In casa di Maso delle Colombaie c’era sempre veglia, in qualunque stagione. Anche quando il vento, mulinando nella forra, ne usciva fuori a sbalzelloni e schiaffeggiava le piante, i pagliai, le case dei contadini, e portava più lontane le foglie, le pagliucole, i pezzettini di loppia. Anche quando si scatenava un acquazzone e veniva giù a rotta di collo e poi si calmava, ma seguitava per qualche giorno quell’acquerugiola – ugiola – ugiola, insistente come se ci avesse da riscotere.

Maso era sempre stato amante dell’allegria e della bagana ed era tornato apposta al podere delle Colombaie, mica perché gli garbasse il posto, ma perché c’era un popo’ di cucinone più grande dell’aia e ci potevano ballare venti coppie senza darsi le gomitate. Già in famiglia erano parecchi: diciotto mi pare, e diciannove col bastardino che avevan preso all’ospizio; sicchè, diceva Maso, quando c’è di molto ragazzaio le stanze ci vorrebbero larghe come l’aria dei campi. Eppoi, una volta, quando gli sposò una nipote, fecero il desinare in quella cucina e fra la gente di casa e gl’invitati saranno stati più di sessanta. Maso non si sgomentò, allungò il tavolone con alcune caprette, fece cocere diversi luci, diversi polli, un monte di baccalà e così, alè, tutti sistemati in cucina a sgranare in onore degli sposi. Chi ne toccò fu il vino, ma d’altronde anche Maso diceva: “Forza ragazzi, dàmogli sotto, oggi è baldoria e, anco se si piglia la scimmia, la moglie non letica”.

Tutte le sere Maso aveva la cucina piena di gente. Da una parte c’era un gran focolare alla fratina, di quelli quadrati con le tavole torno torno, e i vegliatori più anziani ci si schiaffavano a sedere e ci si crociolavano, anzi qualcuno ci si sdraiava, sulle tavole, e dopo un po’ si sentiva russicchiare. Maso accaparrava subito i primi che venivano, e si metteva lassù, in cima al tavolincione, a giocare a briscola con delle carte talmente unte bisunte che ci si poteva fare la minestra di magro. Sotto il lume a petrolio la capoccia faceva la soletta, certi solettoni così massicci che sembrava fossero il principio d’una coperta da cavalli. E poi c’era Teo del Gigli, la Rosa di Fuso, Nando di Piancorboli, la Mèna delle Giuncaie, Carubo d’Ulimeto, l’Argenta di Beppone e un’altra brancata di giovinotti e ragazze, che ci venivano non tanto per stare a chiaccherare quanto per divertirsi con l’organino che sonava Cecchino delle Valli.

Cecchino sapeva soltanto alla meglio, ossia alla peggio, una polca, una mazzurca e un valzer e, sempre con la stessa tiritera, avrebbe fatto sentire il capo anche a un’acciuga; ma invece lì facé furore, con tutta quella gioventù che si sentiva prudere i piedi alle prime note. Dapprima cominciava qualcuno a provarsi a ballonzolare solo solo, poi cominciavano a formarsi le coppie e si vedevan frullare ch’era un piacere, specialmente se ballavano la polca col ginocchiello. Lì d’intorno, su un pancone e su delle sedie sganasciate, ci stavano gli altri a guardare e a ridere. C’erano dei capocci coi vestiti di frustagno tanto lustri che ci si poteva guardare nello specchio: e c’erano anche delle ragazze che parlavano d’amore, e dei giovinotti che raccontavano di quand’erano alla guerra.

Finchè la veglia non finiva, non finiva nemmeno l’allegria. E, magari, fuor della porta c’era l’ira di Dio: veniva giù a sghilembo del nevischio scaraventato a manate dal vento, che a volte ha dei lamenti così strani che sembran quelli d’un cristiano scorticato: si sentiva la voce cupa della forra: si sentiva scorrere fragorosamente, in basso, il fiume Era, gonfio di dolore perché il cielo gli aveva pianto addosso tutto il giorno.

