Una città che fu nel libro di Luca Caioli “Io, il Pupo”; una biografia in diretta che fa rivivere tempi andati anche a chi, come il sottoscritto, ha qualche anno meno del nostro Aulo. Scegliendo fior da fiore, come si usa dire, un passo apparentemente insignificante mi ha particolarmente colpito, là dove il Pupo raccontando di suo padre dice: “il mi’ babbo andava a lavorare in città, a Volterra”. Memoria solo in apparenza pleonastica o ridondante perché in quei tempi effettivamente una cosa era Volterra altro erano i Borghi, termine con cui ci si riferiva poi ad un borgo per eccellenza, Borgo San Giusto, e questa scontata consapevolezza è ancora oggi nel parlare cittadino; infatti se qualcuno ci dice di abitare nei Borghi non ci viene certo da pensare che intenda riferirsi a Borgo Sant’Alessandro o San Lazzero o magari Santo Stefano; l’espressione i Borghi sta inequivocabilmente a sottintendere Borgo San Giusto, una specie di enclave storica nella nostra comunità con confini anche ben precisi, dalle Balze alla Scuola d’Arte.

Ricordo che quando ero bimbetto anche il termine borghigiano a Volterra città, quella dentro le porte, connotava spesso in senso bonariamente dispregiativo una qualche persona di modi non proprio urbani e raffinati. Ed ancora nel sentire collettivo i Borghi richiamavano immediatamente comunisti e anarchici, le pappardelle dello Sgherro, la squadra rionale di calcio della Stella Azzurra, il Circolo Arci dove in occasione delle partite tra Russia e Italia, trasmesse dalla televisione in bianco e nero, prevaleva nettamente il tifo per i compagni sovietici, per non dire poi che nei Borghi si parlava un linguaggio in buona parte autoctono ricco e colorito di originali espressioni idiomatiche. Insomma una realtà quella dei Borghi, anche per molti altri aspetti su cui non voglio dilungarmi, ben caratterizzata e identificabile e percepita diversa da quella della Volterra tra le mura.

Ma la riflessione che mi ha prodotto “l’andare a lavorare in città” del babbo del Pupo è quella relativa al concetto di distanza così come allora era sentito. Dai Borghi a Volterra si andava a piedi e al di là della salita impegnativa si avvertiva chiaramente che si lasciava un posto, quello naturalmente d’origine, per recarsi in un altro per lavoro, insomma ci si considerava un po’ pendolari e va inoltre considerato che ancora non c’era il servizio di trasporto urbano, quello di “Poppe”, per intenderci il “Poppebus”, dal soprannome del proprietario del pulmino che prese a circolare negli anni Sessanta del Novecento. Sì, i Borghi erano lontani da Volterra ed io che negli anni Cinquanta sono cresciuto e ho passato l’infanzia in Via Codarimessa, credo di esserci stato poche volte, sempre per Natale condotto da mamma a fare gli auguri ai suoi zii che appunto in Borgo San Giusto abitavano. Come ricorda il Pupo, in altra parte del libro, a quei tempi, e come posso testimoniare anche poco dopo, non ci si muoveva troppo spesso da bimbi né vi era l’occasione per farlo anche all’interno della stessa Volterra.

Passavamo noi maschietti, perché le bimbe erano più “a catena” come il Pupo rammenta, l’intero pomeriggio, dopo la scuola, in strada, quella davanti casa, da meniños de rua come si direbbe oggi. Ricordo bene che da Via Codarimessa, in verità un vicolo chiuso, mi spingevo fino alla contigua Piazza degli Avelli, a Via Ortotondo e al massimo all’inizio di Via della Pietraia. Sulle pietre della strada si segnavano con una scaglia di alabastro le quadrettature della gamba zoppa e la pista per le corse con i tappini, non mancava mai un pallone sgonfio e altri giocattoli erano improvvisazioni di non piccola creatività: fucilini consistenti in un pezzo di legno su cui si piantavano un chiodo e una molletta per tendere il proiettile cioè un elasticino, rudimentali fionde e cerbottane per la caccia alle lucertole e per le “guerre” con i Portallarchini e i Sanfelicini cioè i coetanei che abitavano rispettivamente in Via Porta all’Arco e Via San Felice e che se le davano spesso di santa ragione nel sottostante spazio verde dei Pratini.

Noi “ragazzi delle mura” eravamo pochi, vaso di coccio tra vasi di ferro, e quindi ci alleavamo ora con gli uni ora con gli altri vendendo la nostra prestazione mercenaria in cambio di qualche figurina di ciclisti. Qualcuno si domanderà oggi chi ci controllasse durante le nostre attività più o meno ludiche: tutti e.. nessuno in realtà, però gli alabastrai, allora numerosi, uscivano di bottega se vedevano che qualche rissa degenerava e i grandi di passo ci facevano un bércio o ci allungavano un pattone in caso di eccessivo schiamazzo. Dopo aver incontrato qualche cazzotto nel corso delle frequenti lotte e con le ginocchia regolarmente sbucciate rientravo a casa al tramonto per fare i compiti spesso sudicio come un bottino e pronto per tinozza e bruschino. Però quelle due corte strade e la piazzetta delle mura alte sono state la mia infanzia ed insieme ai miei compagni di giochi ne ho un ricordo comunque bellissimo, come il Pupo dei suoi Borghi.

Ma torno al concetto di distanza da cui sono partito. Quando mamma mi mandava a fare acqua in San Giovanni, dove c’era una fontanella pubblica, anche se la distanza da coprire era di circa duecento metri, mi sentivo abbastanza all’estero, fuori dal mio guscio naturale, e quando il mio quanto mai adorato maestro, Lorenzo Lorenzini, decideva di fare alla classe una lezione di storia o geografia sul campo, conducendoci ad esempio sui Ponti per parlarci della fortezza medicea o indicarci dalla spalletta il mare, la Corsica, Larderello con i suoi soffioni, io pendevo dalle sue labbra di vate e scoprivo e vivevo attraverso le sue parole mondi per me sconosciuti e meravigliosi. E dirò di più, quando già grandicello, in terza media, andai con in tasca la mia squadra di bottoni, un subbuteo ante litteram, a sfidare nei Borghi Moreno Grandoli, con arbitro il mio compagno di classe Ascanio Bernardeschi, mi sembrò di aver affrontato una trasferta di Coppa Campioni o giù di lì, tanto per ribadire la percezione di distanza dell’epoca.

Altri tempi che difficilmente i bimbi di oggi possono immaginarseli, ma sono stati i tempi miei ed ancor più quelli del Pupo; migliori o peggiori non lo so, so che il Pupo ce li racconta, evidenziandone ben altri aspetti e complessità rispetto a ciò cui ho accennato, in un libro sicuramente da leggere tutto di un fiato.

© Renato Bacci, RENATO BACCI
Io, Il Pupo, in “profilo Facebook di Renato Bacci”, a. 2015, 27 Ottobre