Il mattino del 18 giugno 1472 le truppe fiorentine al comando di Federico da Montefeltro, duca d’Urbino, il grifagno condottiero immortalato in un celebre ritratto da Piero della Francesca, fecero il loro ingresso in Volterra al termine di un lungo assedio.

Era l’atto conclusivo della guerra che aveva visto di fronte Volterra e la Firenze di Lorenzo il Magnifico per il possesso delle ricche miniere di allume (minerale allora abbondantemente impiegato nella lavorazione della lana) che quest’ultimo voleva sottrarre ai Volterrani.

Contrariamente ai patti stipulati al momento della resa, i soldati fiorentini per ben due giorni misero a sacco la città. Due giorni di violenze, ruberia, uccisioni che segnarono la fine dell’indipendenza dell’antica città. Il crudele sacco di Volterra ebbe un’enorme risonanza in tutta Italia. Si dice addirittura che, essendo stato perpetrato contro la parola data, fu uno dei tre peccati per i quali fra Domenico Savonarola negò l’assoluzione al Magnifico in punto di morte.


UNA FORTEZZA QUALE SIMBOLO DI DOMINIO

Ma le vessazioni da parte dei conquistatori non finirono lì. Poco tempo dopo infatti, per ordine dello stesso Lorenzo, i fiorentini cominciarono la demolizione dell’intera contrada di Castello, il cuore nobile della città. Sotto il piccone degli invasori caddero il castello in cui risiedeva da secoli il vescovo di Volterra, le case dei notabili cittadini, gli studi di notai e giureconsulti, i bordelli più lussuosi. Al posto di quel bel quartiere nato sulla vecchia acropoli della città etrusca sarebbe sorta una imponente fortezza, allo stesso tempo simbolo della potenza fiorentina e monito agli irrequieti Volterrani perché non tentassero di ribellarsi al nuovo ordine a loro imposto con la forza e la violenza delle armi.

Sotto la direzione dell’architetto militare Francesco di Giovanni di Francesco, detto più brevemente “Il Francione”, nel breve volgere di tre anni (dal 1472 al 1475) fu costruita la cosiddetta Rocca Nuova: un grande quadrato con agli angoli dei torrioni circolari e nel cui centro si innalza la possente torre del Maschio, che dà il nome a tutto l’edificio. Si provvide poi ad unire con due lunghi ballatoi fortificati la nuova costruzione con la Rocca Vecchia, l’altra grande fortificazione che si trova a ridosso della porta a Selci fatta edificare centotrenta anni prima da Gualtieri di Brienne detto il Duca d’Atene. Sorse così quella colossale piazzaforte che da allora domina la città e che dette all’intera zona un assetto rimasto immutato sino ai giorni nostri.

Era evidente che la grande fortezza era stata costruita per scopi militari, ma, a dire il vero, in questo campo ebbe modo di essere utilizzata una sola volta.

Accadde nell’aprile del 1530 quando la guarnigione fiorentina che là era di stanza dette man forte a Francesco Ferrucci, altro bel tipo di predatore, a riconquistare Volterra che si era ribellata l’anno prima alla signoria di Firenze. Nel resto degli anni della sua plurisecolare esistenza, la piazzaforte servì soprattutto come caserma alle truppe granducali, le quali tenevano in custodia nelle terribili segrete della torre del Maschio alcuni prigionieri “eccellenti”, non più però di una diecina per volta. Fino a che, con una legge granducale del giugno 1816, essa fu trasformata ufficialmente in penitenziario, ruolo che continua a svolgere a tutt’oggi.


AI PAZZI SPETTÓ L’INAUGURAZIONE

Molti dunque sono i personaggi che, loro malgrado, hanno soggiornato nel castello. A cominciare dai superstiti della celeberrima congiura ordita dalla famiglia dei Pazzi contro Lorenzo il Magnifico, alla quale partecipò sia detto per inciso, anche un volterrano, Antonio Maffei uno studioso che aderì al complotto per vendicare il sacco perpetrato sei anni prima dalle truppe medicee ai danni della sua città. I congiurati ebbero così il discutibile onore di inaugurare la fortezza, la cui costruzione era terminata da pochi mesi. Solo due Niccolò e Galeotto (vedete un po’ voi la potenza del nome!) riuscirono ad uscire vivi dalla detenzione durata sedici anni.

