Thomas Cole non era uno di quelli che si accontentano facilmente. Non lo è mai stato, sin da quando lasciò l’Inghilterra da ragazzo per approdare in America, portando con sé poco più dei suoi sogni e qualche colore per dipingere. Si sistemò con la sua famiglia prima a Filadelfia, poi in Ohio, e già allora c’era quella sensazione di voler afferrare qualcosa di più, qualcosa che sembrava sfuggirgli tra le dita.
Sarebbe facile pensare che Cole fosse una di quelle persone che sanno esattamente dove stanno andando. La verità è che, per gran parte del tempo, stava solo cercando di capire cosa significasse vedere il mondo attraverso i suoi occhi e per farlo imparò da un ritrattista di passaggio, poi studiò all’Accademia delle Belle Arti della Pennsylvania. Solo dopo comprese che aveva trovato qualcosa di autentico nel modo in cui la sua luce di china si rifletteva sulle foglie e nel modo in cui l’acqua di acquerello scorreva lenta tra le rocce.
Nel 1825, quando alcuni dei suoi quadri furono esposti a New York, fu come se finalmente qualcuno avesse capito il suo stile. Il colonnello John Trumbull e Asher B. Durand notarono il suo lavoro e improvvisamente, c’era la sensazione che qualcosa di buono potesse accadere. Quando Cole si trasferì a Catskill, sulle rive del fiume Hudson, il suo stile aveva raggiunto una qualità sopraffina; i suoi dipinti erano pieni di dettagli, di piccoli gesti e per capire di cosa sto parlando, basterebbe ammirare il “The Ox-Bow” del 1846, dove tutto sembra sospeso, come se il tempo potesse fermarsi per un attimo.
Fu uno dei fondatori della Hudson River School, un movimento artistico del XIX secolo che si è concentrato sulla rappresentazione della bellezza e della maestosità del paesaggio americano. Cole è stato un protagonista chiave del Romanticismo, un movimento artistico e culturale che ha posto l’accento sull’individualismo, sull’emozione e sul sublime, ovvero l’esperienza di qualcosa di grandioso e ispiratore. Il Romanticismo in arte è caratterizzato dall’enfasi su temi come la natura selvaggia, l’immaginazione, la nostalgia per un passato più semplice e la ricerca del divino attraverso la natura. Thomas Cole abbracciò pienamente questi ideali, creando opere che non solo rappresentavano paesaggi, ma che spesso suggerivano una narrazione morale, riflettendo sulle relazioni tra l’umanità e il mondo naturale.
Tra il 1829 e il 1832, e poi di nuovo tra il 1841 e il 1842, Thomas Cole intraprese il suo viaggio in Italia. Come accade in tutte le grandi storie d’amore, c’è stato qualcosa di inevitabile che lo ha legato al nostro Paese. E fu così che, durante il suo tragitto verso Firenze, giunto a Volterra, ne rimase affascinato. Si fermò qui per un periodo che non riesco a quantificare, ma è stato quanto basta per lasciarci in eredità i suoi taccuini, ricchi di schizzi1 e annotazioni2.
Quei taccuini sono preziosi, lì dentro Cole ha catturato la magia della città: le piazze inondate dalla luce del mattino, le strade strette e tortuose, le ombre che si allungano come ad abbracciare chi vi passa. In un’epoca in cui il dagherrotipo era ancora lontano dal rivoluzionare la cattura delle immagini, l’unico modo per imprigionare l’istante era attraverso il disegno o la scrittura. Con il suo talento da disegnatore e narratore, Cole è riuscito a fissare l’essenza di Volterra in pochi, magistrali tratti.
Il contributo di Thomas Cole ci consente di immergerci nella Volterra del XIX secolo, riscoprendo ogni sua sfumatura e bellezza. I suoi schizzi, essenziali e privi di eccessi, rivelano l’immagine di una città austera e sospesa nel tempo, un luogo che ancora oggi custodisce quel fascino antico e remoto.
Sappiamo che Cole visitò Volterra a partire dal 25 agosto 1831, grazie alle pagine del suo diario in cui annotò dettagliatamente la sua esperienza. Questi appunti, ricchi di impressioni e riflessioni sul nostro territorio, ci permettono di confrontare ciò che era allora con ciò che è oggi. Inizialmente avrei voluto sintetizzare il suo racconto, ma la poesia delle sue parole merita di essere riportata quanto più fedelmente, poiché solo così può trasmettere la profondità del suo spirito romantico e decadente.
