La nuova Compagnia, già aggregata da quasi due secoli a quella della Morte e dell’Orazione esistente a Roma, fu insignita nel 1800 del titolo di Arciconfraternita e, ispirandosi agli ordinamenti della simile istituzione fiorentina, elesse, per la prima volta nel marzo 1802, dodici capi guardia a comando delle brigate e di lì a poco ne aumentò il numero a trentasei. Di questi, oltre a dodici sacerdoti, facevano parte anche due capi guardia onorari, il Vescovo della città e il Granduca di Toscana che, accettando l’onore tributategli, si impegnava a considerare sotto la sua protezione la Compagnia.

> Sommario, La Compagnia della Misericordia di Volterra

Nel 1804, dopo l’aggregazione all’omonimo sodalizio fiorentino, l’Arciconfraternita ottenne, per interessamento del priore Leonori, che la campana della torre del Palazzo dei Priori, ormai in disuso, fosse collocata, a spese della Compagnia, nel campanile della Cattedrale per convocare i confratelli alle opere di carità e alle funzioni religiose. A pochi anni di distanza infine, e precisamente al 1807, risale l’abbellimento della facciata dell’oratorio con inserimento della terrazza e del pietrame alla porta e alle finestre, su disegno dell’ing. Luigi Campani.

Il colera che afflisse Volterra nell’agosto 1855, provocando sessantacinque morti, trovò una Compagnia della Misericordia ben organizzata e in grado di far fronte ai bisogni della cittadinanza; i fratelli seppero provvedere ordinatamente alle necessarie tumulazioni e al trasporto dei malati al lazzaretto. Un’ampia documentazione ancora esistente ci ricorda come nella circostanza furono adottate, ed era la prima volta, tutte le precauzioni possibili per tutelare la salute di chi si prestava al pericoloso ufficio. Tali precauzioni costituirono nel 1874 parte integrante dello Statuto dell’Arciconfraternita; all’articolo 85 venivano canonizzate le regole per raccogliere un ammalato grave “sì prende il coltrino, al quale è attaccato un nastro, e arrotolato che sia, si colloca sotto il capo dell’infelice; quindi si prendono le fasce e ad una ad una, per mezzo della stecca, si introducono delicatamente sotto l’ammalato e precisamente una sotto le spalle, che corrisponde alle broccia, la seconda ai lombi, l’altra a mezzo le cosce e la quarta sotto le gambe, si solleva prima la fascia delle spalle per introdurre il coltrino, e poi le altre finché il coltrino non sia al suo posto. Col coltrino ad un cenno del Capo guardia, si alza l’infermo e si porta nel cataletto, lasciando le fasce ove si trovano per ripetere la stessa operazione nel collocare l’ammalato nel letto dello Ospedale” : perimenti per ” le mute di letto”, cioè per i cambi delle lenzuola agli affetti da malattie contagiose, ci si serviva di una specie dì argano (pegroleva), che permetteva di sollevare il malato e togliere rapidamente da sotto le lenzuola sporche. L’associazione degli ammalati all’Ospedale, le mute, il trasporto dei defunti al cimitero e l’assistenza notturna ai fratelli infermi erano tra gli uffici di carità tradizionalmente e scrupolosamente praticati dagli affiliati alla Compagnia.

Secondo le norme del sopra citato statuto, regole precise presiedevano allo svolgimento di tali opere di misericordia; se l’apposita campana, posta nel campanile della Cattedrale, suonava a distesa per tre minuti, e quindi riprendeva dopo dieci, convocava i fratelli per un ordinario ricovero di un malato all’Ospedale, se diffondeva due repliche e tre tocchi comunicava che si trattava di un caso urgente, se batteva l’Ave Maria a tre riprese significava che c’era bisogno di trasportare un defunto dalla casa alla chiesa e di lì al luogo di sepoltura.

Un capo guardia provvedeva alla formazione della brigata che doveva adempiere alle opere di carità, non prima che fosse passata mezzora dal rintocco della campana, a meno che non si trattasse di un caso urgente, nella quale circostanza, non appena si fosse riunito un sufficiente numero di fratelli, indicava dove occorreva dirigersi rapidamente. Se il capoguardia si accorgeva, durante il trasporto all’ospedale, di un aggravamento delle condizioni dell’infermo era suo dovere fermarsi e procurare al morente l’assistenza di un sacerdote. Se il malato decedeva per strada il servo della Compagnia veniva inviato a dare avviso dell’avvenuto decesso all’ospedale, affinché fossero presi gli opportuni provvedimenti per l’arrivo del morto. Il servo, sopra menzionato, era un dipendente, regolarmente stipendiato, che svolgeva diverse funzioni, era un po’ il «factotum» dell’Arciconfraternita; doveva essere reperibile in qualunque ora del giorno e della notte nelle stanze della Compagnia, eseguiva gli ordini dei diversi ufficiali, portava gli inviti per le adunanze, suonava la campana, distribuiva le cappe, col permesso del massaio, apriva e chiudeva l’Oratorio della Misericordia, curava la pulizia degli ambienti, dei quali vennero a far parte per successivi acquisti nel 1851 e 1876 le varie stanze dell’edificio sorgente nella piazza del Duomo, lateralmente alla chiesa della Misericordia, proprio in quei luoghi dove era esistito il piccolo Oratorio di S. Giovanni Decollato e in cui la Confraternita aveva avuto la sua prima sede. In questi locali i fratelli si riunivano per le adunanze e per formare le brigate che dovevano svolgere le varie opere di carità.

