Durante la seconda guerra mondiale c’era molta fame alla quale tutti riuscivano a fare un po’ fronte dato che allora le nostre campagne erano ricche di prodotti ai quali attingere con la malfamata borsa nera. L’inverno fu molto freddo con abbondanza di neve e molte case furono in lutto per i morti ammazzati dall’una e dall’altra parte. E anche quando venne la bella primavera e s’aprì una lunga, calda estate, intervennero i bombardamenti americani che con le mine disseminate dai Tedeschi allungarono la tragica lista dei morti anche dopo quel 9 luglio che segnò l’arrivo dei reparti della V Armata a stelle e strisce.

Però, nonostante tutto ciò, non mancò qualche episodio fra il tragico e il comico.

Nel mese di marzo del 1944 si sparse all’improvviso per Volterra una strana voce, quella cioè che i partigiani attestati alla Carlina, preparavano un attacco contro la città. Naturalmente non era vera in senso assoluto, però le autorità fasciste si premunirono a difesa, fortificando con sacchetti a terra e mitragliere con congruo numero di militi, le porte d’accesso a Volterra. Dopo un po’ tutto sbollì ma ci fu un episodio che poteva essere tragico e si concluse in modo veramente ridanciano.

I reparti della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) erano per lo più acquartierati alla caserma della Dogana; però alcuni di essi furono allogati nei locali dell’asilo infantile in via San Lino. Erano tutti giovanissimi e la gente l’aveva soprannominati con scarsa simpatia “pecciolesi”, in quanto molti di essi provenivano dal vicino paese. La loro definizione era dovuta più ad un senso di disprezzo e di antipatia che non a motivi geografici. Ora accadde che nel primo pomeriggio del 21 marzo, uno di questi faceva un servizio di vigilanza dall’alto delle mura lato Vallebuona. Ad un tratto il milite dopo aver scrutato nella zona di Valle, si gettò giù dal muro e corse dal comandante urlando che aveva scoperto un nido di partigiani. Partì immediatamente un reparto che discese la valle con le armi in pugno e si trovò di fronte a quattro persone che, seduti su di un prato, stavano giocando a carte, per la cronaca a “toppa”.

Erano quattro amici che amavano il tavolo verde, ma in quel tempo il gioco era proibito in tutti i ritrovi pubblici e anche alle “Stanze” da loro frequentate; erano Celso Galletti, Gino “Poppe” Mannucci, Ubaldo “Baldo” Moretti, e Narciso “Noè” Rossi. Di fronte ai mitra spianati tutti protestarono la loro innocenza, dicendo che nulla avevano a che fare con i partigiani e che si trattava soltanto di una partita fra amici. Il più accalorato fu il Galletti il quale sventolò sotto il naso dei militi la sua tessera di iscrizione al partito fascista repubblicano.

Fu peggio che andar di notte; i militi incominciarono a picchiarlo urlandogli “traditore!”, ma anche gli altri ebbero la loro dose mentre, fra spintoni e pedate, venivano portati nella sede di San Lino.

La notizia di quanto stava succedendo, ma in maniera tutt’altro che chiara, cominciò a girare per la città. Fu allora che Siila Ghilli, comandante dei Vigili Urbani, o “Capoguardia” come si diceva allora, si precipitò in loco. Quando però riconobbe gli arrestati, tutti suoi buoni amici, s’impennò nel difenderli, forte del suo passato e presente in camicia nera, e per far riconoscere l’enorme granchio che era stato preso.

© Edizioni Gian Piero Migliorini, PAOLO FERRINI
“I giocatori di toppa”, in “Una pallottola volterrana per Tiburzi: Storie, storielle e storiacce di casa nostra”. Edizioni Gian Piero Migliorini, 2011, p. 25