Le dieci pagine del diario di Cole ci offrono una panoramica del suo viaggio e dei luoghi che visitò – come le Balze, ancora quasi intatte nella loro maestosità – e la Fortezza Medicea, che conserva un fascino più autentico e austero. Di particolare rilievo è la sua descrizione della Piazza dei Priori, che ci restituisce l’immagine dell’antico Palazzo dei Priori e della Torre del Porcellino, un tempo adornati da pilastri. C’è poi la sua delicata attenzione verso le lavandaie, che con i loro movimenti dalle fonti della città restituivano vita e quotidianità al paesaggio. Ho voluto includere anche alcune sue annotazioni sui viaggi da e verso Volterra, con descrizioni simpatiche di località come Colle Val d’Elsa e Poggibonsi, che ci permettono di guardare con occhi nuovi quei luoghi che oggi ci sono così familiari.
Volterra – 24 agosto 1831
Temo che i giorni del sentimento romantico stiano svanendo, e che il mio costante dialogo con il mondo stia pian piano spegnendo quella fiamma. Parlo della bellezza dei paesaggi naturali, che hanno accompagnato la mia giovinezza, alimentando in me un’incessante fonte di delizia. Sento che questa apatia, cresciuta lentamente dentro di me, è frutto della precoce interazione con il mondo: un mondo che sembra ostile al sentimento romantico e che, inevitabilmente, lo indebolisce. È difficile descrivere quanto il contatto con la realtà possa essere dannoso per la mente. Sono ormai in Italia da tre mesi, eppure quanto poco ho sentito di questo Paese, quando le sue meraviglie dovrebbero avvolgermi e trasportarmi! Sono afflitto, ma coltivo la speranza di riuscire a sentire di nuovo quel qualcosa – la nube che oggi mi offusca, sicuramente passerà.
Sto scrivendo queste righe da un’osteria a Poggi-Bonzi, un piccolo villaggio a circa 23 miglia da Firenze. È sera, dopo cena, e mi trovo in una stanza con un letto che sembra richiedere una scala per raggiungerlo (forse tenterò la salita). Oggi, all’una del pomeriggio, sono partito da Firenze diretto a Volterra, in compagnia del signor Henry Greenough e del signor Granch. Viaggiamo in Pettura, e il paesaggio attraversato oggi ha offerto poco di notevole interesse.
25 agosto
La scorsa notte ho dormito, o meglio, ho cercato di dormire per circa due ore, ma le zanzare me lo hanno impedito. Ci siamo messi in viaggio alle cinque di questa mattina, e all’alba ci è apparso un villaggio chiamato Colle, posato magnificamente sulla cima di una collina, emergendo tra rigogliosi boschetti di alberi. In effetti, il paesaggio di questa parte del tragitto è estremamente pittoresco: riccamente alberato, con molti angoli lungo la strada che avrebbero offerto soggetti di studio straordinari – luoghi di un’indomita bellezza. Avvicinandoci a Volterra, il volto della campagna mutava: dai terreni più fertili ai paesaggi più brulli che io abbia mai visto. Le colline apparivano sinuose e spoglie, prive di vegetazione – offrendo poco di interessante agli occhi di un pittore. Dopo aver affrontato una lunga e ripida salita, siamo finalmente giunti a Volterra, che non si presenta in modo particolarmente maestoso dal lato da cui siamo arrivati. Tuttavia, le mura e le fortificazioni vicine alla porta sono di una bellezza architettonica straordinaria. Dopo aver pranzato, ci siamo avventurati fuori, alla ricerca di ciò che di pittoresco questa città avesse da offrire.
Non riesco a impormi la fatica di tenere un diario regolare, ma so per esperienza che l’intensità delle emozioni, così come il ricordo di scene e circostanze, svanirà con il tempo. Non posso permettere che le immagini affascinanti di Volterra passino senza lasciare una traccia, da conservare per un futuro godimento. Volterra, più antica persino di Roma, fu una delle colonie degli Etruschi, e qui sono state rinvenute le tombe di diversi loro re, insieme a numerosi e raffinati vasi chiamati “Chruscena”. Questi reperti, scoperti di tanto in tanto, sono la prova tangibile del genio e dell’eleganza di quel popolo.