In queste serate d’inferno Maso accendeva il lume alla Madonna del Rosario, che aveva sempre tenuta in venerazione sopra una tavoletta, sorretta da due pioli, vicino alla porta. Per accenderlo raccapezzava sulla cornice del camino un fiammifero con lo schianto, se lo sdrusciava ai calzoni di frustagno alzando la gamba, e, quando non gli prendeva o si scapava, era capace di tirare anche un par di moccoli. Non vuoi dire, ma era cristiano e non mancava mai, la domenica, di ascoltare la Santa Messa. Eppoi, alle sue veglie, ci bazzicava sempre il pievano, un tipo di bòna compagnia, lungo e secco, più birbo – con rispetto – di un animale con le setole. La chiesa era vicina; in mezzo a un gruppetto di case sopra un cocuzzolo da cui si vedeva tanto mondo; e il pievano, la sera dopo cena, si avvicinava alla porta, ficcava chiotto chiotto il capo fuori per vedere che tempo faceva, si tirava su il bavero e ne teneva unite le becche per tapparsi i denti (chè ce n’aveva due imbacati) con l’altra mano si reggeva la gonnella e via, giù per gli scorci dell’Era sgattaiolava in casa di Maso.

● ● ●

Anche quela sera della Candelora i vegliatori erano quasi al completo. Sotto il lume a petrolio, accanto alla capoccia che faceva i solettoni, un giovinotto che non era davvero ignoto – dicevan loro – ma che aveva imparato a leggere, a scrivere e a far di conto, leggeva a strambelloni un giornale, dove ci diceva che una serva s’era avvelenata a Napoli, che a Roma c’era stato un banchetto fra pezzi grossi, che a Parigi avevan trovato una donna fatta a pezzi e rinchiusa in una valigia, e che in un altra città dell’estero (non mi rammento quale) ci doveva essere una conferenza per la pace.

– Trappole! – disse la capoccia scrollando il capo – énno trappole! O che crederebbano di rimettere la pace nel mondo stando qualche giorno lì a chiacchera? L’hanno presa per acqua da ochi, la pace! Ma a loro gli basta di sbafare: chi manica di qui, qui manica di là, én’é tutta una pappatoria…

In questo mentre entrò il pievano e dette la bona sera.

– Bona sera – risposero tutti.

– S’accomodi, Sor pievano – aggiunse

Gigina, la figliola di Maso: una ragazza sulla ventina, ben formata, robusta, con un bel visino giovale che incantava e, non soltanto quando andava in città, ma anche quand’era pei campi, gli stessi contadini si fermavana a guardarla. La sera prendeva parte alle veglie, rideva scherzava con tutti, ma nello stesso tempo seguitava a fare qualche faccenda per la casa.

– S’accomodi, sor pievano – ripetè la Gigina – là torno al foca, ci starà com’un Papa.

– Grazie – fece il pievano. E, mentre tirava fòri una pipaccia aggrumata che friggeva più d’una padella sul foco vivo, andò a sedersi al focolare dicendo:

– Speriamo che non mi succeda come a prete Ansano.

– O che gli successe a prete Ansano? – fece la capoccia alzando il capo.

– Vi dirò: andava tutte le sere a veglia da un contadino e prendeva sempre il meglio posto al focolare, che però era tanto più piccolo di questo; anzi, a volte non contento si sdraiava sulle tavole, mentre gli altri stavano per cucina a battere i piedi per riscaldarsi. Una sera però, arrivata l’ora d’andare a dormire, prete Ansano s’allungò e fece per rizzarsi, ma prova e riprova non ci fù cristi. Indovinate: l’avevan fatto appiccicare alla tavola con la pece, e, se vòlle tornare a casa, gli toccò strapparsi tutta la tonaca nel sedere.

Ci fu una risata generale.

– Scommetto – disse la Gigina – che questa qui non la sapeva nemmeno il Sor Adesso, che sa tutto, lui.

Il sor Adesso sarebbe stato un giovinotto ch’era seduto sul pancone e chiacchierone, un bel giovane alto con una gran sciarpa rossa alla cintura e una catena di metallo e un bel cipollone d’orologio, con un paio d’occhi scintillanti che alla visita militare l’avevan segnati ardesiaci, insomma quando s’è detto un bel giovane s’è detto tutto.