I Medici comunque mantennero negli anni l’abitudine di spedire a Volterra i loro nemici più ostinati. Tornati in Firenze dopo la fine della Repubblica, fecero incarcerare nella fortezza alcuni dei repubblicani più ferventi come Raffaello Girolami, Pietro Tolosani e Vincenzo Martelli. Il Girolami fu avvelenato in cella dopo due anni, dietro suggerimento di papa Clemente VII, che, per l’appunto era un Medici. Tolosani, che del papa e della sua famiglia usava spesso parlar male, fini i suoi giorni in una segreta della torre. Miglior sorte toccò al Martelli, che era un poeta anche lui spesso critico nei confronti della potente famiglia. Dopo un paio d’anni di carcere fu graziato e si guardò bene per il resto della sua vita dallo scriver male dei padroni.

Molti altri comunque furono meno fortunati di Vincenzo Martelli o di altri detenuti, che, grazie a raccomandazioni di vario tipo, ebbero più leggero ed accettabile il periodo della loro reclusione nella fortezza. Fu questo ad esempio il caso del giovane Antonio Altoviti che nel 1575 aveva partecipato ad una congiura contro il granduca Francesco I organizzata da Orazio Pucci. Altoviti fu condannato a morte, ma la pena gli fu poi commutata, per sua sfortuna, nell’ergastolo. Il castellano di Volterra ebbe l’ordine di trattare il prigioniero con la massima durezza ed infatti questo fu rinchiuso nel fondo della torre senza alcun contatto col mondo esterno. Dopo tre anni era ridotto ad una larva umana, completamente cieco. Mori nel buio della sua cella, divorato dalla cancrena.

Un altro dei partecipanti alla congiura di Orazio Pucci finì i suoi giorni a Volterra. Tuttavia Camillo Busini, questo era il suo nome, si dimostrò molto più resistente dell’Altoviti, tanto che la sua prigionia durò ben 41 anni. Poteva uscire dalla sua cella solo per ricevere la comunione nella chiesa del castello. Faceva la confessione attraverso la grata del cubicolo dove era rinchiuso, poi veniva scortato dagli armigeri in chiesa, per poi ritornare subito nel buio della sua prigione. Quando morì aveva 77 anni e pensarono bene di seppellirlo in tutta segretezza, di notte.

Una sola donna in cinque secoli

L’unica donna ad essere stata rinchiusa nel Maschio di Volterra fu Caterina Picchena. Vi entrò nel 1648 per ordine stesso del granduca, senza che contro di lei fosse celebrato neppure un processo e vi mori dieci anni più tardi. La sua storia merita di essere brevemente raccontata. Era figlia del senatore Curzio Picchena, ambasciatore granducale in Francia e Spagna e primo segretario di stato, che fu anche amico personale di Galileo Galilei. Caterina sposò giovanissima il nobile fiorentino Lorenzo Buondelmonti ed alla morte di questi nel 1640 iniziarono i suoi guai. La famiglia del marito, probabilmente per il fatto che c’era di mezzo una cospicua eredità, la accusarono di tutta una serie di nefandezze, avvalorate anche dai commenti che fecero su questa vicenda gli storici del tempo. Si dice che Caterina usasse ricevere i suoi amanti nella sua stessa casa con un piccolo stratagemma. Mangiava aglio e cipolla in modo che il fiato le puzzasse, cosa questa che non andava a genio al marito, che le intimava di dormire in un altra stanza dove ella poteva tranquillamente appartarsi con chi, evidentemente, non faceva troppo caso al suo fiato maleodorante. In sé tutto questo non pare un reato cosi grave da meritare una punizione che fu invece estremamente dura. Ma i Buondelmonti erano una famiglia assai potente ed ascoltata a corte ed ebbero alla fine buon gioco nell’eliminare la scomoda Caterina.