Nell’epoca dell’antica Roma, Volterra era una città di grande rilievo, e si dice che un tempo la sua popolazione raggiungesse i 40.000 abitanti, anche se temo che questa cifra possa essere un’esagerazione. Tuttavia, i resti che ancora oggi si possono ammirare dimostrano che la popolazione doveva essere di gran lunga superiore a quella attuale, ormai ridotta a poche migliaia. Un tempo, Volterra era una vera e propria roccaforte, e le sue strade furono spesso intrise di sangue. La sua capitolazione di fronte a uno dei Medici avvenne sotto condizioni apparentemente onorevoli, ma appena l’invasore fece il suo ingresso in città, ebbe inizio un orribile massacro di uomini, donne e bambini.
Volterra è circondata da una magnifica cinta muraria, e si possono ancora osservare frammenti di molte altre mura, appartenenti a diverse epoche e stili architettonici. Le sue strade sono strette e costeggiate da edifici massicci e di struttura peculiare, con piccole finestre disposte a intervalli o pareti segnate da blocchi di pietra sporgenti. Queste costruzioni furono chiaramente erette in un’epoca dura e ostile, progettate per resistere agli attacchi, ma molti di questi edifici, nonostante la loro rovina, conservano un fascino estremamente pittoresco.
Le piazze principali, che avevano un aspetto del tutto nuovo ai miei occhi, sono dominate da strutture massicce, e la loro forma di scambio si basa su un’imponente composizione. Le pietre grezze, ammassate e accostate a piccole lastre piatte con fenditure dalla forma simile a quella di una pera, creano un effetto complessivo roccioso, quasi come un precipizio naturale. Sono circondate da piccole torri di pietra, addossate alle mura, e da due grandi pilastri quadrati, uno più prominente e quattro altri di forma circolare. L’imponenza è senza dubbio la caratteristica predominante di questi territori.
Vi sono antichi templi romani nella zona di Volterra, ora trasformati in chiese cristiane; il tempio di Venere e quello di Diana sono stati entrambi integrati nel culto della più potente Madonna. Tuttavia, è la singolarità del paesaggio circostante e la maestosità della sua posizione che mi ha condotto a visitare Volterra. La città sorge sulla sommità di una montagna, ad un’altezza notevole sopra il livello del Mediterraneo, offrendo una vista mozzafiato delle montagne e delle pianure fino al mare lontano.
È interessante notare la particolare struttura geologica del luogo: sembra esserci una mancanza di roccia, e le colline, compresa quella su cui sorge Volterra, appaiono costituite principalmente da limo, che si erode rapidamente sotto l’azione delle piogge. Mancano sostegni che possano trattenere il terreno e renderlo stabile. La conseguenza è un immenso paesaggio circostante il poggio di Volterra, che appare come se fosse emerso di recente da un diluvio. È segnato da innumerevoli gole e presenta una superficie cangiante e vivace, come terra cotta al sole. In alcune direzioni, lo sguardo si perde nelle aree più oscure di una foresta selvaggia, dove ancora oggi si caccia il cinghiale. Un’ombra cupa si stende su una parte dell’orizzonte.
La collina su cui sorge Volterra è, da un lato, completamente rigogliosa e fertile, adornata da lussureggianti boschetti sulle sue pendici, forse un tempo coltivate, oggi splendidamente ricoperte di vegetazione. Qua e là si scorge un pittoresco cottage nascosto tra le siepi. Ma che contrasto incredibile!
Dall’altro lato, quello occidentale, la collina appare prevalentemente brulla e selvaggia. Le pareti rocciose offrono uno spettacolo di desolata grandezza. Stando sull’orlo di un precipizio, si può guardare giù in un burrone le cui pareti sono formate da strati di terra perfettamente perpendicolari.
Questo abisso si apre gradualmente di fronte a noi, rivelando i suoi lati selvaggi e rigogliosi, segnati da innumerevoli gole. Lo sguardo segue il paesaggio lontano, tracciando il percorso dei ruscelli che, serpeggiando, attraversano il deserto assetato per poi scomparire in lontananza. Da un lato, la sponda è fertile, elevandosi al di sopra del panorama. La bellezza delle gole fa innalzare la montagna in modo selvaggio e ripido. A descrivere realmente questo luogo è l’assoluto. Ho rabbrividito mentre stavo sull’orlo dell’abisso e, per un istante, ho temuto che si sgretolasse sotto i miei piedi, perché tutto qui è fragile, come una terra friabile pronta a cedere.
