Passata la bufera della peste la Compagnia prese a riorganizzarsi, ricercando soprattutto contributi finanziari a sostegno della sua attività visto che, per carenza di denari, era stata costretta nel 1630 a vendere anche un locale, posto in Firenzuola, dove erano tenute le assemblee dei confratelli. La ripresa fu abbastanza rapida, come testimonia il rapporto sulle condizioni della Compagnia steso in occasione della visita pastorale di Mons. Sfrondati nel 1667, documento utile a fare il punto sullo stato e l’organizzazione interna della Confraternita poco dopo la metà del XVII secolo.
> Sommario, La Compagnia della Misericordia di Volterra
Si legge testualmente:
“Questa Compagnia della Misericordia, detta anche di S. Giovanni Decollato, ha un oratorio sotto lo stesso titolo e nel 2 Novembre 1608, venne aggregata a quella omonima esistente in Roma. Gli esercizi spirituali che le incombono sono associar gratis i cadaveri de’ poveri della città ed elargire copiose elemosine in pane e in danaro agli indigenti. Somministra infatti quotidianamente un pane a ciascuno dei detenuti nelle pubbliche carceri: nella notte del Sabato Santo distribuisce egualmente in pane, portandolo alle case, oltre 30 stala di grano, e per 12 staio nella solennità del SS. Sacramento. A firma del delegato dell’Arciprete Paolo Riccobaldi Del Bava nel giorno della Purificazione distribuisce pane per 6 staio di grano, che deve essere somministrato dal maggiorenne della famiglia, sotto grave pena non soddisfacendovi. Unica possessione della Compagnia è un piccolo campo pervenutole per pio legato e le cui tenui rendite, come tutte le altre che le provengono dalla pietà de’ fedeli, sono erogate nelle riferite elemosine: ed ogni rimanente vien custodito in una cassa che conservasi nel monastero di S. Lino, con una chiave presso l’Abbadessa ed altra presso il Camarlingo. Non ci sono obblighi sacri da soddisfare, ma per devozione vi si celebra la festa del Santo titolare e nel dì seguente un uffizio di requiem, al quale intervengono i Cappellani della Cattedrale, e ne’ sabati e nelle feste si recitano le litanie della Vergine. Nel Venerdì Santo si suoi dare al Predicatore che ha narrata la passione del Redentore un volontario munuscolo di lire sette. La Confraternita ha fratelli e sorelle: un priore, un sottopriore, due camarlinghi, quattro distributori d’elemosine per le quali fanno mandato al camarlingo fino alla somma di lire cinque, al di là della quale occorre la licenza del priore, quattro difensori dei carcerati, due procuratori, uno pe’ poveri carcerati in Volterra, l’altro per quelli che fossero mandati nelle carceri di Firenze; ha infine quattro sacrestani e dodici questori di elemosine per la città e pe’ suburbi e di queste vien tenuto esatto registro. L’elezione degli uffizioli si fa ogni sei mesi e per mezzo del capitolo della società. Vestono cappe nere con cappuccio e pazienza cerulei e nelle processioni sono preceduti dal Crocifisso che sta sull’altare della Compagnia”.
In occasione della visita pastorale fu sottoposto all’esame di Mons. Sfrondati il lettuccio/bara che serviva alla Compagnia per il trasporto dei defunti al cimitero e, apparsa evidente la necessità di apportarvi qualche restauro, vi si provvide per gentile interessamento dell’alto prelato. Sempre nella circostanza, dopo la visita ai magazzini del grano, fu anche verificata la consistenza dei fondi giacenti nella cassa tenuta nel monastero di San Lino, venne accertata l’esistenza della non indifferente somma di lire 1139, tra monete d’oro e d’argento. A proposito del piccolo possedimento terriero della Compagnia, citato nel rapporto della visita pastorale, vale la pena di annotare che fu dato in affitto con delibera del 12 maggio 1672 e, con tutta probabilità, venne in seguito venduto, infatti non se ne trova, a partire da questa data, più alcuna menzione. Da quanto risulta dall’atto di delibera, tale possedimento doveva consistere di alcune terre in località Saggio e la decisione di disfarsene fu certo da attribuire alla necessità di realizzare moneta contante per far fronte a impellenti spese per opere carità.
Nessuna notizia interessante emerge dai registri della Compagnia fino al 1763, anno in cui un’apposita commissione, presieduta dal Priore Giovanni Inghirami, capo del sodalizio, e composta dal Cav. Pietro Guarnacci, arcidiacono, oltre che dai sigg. Lorenzo Cecchi, Giuseppe Lecchini, Giusto dott. Cai, Casimiro Amidei e Luigi Lorenzi, provvide a redigere lo statuto della benemerita istituzione, probabilmente su richiesta delle autorità.
