “nel giro di pochi minuti perché, l’ultima prova dell’opera stava per cominciare”. Chi non ha visto Giulio in quel momento non se lo può neppure figurare: era tanta la gioia mista al timore, alla reverenza, alla paura anche di non poter fare, che cominciò a balbettare più del solito; schizzava velocemente qua e là come un ranocchio, buttava creat sul “trespolo”, parlava piano, parlava forte, lasciando intendere che non li avrebbe fatti intanto li faceva. “Ma che si scherza davvero – diceva – è impossibile! Ma come si fa! ‘un so’ mica Fregoli!” e cose di questo genere mentre la soprano canticchiava e Protti gli teneva bordone. Allora Giulio smetteva di parlare, rizzava gli orecchi e quasi quasi gli sarebbe voluto andar dietro sommessamente, a bocca chiusa, se non fosse stato per il rispetto che aveva per quei due grandi artisti di fama internazionale. Intanto il tempo passava velocemente ma Giulio fu più veloce del tempo e riuscì a fare i due artisti, in alzato anziché a mezzo busto, tra la gioia e la commozione di lui e di loro.

Certamente non sono ancora pochi quelli che dicono e che diranno ancora: questo Verdi, questo Beethoven, questo mio ritratto l’ha fatto un omino di Volterra che non stava fermo neppure a legarlo; saltava in qua e là come una lepre però faceva certe sculture, alla prima, da far rimanere a bocca aperta!

© Pro Volterra, GIOVANNI BATISTINI
L’uomo e l’artista, in “Volterra”
L’uomo e l’artista, in “La Spalletta”, a. 25 gennaio 1986
1 Qui mi corre l’obbligo di ringraziare il professor Nuto Nuti, attuale direttore dell’Istituto Statale d’Arte di Volterra, per le notizie fornitemi di prima mano. Mi stuzzicano soprattutto quelle rilevate dai verbali del tempo che mettono in evidenza come e qualmente il giovane Giulio Orzalesl era sempre il più bravo di tutti. Dal 1946 al 1974 Giulio Orzalesl fece parte della Commissione della Cassa Scolastica dell’Istituto Statale d’Arte e istituì una borsa di studio annuale in memoria di suo figlio Mino, allievo e professore di quello stesso Istituto.
2 Gli alabastrai chiamavano violino un rnarchingegno composto di un rocchetto sul quale erano avvolte due cordicelle contrapposte per far girare un trapano avanti e indietro.
3 Usava spesso la parola “sans-façon”, in polemica con quei moderni “che gli par d’esser chissà chi”.
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lo conobbi Giulio Orzalesi durante la guerra. Cominciai a frequentare la sua botteghina di via Franceschini dove, incontrandoci spesso anche Dino Caprai. chìedevo a entrambi consigli sul modo di dipingere. Con loro mi ci trovavo bene: loro erano bravi e le nostre conversaztonl brillanti e scherzose. Anche Dino, nonostante il male che lo aveva coIpito, non faceva mai intravedere la sua pena; la nascondeva sempre dietro l’ombra di un conversare ironico che I’immedìatezza di pensiero dell’Orzalesi con le sue battute azzeccate rinforzava, facendoci trascorrere momenti nei quali dimenticavamo le brutte cose che avvenivano nel mondo.

E’ in questa bottega, in questo piccolo mondo che la personalità di Orzalesi si è sviluppata e riveIala, fino a darci quei capolavori di interpretazione dei caratteri di una stirpe contadina, che affondava le sue radici nella razza etrusca volterrana, stirpe ormai in estinzione per lo spopolamento delle campagne. Egli amava plasmare la creta in piccole dimensioni, ma in quelle figure appena abbozzate ritroviamo i volti della nostra gente, gli stessi che ritroviamo scolpiti nelle urne volterrane. Il merito di Orzalesi penso sia tutto qui: quello di aver flssato, sulle sue terracotte i caratteri puri di una popolazione diventata poi cosmopolita.

Pur definendosi uno scultore, era anche un bravo pittore. Da ricordare di lui un dipinto ad olio con il quale si aggiudìcò il primo premio ad una mostra regionale avvenuta a Volterra, raffigurante un aspetto dei mercato in via dell’Ortaccio, con questo lavoro egli dimostrò quanto avrebbe potuto dire anche nel campo della pittura.

L’arte, la passione politica, la musica, erano i suoi argomenti preferiti. Nel campo musicale Orzalesi, con una punta di orgoglio, si definiva un verdiano. A rammentargli Puccini, storceva la bocca: “E’ un po’ leggero”, diceva. Questo, immagino, doveva essere un residuo di un antico dualismo nato tra i vecchi alabastrai, appassionati di musica lirica. Dai tuguri dei loro poveri laboratori dove la miseria ci stava appiccicata come la malerba, uscivano sempre grandi canti, quasi sempre di poere verdiane, in special modo “La Traviata” tanto che, noi ragazzi, la sapevamo tutta a memoria senza averla mai vista.

Lo spirito che animava la sue composizioni faceva fermare molte persone davanti alla sua bottega. Chi non ricorda i suoi gruppi in terracotta?

Prima della guerra, quando Volterra faceva parte delle Città del Silenzio, col sopraggiungere della buona stagione, i vicoli fuori mano come S. Felice si popolavano di donnette e di ragazzi. Le donne, con la seggiola o sedute sugli scalini di casa, si abbandonavano alla maldicenza, dando via via degli strattoni ai ragazzi irrequieti che le nuore gli affidavano; chi aveva la ventura di passargli vicino, non se la cavava. Orzalesi ha fermato con la creta. questi gruppetti con grande spirito di osservazione.

La serie di artisti lnterpreti del nostro folklore, iniziatasi con i grandi fratelli Gioli, proseguita poi con Gambogi, Ercolani, Caprai, si chiude con Giulio Orzalesi. Egli è stato l’ultimo poeta che ha cantato quel sottile senso di romanticismo del quale la nostra città era pervasa. I suoi bozzetti, che sembrano fatti quasi di nulla, racchiudono invece il costume di un’epoca, il sapore della nostra terra, il sapore struggente di un tempo perduto.

© Pro Volterra, PIETRO CHIARINI
L’uomo e l’artista, in “Volterra”