Tremavo, temendo che i pinnacoli appuntiti e le creste che si elevavano dagli abissi potessero svanire mentre li osservavo. Mi sono trovato spesso sull’orlo di alti precipizi, che rappresentano un trionfo dell’intelletto e del pensiero, ma qui l’intera scena porta i segni di un continuo e rapido decadimento e dissoluzione. L’immenso dirupo, nel quale si è riversato tutto, si perdeva in una nube oscura sotto le rovine delle mura etrusche. Ho contemplato a lungo questa scena di desolata sublimità. La vista era mozzafiato, e la profonda gola rifletteva perfettamente il suo stato innaturale. La scena era impressionante, circondata da un silenzio profondo che dominava ogni cosa, fino a quando quel silenzio non venne rotto da un suono improvviso: un torrente immenso che si riversava vicino al precipizio con impeto e forza.
Più tardi, mentre risalivo un sentiero ripido, annunciando la mia partenza, il rintocco del tempo sembrava riempire l’aria, prolungandosi ed echeggiando su se stesso. Le voci sono i confini della vita umana. Molti misurano il tempo in ore e minuti, mentre la Natura lo misura con i cambiamenti dei suoi minerali. Questo grande abisso, che si è aperto davanti a me, è come una clessidra colma di sabbia del tempo. Ho attraversato epoche ed epoche, e altre ancora passeranno, seppellendo le innumerevoli testimonianze che hanno lasciato il loro segno nella storia.
Siamo ormai da diversi giorni a Volterra e siamo deliziati di essere qui. La nostra cavalcata è eccellente e confortevole, distando forse sei minuti a cavallo dal villaggio principale. La spesa per noi è di circa tre franchi a testa al giorno. L’hotel è appena accettabile per quanto riguarda il comfort e il vitto, ma il cibo è poco costoso. La nostra cena è composta da una zuppa di verdure o erbe, seguita da un piatto principale, e termina con un dessert di fichi, pesche o uva.
Siamo stati alla principale fortezza chiamata il Maschio, un magnifico esempio di architettura gotica. Il tetto si inclina verso le mura, congiungendosi alla torre. Accompagnati da un vecchio soldato, che portava un pesante mazzo di chiavi e una lanterna, siamo entrati nella torre centrale e più alta, attraversando il ponte levatoio che sovrasta il profondo fossato. La nostra guida ci ha condotti lungo una stretta scala, fino a raggiungere una piccola prigione sotterranea. Lì, nell’oscurità più totale, la mancanza di luce e l’atmosfera opprimente trasmettevano un senso di disperazione e desolazione. L’unico spiraglio della cella, con le sue sbarre, si affacciava su un muro nero e impenetrabile.
Qui fu imprigionato il Conte Felicini, per ordine del Duca dei Medici. Questa prigione, con i suoi muri di pietra, divenne la sua tomba vivente. In quel luogo angusto, egli visse per trent’anni, affrontando la solitudine e il buio, ma incredibilmente, la sua volontà di sopravvivere non venne mai meno. Infine, quando gli fu concessa la libertà e le sue catene furono rimosse, il Principe respirò nuovamente l’aria aperta, guardando con occhi stanchi il mondo al di fuori. Era chiaramente un uomo di straordinario carattere, ma il suo destino fu crudele, un esempio dell’insensatezza della crudeltà umana.
Dopo aver lasciato quella terribile prigione, la nostra guida ci condusse a un’altra torre, più piccola e altrettanto angusta, insieme a diverse altre simili, dove ci fu raccontato che molti prigionieri incontrarono la morte. I Medici vi imprigionavano coloro che non potevano essere giustiziati pubblicamente. Le mura di queste celle riecheggiarono di gemiti di fame e delle maledizioni della disperazione. Mentre mi allontanavo attraverso quel passaggio stretto, il peso della crudeltà umana mi colpì profondamente, e provai un sollievo immenso nel varcare nuovamente il ponte levatoio e tornare sotto il cielo azzurro.
Non potevo fare a meno di riflettere su quanto siano ingannevoli i doni del potere e della fama, su come la storia spesso dipinga i grandi uomini come figure luminose e nobili, senza mai mostrare le ombre dei loro atti più oscuri. I Medici, celebrati come mecenati e principi, furono anche artefici di sofferenze indicibili. È una verità amara, una realtà che spesso viene dimenticata o ignorata.
Da quando ero a Firenze, ho lavorato intensamente per riempire la mia mente dei miei obiettivi. Nonostante la ricerca del denaro, inizialmente non accettavo ciò che gli altri si aspettavano da me, costringendomi a conformarmi ai ritmi della società; questi esseri impietosi che richiedevano la mia attenzione ogni giorno. Ho trascorso molte ore passeggiando e, più osservo la Natura, più mi convinco della sua bellezza e della sua differenza dalla monotonia e dalla rigidità del mondo umano.
