Erano fratello e sorella, di cognome facevano Colivicchi. Abitavano a metà di Via Ricciarelli, al primo piano del palazzo che fa angolo con il Vicolo Francesco da Volterra. Non avendo legami matrimoniali, vivevano insieme.
Li conoscevano tutti a Volterra ed entrambi erano continuamente alle prese con i ragazzi e le ragazze che passando sotto le finestre od incentrandoli, li appellavano rispettivamente «Faina» e «Maliusse».
Lui aveva un nome molto impegnativo, Washington, che allora andava di moda, non so se in onore dell’eroe dell’indipendenza americana o della città. Era un uomo di fisico normale, impiegato in un ente pubblico, non ricordo quale. Lo chiamavano “Faina” perché aveva gli occhi perennemente iniettati di sangue, come quell’animale.
Si vantava di essere un fascista della prim’ora ed era estremamente orgoglioso della sua camicia nera, che al polso aveva la striscia rossa, riservata in effetti solo agli squadristi. Marciò su Roma, piuttosto ridicolo e soprattutto fifone; non dovette però fare grandi cose nel 1921, poiché alla caduta del regime nessuno lo molestò.
Durante i 45 giorni di Badoglio, obbedendo a un’ordinanza dell’epoca, sia pure con grande dolore, andò a consegnare la tanto amata arma a chi di dovere. Quando, però, dopo l’armistizio e gli episodi connessi, rinacque il partito fascista, sia pure nella forma repubblicana, Faina aderì subito. Al tempo incominciò a fare pressioni sui dirigenti per ricevere una pistola, dicendosi minacciato dagli antifascisti e più tardi dai partigiani. Probabilmente non era vero niente, ma tanto fece che alla fine ebbe una bella 7,65.
La sua contentezza fu però avvelenata dalla sorella. La Maliusse, infatti, tutta presa dalla religione, sosteneva di odiare la guerra e la violenza, né avrebbe sopportato la presenza di un’arma in casa. Di giorno Faina la portava sempre con sé, ma di notte era costretto a tenerla fuori casa. Non trovò di meglio che sistemarla sul davanzale esterno della finestra, accomodando così i rapporti con la sorella.
Credeva quindi di avere fatto un colpo di genio, ma la sorte gli tirò l’ennesimo brutto scherzo. Infatti, al piano superiore abitava un sottufficiale della milizia, certo Volterrani. Non so per quale motivo egli aprì una finestra e, pur nel buio dell’oscuramento notturno, scorse la pistola.
Non gli fu difficile capire cosa era accaduto. Con l’aiuto di una lunga canna riuscì a spingere l’arma fuori dal davanzale, facendola cadere nella strada sottostante. Quindi scese a raccoglierla e se la portò in casa.
La mattina dopo andò alla sede del fascio raccontando l’accaduto. Intuibili le matte risate. Poi Faina fu chiamato a rendere conto di quanto accaduto. Molto imbarazzato, si presentò farfugliando scuse inesistenti e ricevendo in cambio l’accusa di essere un traditore e di aver consegnato la pistola ai partigiani.
Finì con l’essere cacciato con ignominia e senza l’arma prediletta.
Fuori casa, Faina era esposto anche agli scherzi e ai brutti tiri. Una sera era andato al Caffè del Bruni, in Via Guidi (noto poi come Bar Martini). Si era recato ad assistere a una partita al biliardo. Un altro degli spettatori era Sergio Vanzi, un bel tipo, pronto alla battuta, che aveva un negozio di libraio in Via Ricciarelli, là dove sbocca Via del Mandorlo. Evitando di essere visto dall’interessato, il Vanzi scivolò sotto il biliardo e, da lì, miagolava come un gatto e invocava il nome di Faina.
Questi, dopo aver cercato qua e là tra il sollazzo degli astanti, individuò dove si era nascosto il molestatore. Estrasse di tasca la pistola, che portava sempre con sé in ricordo dei vecchi tempi, e lo fece uscire, portandolo fuori dal bar. “La tua ultima ora è suonata!” gridava al Vanzi. Questi si fingeva terrorizzato, invocava pietà in nome della moglie e dei figli (che neppure aveva) e precedeva Faina, preparandosi all’azione. Infatti, quando i due si trovarono alla Dogana, essendo vicini alla balaustra in ferro (che allora, come ora, era priva di protezione poiché questa era stata donata alla patria), con un’abile mossa lo disarmò e lo buttò al di là della balaustra stessa.