Di questo statuto, che sostanzialmente confermava norme e ordinamenti che avevano regolato fino a quel tempo l’operato della Confraternita, merita riportare il capitolo XVIII dal titolo “Della maniera di accompagnare al patibolo i condannati”, che tratta di un compito particolarmente ingrato, svolto dai confratelli, che può offrire al lettore un interessante esempio di bella prosa settecentesca.
Ecco dunque la fedele e drammatica descrizione di un avvenimento, non troppo insolito, che si svolgeva secondo un rituale preciso cui oggi, fortunatamente, non è dato più modo di assistere:
“Quando avverrà, che Dio ne liberi, che abbia a seguir giustizia nella nostra città, e che il nostro priore sia stato di ciò segretamente inteso dai signori ministri di corte, tre giorni avanti all’esecuzione della sentenza farà questuare per la città da due sagrestani per il giustiziando, e farà nel giorno, in cui dovrà essere notificata la sentenza al reo, intimare da uno degli aiutanti de’ sagrestani tutti i confortatori che saranno restati approvati da mons.ill.mo e rev.mo e li farà vestire nel nostro oratorio dell’abito della confraternita, e nell’ora che sarà determinata che esca dalle carceri il paziente per esser posto nella cappella del palazzo pubblico, ordinerà che in essa tutti seco si portino ed ivi facciano quanto nel capo superiore sì è accennato. Quei confortatori che non saranno impegnati in assistere ai bisogni e al sollievo spirituale e temporale del paziente, si trattengano nella cappella suddetta a recitare i salmi penitenziali e l’uffizio della beata Vergine ed altre devote preghiere, che non servano dì disturbo al paziente, specialmente allorquando egli si dispone a fare o fa realmente la sua confessione. In tal funesta decorrenza deve il provveditore de’ carcerati prendersi la cura di provvedere ad ogni temperai bisogno che possa avere il paziente medesimo tenendo pronti que’ confortativi e ristori che possono esser necessari in queste terrìbili congiunture. Procurerà inoltre il priore che all’ora determinata dall’ill.mo sig. commissario e suoi sigg. ministri, i nostri confratelli vadano al palazzo di giustizia vestiti dell’abito col cappellone, e fuori della porta di quello attendano che venga fuori il paziente. Appena che esso metterà fuori il piede della porta suddetta, il nostro cappellano vestito di cotta e di stola farà a lui baciare il crocifisso, e dopo passando per mezzo de’ fratelli, che gli faranno largo dirigendosi in due fila con buon ordine e procedendo essi, il primo di tutti anderà verso il nostro oratorio: i fratelli lo seguiranno coppia a coppia ed i confratelli terranno l’ultimo luogo in detta processione, eccettuati quelli che, come i più esperti e di maggiore spirito, sarà reputato necessario che stiano intorno al paziente, per vie più indurlo ad accettare nella rassegnazione e contrizione la morte. Giunto il paziente nel nostro oratorio ascolti la santa messa, e qualora abbia bisogno di riconciliarsi gliene sia data la opportunità, fatta che avrà il sacerdote l’elevazione dell’ostia consacrata, si schieri di nuovo la processione nell’ordine che sopra, con condizione che i quattro de nostri confratelli aiutanti de’ sagrestani portino dietro al paziente la sedia per rinfranco del medesimo, qualora gli piaccia farne uso. uopo tal sedia ne venga la bara portata da quattro nostri confratelli. Da due sacerdoti confratelli si recitino con voce lugubre le litanie de santi nella maniera che si sogliono dire per un agonizzante. Il priore o chi ad esso piacerà porti seco una scure o altro tagliente strumento per poter recidere la fune da cui starà appeso il giustiziato. Quando il paziente sarà presso il patibolo, venga baciato e prima che sia tratto sopra il medesimo sia riconciliato e asperso dell’acqua santa dal nostro cappellano e assistito colla più efficace premura da due confortatori. Appena il carnefice avrà eseguita la sentenza, il di lui cadavere sia immediatamente in nostro potere, e perciò il priore o altro fratello come sopra, lo levi dal patibolo tagliando la fune, e venga posto entro la bara, (qualora per motivo di maggiore infamia non debba questo esser sepolto sotto il patibolo) ed in quella coperto col panno nero venga associato al nostro oratorio, acciò ivi gli si facciano le esequie e gli diano poi sepoltura”.
Ogni commento a tanta barbaria consumata secondo il rito dell’epoca è assolutamente superfluo. Raccapriccianti sono l’atmosfera e il significato di una pubblica esecuzione, alla quale pare partecipare anche chi consola, chi da un ultimo sorso d’acqua al condannato, poiché si tratta di un’assistenza interna al cerimoniale di morte e pare naturalizzare come accettabile e legittimo il pubblico uccidere. Con i loro cappucci i misericordiosi sembrano condividere l’apologia del supplizio e quasi contribuirvi. E’ invece da considerare, e apprezzare, come la Misericordia conferisse un ultimo barlume di dignità al derelitto di turno, che aveva tutti contro, dal boia al pubblico vociente, assiepato per assistere all’esecuzione.