Le nuvole, nei loro stati d’animo più maestosi, si manifestano in cieli così puri che sembrano dipinti da un tocco divino. Durante le tempeste, si tingono di grigio e scendono con piogge pesanti, ma quando l’occhio abbraccia una vasta distesa di campagna si può ammirare il movimento delle ombre e della luce che si spostano da montagna a montagna, da pianura a collina. Queste ombre avanzano, inghiottendo il paesaggio in oscurità, solo per rivelare subito dopo la luce che prima illuminava il territorio. In questi momenti, i temporali, con le loro nuvole in tumulto, si riversano sulle pianure, e osservandoli avvicinarsi, quasi si percepisce un potere soprannaturale, un sentimento di reverenza che ci fa comprendere la forza della Natura. Pur non potendo dirigere il corso delle tempeste, possiamo misurare con lo sguardo la loro vastità e prevedere quale villaggio sarà presto avvolto dalla loro oscurità.
Ho assistito a tramonti gloriosi e a crepuscoli avvolti dalla nebbia, uno in particolare mi ha incantato, osservato da una posizione pittoresca sul pendio scosceso delle montagne. Mentre il giorno svaniva, il paesaggio si tingeva dei colori più celestiali: le rocce nude e le ombre profonde erano immerse in un’atmosfera d’oro e d’argento, così delicata e incantevole che sembrava pronta ad accogliere presenze angeliche. Qua e là, dalla pianura, emergeva dolcemente un tetto scuro, coronato da alberi che brillavano come stelle nel crepuscolo. Il cielo era limpido, senza alcuna nuvola a interrompere la sua purezza. Non mi sorprende che i pittori italiani abbiano creato opere di tale grandezza; la Natura è stata la loro maestra nei suoi momenti più belli.
Ora sto scrivendo da una locanda piuttosto sporca in una città chiamata Colle, a metà strada tra Siena e Firenze. L’aspetto pittoresco del luogo ci ha spinto a trascorrere qualche giorno qui, ma è molto probabile che, se avessimo saputo quante innumerevoli pulci infestano questa locanda (che, tra l’altro, è la migliore del posto), avremmo sicuramente preferito il comfort al fascino e saremmo proseguiti direttamente verso Firenze. La scorsa notte, non sono riuscito a dormire per più di cinque minuti: le pulci mi hanno tenuto sveglio senza tregua.
Durante la prima parte della notte, sono stato svegliato anche dal raglio degli asini e dei muli alloggiati proprio sotto di noi. Le nostre stanze si trovano infatti sopra la stalla, e il fetore di quei numerosi muli non è affatto piacevole. Dopo un intervallo di dieci giorni, siamo finalmente saliti sull’altopiano, con un po’ di rammarico, perché il bel tempo e le strade eccellenti ci avrebbero condotto direttamente a Colle. Mentre ci avvicinavamo alla sera, abbiamo attraversato un ponte e raggiunto Colle: la maggior parte della città si erge su una ripida collina isolata, le cui pendici scoscese sono ricoperte da fitti boschi lussureggianti.
Più in basso, c’è un’altra parte della città, densamente collegata alla parte superiore, in modo straordinario, da masse di case e torri che si ergono l’una sull’altra tra gli alberi. Attraverso la valle in cui ci trovavamo, un torrente scorreva, fiancheggiato da alte sponde di terra dai colori intensi e dalla vegetazione rigogliosa. Mentre ammiravamo questa scena, siamo rimasti sorpresi dall’improvvisa comparsa di un pallone aerostatico, che si alzava maestosamente tra gli alberi ai piedi della collina e navigava con eleganza attraverso il cielo serale color viola.
Domani ci sposteremo verso Firenze, e spero sinceramente che stanotte le pulci mi concedano un po’ di riposo.
Thomas Cole ha assorbito le meraviglie dell’Europa durante i suoi viaggi in Francia e in Italia. In particolare, fu attratto dai paesaggi del Reno, di Volterra, di Firenze e di Roma, rimanendo affascinato dal connubio tra le antiche rovine e l’ambiente naturale che le circondava.
Quando Cole morì nel 1848, a soli 47 anni, si era lasciato dietro una vita fatta di paesaggi, di viaggi e di quella strana, meravigliosa ricerca di qualcosa che non riusciva mai davvero a catturare. E forse è proprio questo il punto: alcune cose sono fatte per sfuggirci, ed è nel tentativo di afferrarle che troviamo chi siamo davvero.