Aveva fatto il soldato sette o ott’anni della classe del 1892 e quand’era tornato parlava un po’ forestiero e diceva sempre adesso anche quando non c’entrava: “adesso non lo farò mai”, “adesso forse ci anderò domani” e qualche volta diceva anche adesso ora; “adesso ora viengo” e così la Gigina lo canzonava e lo chiamava il sor Adesso; ma il suo vero nome era Giannotto.

In quel mentre stava raccontando per la millesima volta d’un suo caporale “ch’era un fesso e che l’aveva preso a sfottere” sicchè, quando la Gigina lo interrogò direttamente egli fu costretto a dire che non c’era stato attento a quello che aveva detto il pievano.

Già. – fece Gigina – Le solite scuse per non passare da ignorante. Devi confessare, piuttosto, che all’infuori di tutte le tu’ fanfaronate di quand’eri sotto le armi, non sai dire altro perché non sai altro. E pensare che tutti ti credono un grand’uomo!

– Eh, Gigina, ma che l’hai con me, stasera? – fece Giannotto alzandosi e avvicinandosi a lei sorridendo – Bada che se mi stuzzichi metto su il tu damo, lo fo ingelosire e ti fo lasciare.

– Quant’a cotesto, bello mio, mi feresti poco davvero! Lo sai che non ce l’ho il damo, perché non mi son mai voluta mettere a fare all’amore con nissuno. Del resto, di te non sarebbe geloso dicerto: badatelo lì, un giovanotto che non è stato bono a fare una dichiazione a una ragazza!

– Sta’ attenta! – interruppe la vecchia – Ho paura invece che Giannotto sia come il Cristo del Berti: era di legno e baciava le donne.

– Macchè – seguitò la Gigina – si sanno le tu’ prodezze: Ia Tonietta di Giangio…

– Ma quella – disse Giannotto (che internamente godeva della conversazione perché non era indifferente alle grazie della Gigina) – quella non mi garbava e avrei voluto fare per burletta, siccome ero amico del su fratello, pensai di non farne più di nulla, stesi e addio.

La Gigina, a un tratto, si battè la mano sulla fronte: Perdinci, altro che burlette! Mi scordavo che domani è sabato e che ci ho da preparare il paniere dell’ova per il mercato.

E corse di là, in un’altra stanza, dove c’era più fresco e ci tenevano l’ova stese perché si conservassero meglio. Tornò dopo qualche minuto con una grembiata piena, prese di sotto la madia un gran paniere pulito lindo, lo posò sul tavolo e si disponeva a metterci l’ova dal grembiule.

– Piuttosto che star così impalato come un lòcco, – disse a Giannotto – faresti meglio, a reggermi il grembiale per le cocche, ché farei al doppio più lesta. Ma scommetto non sei bono nemmeno a far questo.

Giannotto si mosse zitto zitto, prese le cocche del grembiule, e fissava, le belle mani di Gigina che scaricavano l’ova. A un tratto lei gli si rivolse, a bassa voce, con quel sorriso che scopriva un recinto di denti bianchi bianchi come se li avesse sdrusciati con cento dentrifrici e con cento spazzolini da signora. – Di’ Giannotto, non te ne sei mica avuto per male, vero? Lo sai che si scherza…

– Oh no, te mi conosci, non sono permaloso – rispose Giannotto inebriato da quella bella vicinanza.

E Gigina seguitò il trasbordo dell’ova.

Quando era quasi in fondo, gli si rivolse di nuovo, questa volta però col viso più computo e con la bocchina stretta e allungata: – Sicchè, via, Giannotto, non mi terrai mica il broncio anche se ti seguito a chiamare il sor Adesso?

Giannotto, che già pencolava, appastato da quell’espressioni di dolcezza uscite da una bocca di fata, non ebbe la forza di rispondere, si sentì preso da un nonsocchè come se avesse avuto la sbornia. Rimase lì mezzo inebetito, le dita involontariamente non gli fecero più forza e lasciò andare le coche del grembiale. Gigina si chinò subito col grembiale per attutire il colpo, ma sì, l’ova erano già volate per terra e s’erano spiaccicate sui mattoni.

– Te lo dicevo, io, che non sei bono a nulla!

Giannotto, che c’era rimasto male ed era diventato rosso come il naso brignoccoluto d’un beone, fu scosso dall’urlo bestiale che fece la capoccia e s’azzardò a balbettare: – Scusate, è stata una disgrazia: certamente ve le ripagherò.

