Il rapimento di Russo e Cucchiara

Il 24 ottobre 1948 sulle dieci, uscii di casa per la solita passeggiata festiva, il bar con gli amici, l’appuntamento pomeridiano con la fidanzata. Appena arrivai in piazza, la notizia girava come una trottola impazzita per tutte le strade di una Volterra incredula: “Hanno rapito lo Zopfi!”. Io allora ero corrispondente di un quotidiano livornese poi scomparso, La Gazzetta, e ovviamente piantai tutto in asso e mi misi al pezzo.

Occorre dire in primis chi era lo Zopfi, che di nome faceva Gioacchino, ma era da tutti inteso come Gino. Era venuto a Volterra dalla Svizzera insieme al fratello Alfredo, alla di lui moglie e ai loro due figli: Alfredo e Bruno. Erano degli imprenditori agricoli ed avevano acquistato la grande tenuta di S. Anastasio, nei pressi di Spicchiaiola. I due ragazzi si erano subito ben integrati fra i coetanei volterrani; ricordo con esattezza il maggiore, Alfredo, che portava il nome del padre, mio compagno di classe sui banchi del Ginnasio “Carducci”. La famiglia aveva conservato la cittadinanza svizzera e ciò le fu utile soprattutto durante le vicende belliche.


IL RAPIMENTO

Il rapimento era avvenuto il pomeriggio precedente, sabato 23 ottobre 1924. Com’era sua abitudine, Gioacchino Zopfi si recava alla sua fattoria servendosi dell’autobus di linea fino al bivio di Spicchiaiola, dove un calessino dell’azienda lo portava al posto di lavoro; e lo stesso avveniva anche la sera. Quel sabato era andato con lui il nipote Bruno, poco più che un bambino. Al ritorno, sul barroccino della fattoria salirono anche il conducente e una domestica. Erano le 19:40, ormai la notte stava calando, quando, all’altezza del cimitero di Spicchiaiola, situato nei pressi del bivio per la statale, schizzarono fuori dalla fitta vegetazione due uomini con il mitra in mano che intimarono l’alt.

I banditi avevano inizialmente l’idea di rapire il piccolo Bruno, poi cambiarono parere e fecero scendere lo zio, il quale generosamente si era già offerto al posto del nipote.
La domestica ebbe coraggio e apostrofò i due chiamandoli “belve”, ma i due restarono indifferenti e si allontanarono con l’ostaggio nel buio della statale. È da notare che, mentre tutto questo si svolgeva nei pressi del cimitero, erano passati il pullman di linea e alcune auto senza che nessuno si accorgesse di quanto stava accadendo.

Di cosa si servirono i banditi per portare via il sequestrato? Si parlò a lungo di un furgoncino rosso che sarebbe stato visto transitare da quelle parti. Una cosa è certa però: i due calzavano pesanti stivali i quali, come narrò la domestica, non avevano la minima traccia di fango, nonostante lo stato della campagna su cui era abbondantemente piovuto.

Della notte intercorsa tra sabato e domenica non si hanno notizie certe. Infatti, Alfredo padre Zopfi, quando seppe che i due si erano allontanati minacciando di uccidere il prigioniero se la cosa fosse stata subito denunciata, tenne il silenzio fino alla mattina successiva. Solo al mattino di domenica 24 lo Zopfi si recò dai Carabinieri raccontando tutto l’accaduto.

Esplose come una bomba tutta la storia, che mise in movimento gli alti gradi dei Carabinieri e della Questura di Pisa, con un conseguente rimbalzo anche sul console svizzero di Firenze, che si precipitò a Volterra. Si creò un chiasso formidabile e ben presto giunsero notevoli rinforzi per i tutori dell’ordine locale.

I sequestri di persona, così tristemente abbondanti in epoche più vicine a noi, erano allora sconosciuti; io non ho statistiche in materia, ma credo che il sequestro in questione sia il primo verificatosi in Italia.
Inoltre, era evidente la pressione delle autorità elvetiche, alle quali le nostre dovevano fare fronte.