Regole severe ancora una volta stabilivano abbigliamento e portamento di chi partecipava all’esecuzione dei servizi: si doveva essere vestiti della cappa di tela nera, con buffa e cappello, non era concesso incapparsi a chi non portava scarpe e calze ed era desiderabile che i fratelli avessero calze nere, ghette o stivali, non era permesso alzare la buffa se non in strade remote e fuori dalle porte della città; atti sconci erano considerati il sedersi sulle stanghe del cataletto, in attesa della partenza della brigata, o il parlare durante un trasporto. Chi incorreva in queste mancanze rischiava di essere radiato dalla Compagnia.

Tra le encomiabili iniziative della Arciconfraternita c’era anche l’annuale distribuzione di doti a fanciulle povere. Qualunque fratello che avesse prestato servizio con particolare assiduità poteva presentare una ragazza aspirante alla dote. Questa doveva essere iscritta alla Misericordia, aver compiuto i diciotto anni e non superato i trentacinque, essere di buoni costumi attestati da certificato del Parroco. Nella sera dell’Epifania venivano sorteggiati i nomi delle fanciulle che avrebbero conseguito la dote, purché fossero convolate a nozze durante l’anno. I fondi per le doti provenivano da elargizioni dei notabili della città e annualmente si provvedeva a beneficiare con quanto raccolto sei o sette maritande.

Pensando agli oneri cui si sottoponevano i fratelli della Compagnia, qualcuno giustamente si domanderà quali fossero gli onori in contropartita. Si trattava, per la verità, di una ricompensa oggi non troppo apprezzata ma allora tenuta in gran conto.

Allorché veniva meno un capo guardia, un ufficiale, un fratello benemerito, cioè qualcuno che avesse accumulato meriti nelle tradizionali mansioni della Misericordia, la Compagnia provvedeva al trasporto della salma, prima alla chiesa e quindi al cimitero secondo un cerimoniale preciso, previsto dallo statuto dell’Arciconfraternita; ricevuta notizia della morte di uno degli affiliati sopra ricordati, fatta suonare l’Ave Maria per un quarto d’ora, il servo si portava all’abitazione del defunto e dopo averlo rivestito della cappa nera apprestava la camera ardente. Alle ventitré e trenta risuonava ancora l’Ave Maria e, a mezzanotte, una brigata dell’Arciconfraternita si recava alla casa del morto e provvedeva al trasferimento della salma alla Chiesa della Misericordia, in pompa magna con ceri e cantori. Qui si svolgeva una solenne cerimonia funebre e, sorto il giorno, all’ora stabilita da un apposito regolamento, si procedeva, sempre in maniera più o meno solenne, a seconda dell’importanza dell’estinto, al trasporto del cadavere al cimitero e alla tumulazione in una cappella o altro luogo scelto dal fratello prima della morte. Un bel funerale veniva così a essere la ricompensa per chi aveva trascorso la vita nell’aiutare il prossimo.

L’avvenuta Unità dell’Italia, nel 1861, e la successiva proclamazione di Roma capitale del regno avevano nel frattempo mutato il quadro di riferimento politico e legislativo, non più locale, per le associazioni di volontariato. Da qui la costituzione nel 1899 della Federazione delle Misericordie, sorta a Pistoia a seguito del primo Congresso nazionale, che vide l’adesione di 45 sodalizi, impegnati a tutelare il più possibile la tradizionale autonomia amministrativa e gestionale.

La Compagnia della Misericordia di Volterra, dopo aver ottenuto, nel 1884, la medaglia di bronzo all’esposizione di Torino, nel 1890, in ossequio alle disposizioni della legge Crispi, passò sotto il controllo prefettizio, perdendo così un po’ di quella caratteristica autogestione, ma conservando inalterato tra gli affiliati l’entusiasmo per i propri compiti e il desiderio di far sempre meglio.

> Prosegui, L’impegno assistenziale nelle due guerre mondiali

© Arciconfraternita della Misericordia di Volterra, RENATO BACCI – SUSANNA TRENTINI
In “La Compagnia della Misericordia di Volterra: Sette Secoli di Solidarietà” , pp. 4-21
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