– Non fa quistion di quello, rimproverò la vecchia – ma voialtri avete sempre le ruzza!

– State zitta, mamma, – disse la Gigina – se ne san rotte sei soltanto e non è stato poi un gran disastro a quel che potea essere se fosse successo prima. Piuttosto, se Dio ne guardi questo tartufo di Giannotto m’ha fatto sporcare il grembiale. lo mangio vivo!

E sotto il lume, accigliata, girò e rigirò il grembio per vedere se nel chinarsi s’era insudiciato d’uovo; ma, fortunatamente, non ci trovò nemmeno una macchiolina. Lo teneva come le cose sante e, per la sua anima rustica, aveva un nonsoccè di gentilezza e di poesia: era un grembiule di bordatino rosso con tante pallottoline bianche e l’aveva comprato alla fiera di Pomarance, quando andò a passare due o tre giorni dalla zia Càtera, zia per parte di mamma.

La Gigina, rasserenatasi, fece una cantatina a mezza voce, tornò a scherzare e la conversazione riprese più vivace.

Poi la veglia finì e i vegliatori se ne andarono: se n’andò anche Giannotto, ma prima di passare la porta non potè fare a meno di voltarsi dalla Gigina, e la vide sorridere a lui mostrandogli le cocche del grembiale.

Fuori, notte senza luna, ma di quelle notti fredde e chiare che son sacrate al dominio delle stelle. E si vedeva la Via Lattea più lunga della fusciacca di Giannotto: e si vedevan le stelle, tutte le stelle che un occhio nudo ha mai potuto vedere, numerose come i pensieri del mondo senza pace.

Su, per i viottoli che menavano alla chiesa, funzionavano i garetti del pievano e, per tutti gli altri sentieri che si irradiavano dalla casa di Maso, i villici se n’andavano a cuccia. La Gigina, affacciatasi sulla porta prima di chiuderla, sentì già distante un gruppo di giovinotti che si allontanavano cantando. Tese l’orecchio:

Quel mazzolin di fiori
che vien dalla montagna…

Gente che avevan fatto il soldato, lassù. Chissà che non ci sia anche Giannotto.

● ● ●

Poche ore dopo, i galli cantavano una alba di amore e di luce. E venne il crepuscolo e poi apparì il sole nudo nudo, quello che rallegra le più cupe tristezze e che solleva tante piccole miserie.

A una cert’ora della mattinata, Gigina, già tornata dal mercato, uscì nuovamente per fare l’erba ai coniglioli. Era ben pulita e ravversata, come sempre, ed era fresca come un telegramma da aprirsi; aveva in mano un falcino ed in testa quel caratteristico cappello di feltro che le contadine della campagna volterrana portano in ogni tempo, d’estate e d’inverno: “Quel che para lo freddo para lo caldo”. Saliva piano piano su per un viottolo che fa capo ad una strada carreggiabile, quando scorse, nella strada, Giannotto che scendeva. Anche Giannotto la vide, ripensò involontariamente alla brutta figura che aveva fatto la sera avanti e, riguardando con una occhiata nascosta quel magno grembiale, rosso a pallottoline bianche, diventò rosso rosso anche lui, però senza pallottoline. La Gigina, birba, finse di non accorgersi di questo cangiamento da camaleonte e, quando fu in cima dove il viottolo faceva l’angolo con la strada, aspettò un secondo che arrivasse Giannotto e gli dise con stupore:

– Alla grazia di Giannotto! O che ci giri da queste parti?

– Eh, – rispose lui – adesso calavo giù al mulino per sentire se domattina mi potevano macinare un po’ di grano. O te dove vai?

– Ci ho da fare un po’ d’erba per quelle pore bestiole. Salutami tanto l’Argenta. Addio a stasera.

– Addio.

Si separarono e la Gigina, saltata giù in un campo, cominciò a tagliare l’erba cantando alcuni stornelli. Ad un tratto le parve di sentire uno scalpitio, alzò il capo e rivide Giannotto sul ciglio dell’argine.

– Toh, o che sei sempre qui?

– M’era parso che tu m’avessi richiamato e son tornato indietro.

– Macchè, non ha sentito che cantavo?