PRIGIONIE RECORD

Nonostante la sua durezza, ci fu chi riuscì a sopravvivere per moltissimi anni nel carcere volterrano. Di Camillo Susini abbiamo già detto, ma il record assoluto appartiene al nobile pistoiese Alfonso Sozzifanti che rimase prigioniero nella fortezza dal dicembre 1657 all’aprile 1713, quando morì novantunenne dopo una detenzione durata la bellezza di 56 anni. Aveva assassinato per una questione di interessi suo cognato. Condannato all’ergastolo fu cacciato nel fondo della torre del Maschio, in una segreta che nei rapporti nel castellano viene chiamata “marcitoio”. Il buio era rotto da un filo di luce proveniente da una feritoia, c’era una umidità terribile e nel mezzo si apriva un pozzo intorno alla cui bocca i prigionieri giravano cauti per non cadervi dentro, fino a lasciare impresse le loro orme sulla pietra. Insomma quanto di peggio si possa immaginare. Ed il vitto era all’altezza dell’alloggio.


IL BANDITO PENTITO

Per ben 43 anni restò nella fortezza anche il conte Giuseppe Maria Felicini, un nobile bolognese che si dette al banditismo e che imperversò per molti anni nello Stato Pontificio rubando, saccheggiando, uccidendo e stuprando, finché cadde nelle mani della polizia granducale dopo uno scontro a fuoco nei pressi di Fivizzano. Fu subito rinchiuso, senza essere neanche processato, nel “marcitoio” del Maschio. Di lui e cronache del tempo parlano come “malvivente e facinoroso, anzi bestiale”. Insomma un tipino da prendere con le molle. La durezza del carcere comunque lo ammorbidì. Si dichiarò infatti pentito dei suoi misfatti, dimostrò gran simpatia per i padri Cappuccini ai quali spesso chiedeva conforto religioso e fece abbondanti donazioni in denaro. Anche le condizioni della sua detenzione migliorarono. Gli assegnarono la una cella più confortevole ed un vitto migliore. Il conte Felicini continuò così la sua esistenza tra preghiere ed opere di bene, fece erigere, tra l’altro, un altare in onore di Santa Barbara nella chiesa dei Cappuccini ed un altro nella cappella delle Grazie della chiesa di Sant’Agostino. Ma ad onta dell’età ormai avanzata e del suo, più o meno sincero, fervore religioso, non dimenticò la sua passione per le donne. Aveva già passato i settant’anni quando gli riuscì di intrecciare una relazione con la giovane e bella figlia del cantiniere del carcere. Ma la tresca fu scoperta dalla moglie del castellano che trovò la corrispondenza tra i due, la quale avveniva tramite biglietti infilati nella rivestitura in paglia dei fiaschi. La ragazza fu spedita in convento e l’anziano conte fu messo sotto stretta sorveglianza. Quando morì nel novembre del 1715, la salma rivestita con l’abito da frate, fu tumulata nella piccola chiesa dei Cappuccini dove tutt’ora sta.


L’AMARO CASO DEI FRATELLI LORENZINI

Non tutti coloro che ebbero la sventura di essere ospiti del Maschio erano dei delinquenti efferati come il conte Felicini. Alcuni erano addirittura degli innocenti come ad esempio i fratelli Lorenzo e Stefano Lorenzini. Erano due giovani cortigiani del granduca Cosimo III, originari di una nobile famiglia della Valdinievole, matematico il primo, medico il secondo universalmente molto stimati in Firenze. Furono fatti arrestare dal granduca nell’aprile del 1681 sotto l’accusa, mai provata, di aver rivelato dei non meglio precisati segreti di corte. I due fratelli protestarono la loro innocenza, ma furono gettati entrambi nel fondo della torre del Maschio in celle separate perché non potessero comunicare tra loro. Il trattamento loro riservato fu durissimo, tanto che si ammalarono gravemente. Dopo ben tredici anni di isolamento il granduca permise loro di uscire qualche ora nel cortile, ma sempre separati e scortati. Finalmente nel 1693 Cosimo III concesse loro di lasciare il carcere per andare in esilio. Lorenzo, ormai completamente cieco, era riuscito durante la sua terribile prigionia, isolato dal mondo esterno, a scrivere un trattato di geometria di ben quattro volumi!