Il Colivicchi non si fece nulla perché atterrò sopra un mucchio di foglie, ma dovette sopportare dapprima il Vanzi che lo sfotteva gridandogli il solito nomignolo, poi il coro di tutti coloro che avevano assistito alla scena del bar. Così il grido “Faina, Faina!” si alzò possente per perdersi poi nella notte.
Sua sorella comunque sia andava assai fiera di Faina: quando entrava in una macelleria, chiedeva un etto di “lesso buono per un fascista della prim’ora” e così per le altre cibarie, sempre modeste, poiché evidentemente lo stipendio di lui doveva essere piuttosto magro.
I due andavano d’accordo; ogni tanto però scoppiavano liti furibonde per i soliti futili motivi, ed allora ognuno mostrava il meglio di sé. “A me, donne cattoliche!” urlava lei con la sua vocetta stridula, brandendo minacciosa l’ombrellino. Lui ritornava ai tempi dello squadrismo, gridando il fatidico: “Fascisti, a noi!”. Si trattava però delle classiche tempeste in un bicchier d’acqua e tutto si esauriva nei due gridi da battaglia.
Lei era una donnina di età indefinibile: sarà stata alta un metro e quaranta, magrissima, sembrava, a toccarla, che si rompesse da un momento all’altro. Il suo curioso soprannome, “Maliusse”, derivava dal suo vero nome, molto strapazzato, che era l’ottocentesco Amalia.
Era senza denti e si dotava di una pseudo-dentiera di cera, ma si presentava imbellettata, con grandi collane di corallo, scarpe con i tacchi alti, cappa con collo di pelliccia nera e spille, anelli e fronzoli vari. Non troppo vistosamente vestita per poter passare inosservata agli occhi della scanzonata gioventù volterrana; perciò era una cosa normale vedere lui correre dietro ai giovani, minacciandoli chissà quali castighi e trovare lei – con l’ombrellino tenuto a mo’ di lancia – battendo rapidamente i tacchini sul lastricato, all’inseguimento di singoli o di gruppi di scocciatori.
Amalia stava spesso alla finestra tra trine e pellicce. Ma quando non stava a casa, essendo molto religiosa, passava buona parte del suo tempo in Cattedrale o nel fare visita a qualche amica. Una di queste abitava nel Vicolo dei Da Pontremoli, ma passando per qua era spesso a tiro dei ragazzi che giocavano spesso per strada. Molto poco educatamente, quando la vedevano sbucare, incominciavamo a gridare: “Maliusse, Maliusse!”, facendole prendere feroci arrabbiature. Minacciava con il suo ombrellino, che portava anche d’agosto: cosa questa che aumentava la ilarità dei giovani e, di riflesso, il coro sfottente: “Maliusse, Maliusse!”.
Era possibile trovarla anche in Via San Felice, laggiù vicino alla Porta dove c’è la chiesina, proprietà di un suo parente. Amalia apriva la chiesina molte volte alla settimana e, coadiuvata da donne della via, recitava ad alta voce varie preghiere. Purtroppo anche qui la signorina veniva assediata dal canto giovanile di «Maliusse, Maliusse, Maliusse» e lei, dopo un periodo di sopportazione faceva l’uscita, rompendo l’assedio a colpi di granatate, gridando frasi non molto intonate al luogo da cui usciva ed al suo rango di gran dama. Nonostante queste difficoltà, le va dato merito che per un certo periodo la chiesina sembrava risorta; nel tempo si giunse anche a dei veri culti mariani, con messe e funzioni pomeridiane officiate da un sacerdote.
La signorina Amalia era solita raccontare, quasi come una presentazione, parti della sua vita, delle grandi conoscenze, della sua fulgente giovinezza, tutte cose grandi, fastose, belle. Credo che nella maggior parte fossero cose irreali, ma lei ci credeva e raccontandole era come se rivivesse questi sogni.