Al principio del 1800 il capo della segreteria del Regio Diritto alla Corte della Toscana era il signor Tommaso Magnani; aveva un lavoro non troppo faticoso e nelle sue diurne mansioni non perdeva occasione per dichiararsi «Devotissimo Servitore di Sua Altezza Imperiale e Reale il Granduca».

E’ vero che si adoperava per la soluzione di tutti i problemi che si affacciavano al suo scrittoio, però metteva maggiore zelo nella soluzione dei problemi più semplici poichè (si diceva a quei tempi) è nelle cose piccole che si vedono le persone grandi.

Ecco perchè l’11 maggio dell’anno 1822 il lodato signor Tommaso, richiamandosi ad una circolare emanata dall’Imperiale e Reale Consulta il 3 luglio 1817 (non sempre rispettata evidentemente) prescriveva queste norme per l’apposizione dei cognomi agli infanti esposti:

«Che i Parrochi debbano apporre a que’ trovatelli, che vengono loro presentati per battezzarsi, e quindi essere inoltrati allo Spedale viciniore, non tanto il Nome, come finora si è praticato, quanto un distinto, e diverso Cognome, che non indichi nell’infante la qualità di esposto, né sia tale da richiamare idee di indecenza, o di ridicolo e che, per quanto possibile, non si confonda con quelli delle più illustri famiglie»

E come il nostro signor segretario sia giunto a prendere una simile decisione non ci è dato di sapere; evidentemente deve avere pensato che tutti i nomi portano a casa, perchè in precedenza gli esposti si chiamavano così (o press’a poco) nella nostra Toscana:

Marianna dell’Ospedale;
Terzilio dell’Ospedale;

E cioè sempre e comunque dell’Ospedale.

Va detto tuttavia che non tutti i preposti all’assegnazione del nome e del cognome si uniformavano alle nuove direttive, anzi: vi erano alcuni che si divertivano a rendere gli infanti ancora più esposti imponendo il nome in questa maniera:

Mansueta Mansueti;
Spiridione Spiridioni;

E cioè in una maniera che rendeva ancora più evidente intuire l’origine illegittima. Dopotutto il Granducato andava avanti ugualmente.

E’ vero che i «Carbonari» avevano già incominciato a riunirsi, ma quelli del Granducato, «in tutt’altre faccende affacendati», non se n’erano neppure accorti. Era arrivato il walzer viennese, allegro, trionfante, a sostituire il minuetto ed i cortigiani continuavano a godersi la vita. Del resto il walzer andava significando Vienna e Imperatore e questi nomi erano cari al Granduca.

Però, proprio in questo periodo, riapparvero certi casati strani che irritarono perfino S.A.I. e R. la Granduchessa. Perchè se i cognomi si posponevano, venivano a comporsi frasi ridicole e indecenti; ad esempio:

Ligna Emma (o Emma Ligna);
Cava Luca (o Luca Cava);

Ed era proprio nella versione tra parentesi che le persone facete prendevano ad usarle. Sui nomi Sandro e Luca Cava ci ricavarono perfino una «storia».

Per queste ragioni il 27 gennaio dell’anno 1846 l’addetto alla segreteria del Regio Diritto, signor Vincenzio Bani, dietro suggerimento della Granduchessa, ritornava sull’argomento.

Questa volontà del Granduca di assegnare un normale cognome agli esposti scaturiva certamente da un’idea molto apprezzabile; tuttavia il Granduca non ottenne l’effetto sperato. Del resto questo problema non lo risolse neppure la monarchia dei Savoia e neppure il fascismo, il quale si pronunziava spesso in tutt’altre maniere. E quando Mussolini sosteneva che la razza italiana doveva essere pura, S. M. il Re Vittorio Emanuele III si ringalluzziva e gongolava.