IL “LAMENTO” DEL PATRIOTA

Nel 1816, come abbiamo detto, la fortezza divenne, a tutti gli effetti, un penitenziario. Se ne andarono i soldati ed in compenso i prigionieri aumentarono. Vennero gli anni del Risorgimento e numerosi furono i patrioti toscani ad esservi spediti. Tra questi vi fu nel 1849 anche Francesco Domenico Guerrazzi, Livornese, mediocre politico ed ancor più scadente scrittore, che tuttavia riuscì a ritagliarsi qualche riga nella storia patria. Democratico e repubblicano, ma soprattutto di idee piuttosto confuse, nel 1848, una volta che il granduca Leopoldo fu scappato, si trovò a far parte del triumvirato che reggeva le sorti dello stato toscano assieme a Mazzoni e Montanelli. Emerse come l’uomo forte dei tre, rifiutò la proposta di Mazzini di unire la Repubblica Toscana con quella Romana e chiamò a Firenze delle bande di Livornesi facinorosi, che finirono col disgustare anche gli altri patrioti. Tornato il granduca, si prese quindici anni di prigione e fu mandato a Volterra. Fu sistemato nell’ultimo piano della torre del Maschio ed il trattamento che gli riservano non fu certo dei peggiori. Ma il buon Guerrazzi, già che c’era, giocò a fare il martire, lamentandosi un po’ di tutto. E intanto si mise a scrivere due romanzi, “Beatrice Cenci” e “La figlia del senatore Curzio”, in cui narrava la tragica vicenda di Caterina Picchena che l’aveva preceduto proprio tra quelle mura, che fortunatamente non hanno lasciato traccia nella nostra storia della letteratura. E siccome il granduca Leopoldo non era poi quella gran carogna che Guerrazzi voleva far credere, dopo neppure un anno lo mandò in esilio in Corsica. Di lì fuggì nel 1853, ributtandosi in politica, ma senza troppa fortuna.

L’ANARCHICO INNOCENTE

Un caso famoso fu quello di un altro detenuto nel Maschio, l’anarchico Cesare Batacchi di Firenze. La sua fu una storia di ingiustizia che fece veramente epoca. Il pomeriggio del 18 novembre 1878 in via Guelfa a Firenze sfilava un corteo in segno di solidarietà con re Umberto che il giorno precedente era uscito illeso dall’attentato compiuto contro la sua persona a Napoli dall’anarchico Passanante. Sul corteo fu lanciata una bomba che fece quattro morti ed una decina di feriti. Furono subito arrestati molti anarchici. Batacchi fu indicato come il colpevole materiale, processato e condannato all’ergastolo, grazie ad alcune false testimonianze. Fu quindi inviato al Maschio di Volterra. I dubbi sulla sua colpevolezza erano subito emersi. Vennero costituiti comitati in suo favore, vennero raccolte migliaia di firme a sostegno di petizioni dirette al ministro della Giustizia. Soltanto dopo ventun anni, i suoi accusatori confessarono di aver testimoniato il falso dietro compenso in denaro. Ma il processo non fu riaperto. Fu il re a concedergli la grazia e Batacchi poté uscire dal carcere il 18 marzo 1900, portato in tutta fretta e senza dare nell’occhio a Firenze su una carrozza in modo da evitare manifestazioni popolari in suo onore. Ma poco dopo lo raggiunse una ordinanza con la quale lo si sottoponeva per tre anni a sorveglianza speciale!

© Pro Volterra, ALBERTO GIUSTARINI
La storia del Maschio di Volterra, in “Volterra”
Battistini Mario, “Nel Maschio di Volterra”, Pescia 1925
Ferrini Paolo, “Volterra di Strada in Strada”, Volterra 1963