Ma torniamo alla storia della Confraternita per annotare che essa ottenne dalle autorità, in data 17 gennaio 1782, la donazione della vecchia campana di S. Giusto che, posta sulla torre del Duomo, servì da quel momento per convocare i confratelli. La piccola campanella precedentemente in uso, ormai inadeguata, fu posta a riposo. Sempre in quegli anni Monsignor Buonamici, accogliendo una petizione della Confraternita, concedeva il diritto a nuove sepolture nel cimitero urbano, allora nei pressi di S. Giovanni, dietro pagamento di mezza libbra di cera per la tumulazione di un confratello e di una libbra per quella di un estraneo. Nel 1785 la Compagnia, in conseguenza delle leggi leopoldine, al pari di altri sodalizi con le medesime caratteristiche e finalità, fu disciolta tra lo sgomento della popolazione; la sospensione delle sue tradizionali attività afflisse Volterra per circa un lustro. Già nell’aprile del 1790 si cominciò, da più parti, a far pressione sulle autorità affinché un’istituzione tanto benemerita potesse tornare in vita. Il 17 di quello stesso mese venne presentata ai Gonfalonieri e ai Priori una richiesta scritta dai parroci di città e di campagna, ove si sollecitava la ricostituzione della Compagnia della Misericordia, poiché le locali congreghe di carità non riuscivano assolutamente a provvedere al trasporto dei malati all’ospedale e sempre minore era il numero di coloro che si prestavano alla sepoltura dei morti. La richiesta fu appoggiata dal parere ampiamente favorevole di tutti i medici condotti e I’8 maggio dello stesso anno il signor Francesco Naldini riceveva dai Priori l’incarico di farsi portavoce della relativa supplica presso il governo. Contemporaneamente veniva dato agli ex – confratelli il permesso di riprendere le tradizionali attività e, un anno dopo, le stesse autorità cittadine stanziavano i fondi necessari all’acquisto di un cataletto per il trasporto dei malati all’ospedale.
Dal 1790 al 1791 si può dire che la Compagnia, pur ufficialmente non esistente, contribuì ugualmente al miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie della città. Alla fine, anche per l’interessamento di alcuni notabili Volterrani, come il cav. Niccolo Maffei, il primicerio Carlo Leonori, il dott. Giusto Cai e il sig. Giuseppe Buonamici, il permesso di formare il sodalizio fu concesso, con motu proprio granducale, il 13 agosto 1791 e, il 14 del mese successivo, la Segreteria del Regio Diritto ne approvava i capitoli sotto il titolo di Compagnia di S. Giovanni Decollato o della Misericordia di Volterra. Grande fu la soddisfazione dei cittadini e notevole la riconoscenza verso il governo, che in fin dei conti aveva avuto la bontà dì riconcedere ciò che prima aveva tolto, secondo gli usi di una ricorrente politica per la quale; “prima levare e poi dare serve a… lasciare tutto uguale”.
In base ai nuovi statuti la Compagnia ebbe un priore, un sottopriore, due consiglieri, un camarlingo, un campioniere, due sindaci, un segretario, un cappellano, due sagrestani e rispettivi aiutanti, quattro uomini di carità e otto assistenti alle deliberazioni, estratti a sorte ogni anno; il sodalizio comprendeva molti “ufficiali”, non aveva però un luogo dove riunirsi per le sacre cerimonie e dovette attendere qualche mese per ottenere dal Capitolo dei Canonici l’uso dell’oratorio di S.Antonio. Si trattò però di una sistemazione provvisoria dato che, grazie ai contributi di tutti i cittadini, fu deciso, nell’aprile del 1796, di fabbricare presso il Duomo il nuovo oratorio. Nel luglio dello stesso anno si dava il via ai lavori, sotto la direzione dell’ing. Giuseppe Franchini; dopo circa tredici mesi, tra la soddisfazione generale, l’oratorio fu finito e, grazie alla solidarietà della cittadinanza, furono pagate tutte le spese della costruzione. Il 28 agosto 1797, in pompa solenne, avvenne l’inaugurazione con una Messa celebrata dall’Arciprete Luigi Riccobaldi Del Bava e la sera dello stesso giorno vi fu cantata una sacra composizione, il Giobbe, scritta e appositamente stampata per l’occasione. L’anno successivo fu solennemente istituita nell’oratorio la compagnia dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento cui, nel 1799, si aggiunse la venerazione della Madonna di Arezzo, immagine allora molto nota poiché si trovava sui vessilli delle bande toscane che cacciarono dalla regione, con una guerra popolare, i Francesi occupanti.
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