– Già, dopo l’ho sentito e siccome cantavi tanto bene mi son fermato un po’: non ti do’ mica noia?

– Ma che ti pare!

– Ricanta Gigina, quello che cantavi adesso, che m’è garbato un bischerio.

E la Gigina, seguitando a far l’erba, senza farsi pregar tanto con voce chiara nel mattino chiaro ricantò l’ultimo stornello:

Geranio in fiore;
m’han detto che nota per amore,
ma chi sarà, ma chi sarà il mio amore?

– E se fossi io? – disse Giannotto saltando giù nel campo e prendendo la Gigina per un braccio – e se fossi io il tu’ amore?

Lei, sorpresa da quella mossa, rimase un po’ sconcertata e lo guardò: era piuttosto rosso di timidezza, ma aveva negli occhi luminosi la fermezza di una decisione. Liberò il suo braccio, fece un sospiro e poi esclamò: – Ohè, Giannotto, non me le far più queste paure!

– Eppure bisognava che mi decidessi una buona volta: è tanto, sai, che pensavo a te, ma non lo davo di vedere perchè avevo paura di fare un fiasco come tutti gli altri. Adesso poi non ho più potuto resistere, ti voglio troppo bene …

– Mi vòi beni – interruppe lei ridendo – Mi vòi troppo bene, a me, che t’ho sempre chiamato il sor Adesso per canzonarti e che t’ho sempre fatto scomparire davanti a tutti facendoti passare per un fanfarone! Non è la più lunga di ier sera: di’, te ne ricordi di questo grembiale?

– Se me ne ricordo? Ci voleva per l’appunto lui a darmi l’ultimo setolino… Te non t’immagini mai quello che sentii quando mi facesti reggere le cocche e mi parlasti a quel mo’. Eri tanto bella, Gigina, con quelle mosse, che mi sentii mezzo rincitrullito e mi pareva d’esser tornato sotto l’armi, a Napoli, quand’ero attendente d’un capitano che studiava sulla lecitricità, e lui mi faceva prendere in mano de’ cosini lustri che mi faceva venire un brivido lungo per di dietro l’ossa.

– Ah, Ah! Rièccotelo co’ su’ racconti da militare…

– No, Gigina, adesso parlo sul serio.

Senti, mi devi dire francamente se io ti garbo e se ti vòi mettere a fare l’amore con me.

La Gigina cambiò atteggiamento e da sorridente si fece pensierosa; riflettè un po’ e disse: – Come si fa, così, sùbito a decidersi? ne convieni, Giannotto… Bah, che ti devo dire? Garbare, non lo nego, mi garbi; ma, sai, prima di dare una risposta voglio esser sicura. Non son mica di quelle citrullette, io, che cambian dama per ogni fiera.

Giannotto, tutto ringarzullito dalla speranza, replicò: – Ma io son pronto a darti tutte le prove… Guarda: oggi sùbito ne parlerò in casa mia e in casa tua e, se saranno contenti, nella settimana entrante ti porterò su in Comune, al Civile, per mettersi in colonna e poi si caverà i ricordi anche in Chiesa, in modo da sposare prima che finisca il carnevale. Se’ contenta?

La Gigina, che aveva posato il falcino sul mucchietto dell’erba tagliata e che era tutta compresa dalle dichiarazioni di Giannotto, aveva ora nel viso un’espressione sincera di calma e di contentezza.

– Son contenta, sì perchè sento anch’io di volerti bene, Giannotto, e non mi parrebbe vero di sposare subito come dici te, ma come faccio, io, che non ci ho neppure un briciolo di corredo?

Giannotto, che in quel momento non si reggeva più dalla gioia e che avrebbe rinunziato a qualunque altro bene della vita, sorrise di grandezza e rispose con parole enfatiche e rozze: – Il corredo? E che me ne n’importa a me del corredo?

Ma gli uccellini, che sugli alberi d’intorno avevano ammirato quella scena e avevano ascoltato sorridendo e cinquettando; gli uccellini, sempre loquaci e sempre poeti, completarono la risposta troppo semplice di Giannotto: – Il tuo corredo, Gigina, è la bellezza e l’amore.

