Ottorino (Bruciaboschi) Ceccanti

Tra i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico curiosa era la figura di Bruciaboschi.

Si chiamava Ottorino Ceccanti ed era di Riparbella, dove costituiva la triste figura dello “scemo” del paese. Siccome da tempo nelle campagne vicine si sviluppavano incendi dolosi, la colpa cadde su Ottorino che aveva in tasca un po’ di fiammiferi e fu spedito al nostro ospedale psichiatrico con l’immancabile soprannome. A Volterra non bruciò nulla: era innocuo e girava per le strade per tutta la giornata, contentandosi di qualche sigaretta, di un bicchiere di vino e di dar da mangiare ai maiali del manicomio.

Con il beneplacito degli addetti, la sua passione era quella di salire sui mezzi della nettezza urbana, ma tra le sue strane manie questa era davvero la meno insolita.

> Sommario, dal ricovero di mendicità alla chiusura del manicomio


LA PASSIONE PER I DEFUNTI

Pensate che tra le sue passioni più forti c’era quella per i morti: gli capitava spesso di accompagnare i feretri dei defunti al cimitero, associandosi al trasporto. Chiunque fosse deceduto, Ottorino era presente alle esequie e alle volte, senza che nessuno lo avesse richiesto, contribuiva alla cerimonia suonando la sua chitarrina o una tromba o un piccolo sassofono. Famoso anche il suo modo di dire: “la piglia…la piglia” intendendo la bara.

Insomma, aspettava con grande trepidazione un funerale qualunque esso fosse e per avvalorare ancor di più la tesi questo aneddoto può essere chiarificatore: una mattina Bruciaboschi si trovava al bar del Giardinetto e aveva ordinato un cappuccino in attesa di seguire un funerale in Sant’Agostino. Vito Finazzo, il proprietario, gli porse la fumante tazza che doveva essere bella calda, perché Bruciaboschi la sorseggiava a labbra strette per far passare poco lo stiepidito liquido. Avrebbe continuato così per le lunghe se non fosse che in quell’istante suonarono a morto le campane della chiesa, annunciatori dell’inizio della cerimonia funebre; ecco… non so come fece, ma Ottorino buttò giù tutto d’un fiato quel cappuccino a bollore e sparì di volata con il suo inconfondibile passo dondolante e i pantaloni “all’acqua in casa”, arrotolati fin tanto da mostrare le caviglie.

Una volta però la combinò grossa. Controllando l’obitorio, alcuni infermieri si accorsero della sparizione di alcune scarpe dei defunti; allorché per scoprire il responsabile, uno degli addetti si nascose sotto il lenzuolo che ricopriva una salma. Durante l’ora di pranzo, proprio quando i reparti si svuotavano per l’ora dei pasti, arrivò il Bruciaboschi con passo felpato e occhi attenti; entrò nell’obitorio e agguantò le scarpe ai piedi del morto: stava per andarsene, quando da sotto il lenzuolo si sentì una voce reclamare le scarpe. Ottorino, preso dalla paura, le scagliò a terra e fuggì urlando: “Ma che te ne fai?!”


UNA PULIZIA CONTENUTA

Quando Bruciaboschi arrivò a Volterra dal Cardinal Maffi, fu lavato come si deve; era poco avvezzo a lavarsi e tale costrizione deve averla presa a male alchè, anche negli anni dopo, ogniqualvolta incontrava chi lo aveva spulciato bene bene cambiava lato della strada e aumentava il passo.

D’altro canto anche Ottorino ci metteva del suo; quando vedeva una persona con molti capelli gli gridava dietro: “Fatti i capelli, bighellone, sennò te li faccio io con l’accetta!”. Naturalmente il Bruciaboschi non era armato. Una volta irruppe nella libreria del caro Gian Piero Migliarini che stava tranquillamente parlando con i clienti di eventuali pubblicazioni; entrò di corsa e gridò a Giampiero la fatidica frase. Va notato però che il Migliarini aveva la testa… come il classico uovo.

MARCO LORETELLI, © Volterracity
FONTI
PAOLO FERRINI, in Per Volterra… ricordando qua e là, ancora un po’ di storie, storielle e storiacce di casa nostra, Ed. Gian Piero Migliorini, Volterra, a. 2012
CEPPATELLI MORENO, post dal gruppo Facebook: Manicomiodivolterra