Oggi il problema è risolto però ce ne sono voluti dei secoli! Ce lo da ad intendere Mario Battistini nel suo libro «Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra»:

«Il 3 maggio 1297, Puccino fu Tuccio di Riparbella donava a Margherita, sua legittima moglie nutritae et misericordia allevatae in hospitali Sanctae Mariae de Vulterris, patre suo ignorante lire 20». Io penso sia questa la più lontana notizia volterrana sui gettatelli (si chiamavano così) e penso che essi siano stati accolti solamente dall’ospedale centrale, perchè nel 1325 il Vescovo proibiva di tenere gettatelli nell’erigendo ospedale di Santo Stefano in Volterra.

Nel 1472 (secondo una relazione anonima) furono rinvenuti sei gettatelli presso le porte della città (a quei tempi, quelle porte erano chiuse dal tramonto all’alba) e presso la chiesa dell’ospedale. Negli anni seguenti questi gettatelli aumentarono a dismisura.

Dal 1570 al 1575 furono abbandonati all’ospedale 323 bambini e dal 1573 al 1584 ne furono portati 739, rendendo difficile sostenere le spese dei baliatici. Per questo gli ufficiali del Bigallo deliberavano «non potersi, né doversi da qui in avanti pigliare nessun fanciullo o fanciulla, fuori che quelli che entrano per la buca della ferrata solita». Evidentemente non tutti erano illegittimi!

Dal 1707 al 1709 furono abbandonati 50 bambini; dal 1739 al 1748 ne furono calati 213 e di questi 106 morirono. Dal 1742 al 1758 il numero dei trovatelli fu di 410, dei quali 229 morirono.

Le mamme di questi bambini erano generalmente domiciliate a Volterra o nei comuni della zona; alcune vi erano venute a cercare lavoro; altre venivano a sgravare in casa di parenti per evidenti ragioni di segretezza. Comunque erano ragazze ingannate dal «signorotto», dal primo amore, dal primo arrivato, dal padrone del «servizio» e, comunque, dopo l’inganno, non avevano altra scelta che pensare a far girare la «ruota».

E la «ruota» girava.

Per godere della unanime discrezione, gli espositori, di solito ricorrevano a terza persona la quale, dietro adeguato compenso, si addossava il delicato incarico della deposizione, impegnandosi al più assoluto segreto.

A Volterra la «ruota» era stata sistemata nell’angolo destro dell’attuale facciata dell’ospedale civile. Fu tolta per mettere in pristino la facciata e fu collocata all’ingresso del convento di via S. Lino.

Quella «ruota» la faceva speso girare una donnina del vicino paese di Montecatini. Era una donna che andava con la luna; i maligni la chiamavano «Procaccina».

E la Procaccina precisava: «Siamo di combinato; giorno tale, ora tale, curva tale, a destra» E sull’imbrunire di quel «combinato giorno» si stringeva il fisciù sotto il mento e incominciava a scarpinare per i viottoli di campagna. Arrivava sempre in orario, scambiava pochi convenevoli, rigarantiva la segretezza ed il buon fine, prendeva l’innocentino ed il malloppo e s’incamminava verso l’ospedale, mentre le stelle stavano a guardare.

A notte fonda depositava il bambino nella «ruota» e suonava il campanello. «Gente che gira di notte», avrebbe detto Don Abbondio! E invece, dall’altra parte, si svegliava di soprassalto Federigo Fantozzi il quale girava subito il meccanismo, prendeva il bambino, lo metteva in una culla e, bofonchiando, tornava a letto. I commenti sarebbero cominciati all’alba, appena Federigo riprendeva il suo posto di sarto e di portiere, in quella stessa stanza dove girava la ruota.

La vicina frazione di Villamagna, anche in tempi relativamente lontani, era quella che ospitava buona parte di questi «nocentini», non appena l’età e la salute lo consentivano. Va detto, ad onore dei Villamagnesi, che il piccolo ospite veniva subito inserito nella già numerosa famiglia, per lo più colonica, e, da quel momento, veniva a godere diritti ed affetto alla pari dei figli legittimi.

© Pro Volterra, GIOVANNI BATISTINI
Quando girava la ruota, in “Volterra”