● ● ●

In casa di Maso delle Colombaie c’era sempre veglia, in qualunque stagione; anche quando il cielo sputava sulla terra così rabbiosamente come se fosse la frusta del castigo.

I vegliatori, in quell’ultimo periodo di carnevale, erano ancor più briosi del solito e nemmeno quella sera, penultimo venerdì avanti le Ceneri, si stancavano di dare il mirallegro ai futuri sposi. Giannotto ne gongolava e si pavoneggiava, chè gli pareva desser cresciuto d’importanza: la Gigina invece sorrideva più semplicemente e seguitava, come sempre, a far le piccole faccende della casa. Strusciò ben bene l’acquaio con un granatino e vi rimise sopra, da una parte, le brocche; stracciò la cenere per il bucato; mise in mollo il baccalà secco; spazzolò la madia; macinò il caffè; e poi, accingendosi a preparare l’ova perchè il giorno dopo c’era il mercato in città le venne fatto di dire: – Ehi, Giannotto, aiutami a preparare l’eva per domani che è sabato.

Ma le venne fatto, anche, di guardare istitivamente la su’ mamma; e si sentì fulminata da un’occhiata animalesca della vecchia capoccia. L’occhiata significava chiaro e tondo: “Sei un’imbecille! Se, Dio ne guardi, mi rispaccate l’ova. si fa saltare i burattini”. Questo colloquio alla mutola durò un secondo e la Gigina ebbe il modo e la prontezza di correggersi: – O sennò, Giannotto, non importa, l’ova le preparo da me, di là. Piuttosto stammi attento che non trabocchi quella pentolina di latte che ho messo al foca.

E Giannotto si mosse verso la pentola mentre I’organino di Cecchino delle Valli riattaccava il solito valzer, mentre quelle coppie di butteri ballavano avviticchiate come calcamanine, mentre il pievano fumava tempestosamente nella pipa aggrumata, mentre il capoccio Maso, in cima alla tavola, ammiccava al compagno il regio di briscola.

La mattina dopo, tutte l’ova sane e salve, disposte con una certa simmetria nel paniere pulito e lindo, sotto il braccio della Gigina, salivano verso la città rassegnate al loro destino: per i pasticcini di qualche ghiottone e per le frittelle casalinghe o per la gola di qualche povero fisico.

La Gigina, vestita come sempre, ancor più bella nella sua semplicità, calamitava lo sguardo dei passanti con la sua persona, col suo sorriso, col suo grembialino rosso a pallottoline bianche: non lo portava mai in città, ma questa volta se l’era messo per far piacere a Giannotto che ci aveva preso, anche lui, una certa affezione.

Giannotto le camminava a fianco, vestito di frustagno novo, con la famosa fusciacca e con la catena di metallo; non stava più in sè dalla gioia di trovarsi a lato della sua Gigina, di questa bella ragazza che tutti ammiravano, e si sentiva un ardore tale che la Gigina, non essendo possibile che potesse star dietro al suo passo in salita, dovè più volte richiamarlo alla moderazione.

In alto, la città etrusca, più antica dell’egoismo e dell’odio, dalle sue torri e dai bastioni ghignava su quell’amore che nasce tra gli uomini con l’evoluzione della farfalla o del baco da seta.

Giannotto e Gigina raggiunsero le mura; entrarono da quella porta chiodata che tiene ancora in mezzo alla fronte, come l’occhio di Polifemo, lo stemma mediceo; e calpestarono il lastricato di quelle strade che sanno tutto il buscherio dei secoli passati.

In mezzo alla via, un rivendugliolo, chiaccherando tranquillamente, fermava tutte le contadine prima che giungessero al mercato e comprava polli, conigli, erbaggi. Anche l’ova di Gigina finirono, tutte in blocco, nella sua bottega.

Ma Giannotto e Gigina, quantunque a paniere vuoto, andarono lo stesso al mercato, girarono un po’ per vedere cosa faceva la piazza, si fermarono a chiaccherare con diversi conoscenti; poi uscirono di piazza e si recarono da un negoziante per comprare un letto bello novo e per fare lo stacco di tutta la roba.

E dopo andarono su in Comune, al Civile, a cavare la proclame.

© Pro Volterra, GIUSEPPE PILASTRI
Le veglie di Maso, in “Volterra”