I BANDITI

I banditi erano Francesco Russo e Antonio Cucchiara. Essi facevano parte di quel notevole gruppo di contadini siciliani che, nel dopoguerra, si erano installati nelle nostre campagne, lasciando quelle più aride natie.

Molti venivano da Montelepre, il paese reso tristemente famoso per le gesta del bandito Giuliano, con il quale alcuni si dicevano imparentati. I Russo si erano stabiliti nei pressi di Miemo, nel territorio di Montecatini Val di Cecina; i Cucchiara, in un podere di Monteverdi Marittimo. I due, come poi emerse, avevano iniziato la carriera criminale con furti e rapine nelle campagne tra le province di Siena e Grosseto, dove le indagini li avevano sicuramente localizzati una settimana prima del rapimento Zopfi. Infatti, i due, armati di tutto punto, s’erano presentati a sera nella casa di un contadino, Silvio Cambi, della fattoria di Frosini, avevano chiesto e ottenuto da mangiare e da bere, poi si erano allontanati non mancando di lasciare, come compenso alla famiglia forzata ospite, mille lire.

Era quindi logico che le indagini si svolgessero in una zona abbastanza definita. Iniziarono così i rastrellamenti in grande stile fra carabinieri e poliziotti, i quali avevano raggiunto il numero di cinquecento. Io sono stato quasi sempre al seguito delle forze dell’ordine, macinando con loro chilometri e chilometri di terreno aspro e roccioso, in mezzo a una vegetazione fittissima, talvolta sotto la pioggia. Ho sempre negli occhi la dura fatica degli uomini in divisa, sudati, stravolti, con la rabbia di non avere risultati.


GLI ARRESTI

Una bella spinta per la risoluzione del caso avvenne il 30 ottobre, una settimana dopo il sequestro. Una pattuglia dei Carabinieri bloccò nottetempo, vicino a Pomarance, un’auto proveniente da Larderello con due persone a bordo. Dal loro interrogatorio vennero fuori i primi indizi. Questo fatto determinante trasformò in una bufala una notizia precedente, che voleva Russo e Cucchiara a Livorno a bordo di un’auto di lusso. Il rastrellamento fu esteso alla città; ci furono degli arresti, ma il tutto si dimostrò di poca o nessuna importanza. Non è mai stato reso noto quali frutti desse il fermo dei due, dei quali ignorammo anche i nomi. Fatto sta che le indagini presero subito un ritmo ben preciso, determinando un ampio territorio nel quale i due banditi nascondevano l’ostaggio. Inoltre, venne organizzato un robusto appostamento vicino alle abitazioni di Russo e Cucchiara.

In tal senso, erano già intervenuti gli inquirenti e avevano arrestato per favoreggiamento il padre del Russo, Andrea; inoltre, avevano sottoposto altri parenti al fermo di polizia. La sorveglianza dette i suoi frutti proprio al podere di Miemo, allorché Francesco Russo, ivi nascosto, si accorse dell’arrivo dei Carabinieri. Erano circa le tredici del 31 ottobre; il bandito scavalcò una finestra a piano terreno, quindi superò il muretto e corse disperatamente verso la macchia.

All’inseguimento si gettò per primo il brigadiere Giuntini della stazione di Volterra; lo conoscevo benissimo, era alto e molto robusto, attaccatissimo alla sua divisa.
Dopo avere inutilmente intimato l’alt, sparò più volte in direzione del fuggiasco, lanciando anche una bomba a mano. Il Russo riuscì a dileguarsi, evidentemente ferito, in quanto sul terreno erano evidenti tracce di sangue, nonché uno zaino pieno di cibarie, armi e munizioni.

La caccia riprese con più lena e s’indirizzò nel foltissimo bosco di Monterufoli, ove, in località Malestrata, i Carabinieri di Riparbella lo individuarono nascosto dietro a un cespuglio.
Era il primo pomeriggio di Ognissanti. Il Russo tentò ancora la fuga, ma fu raggiunto alla gamba da una pallottola che lo abbatté.

Fu più tardi trasportato all’ospedale di Volterra per le cure, e qui venne evidenziata una ferita non grave che il Russo aveva riportato nello scontro di Miemo. La sua cattura aprì facilmente la strada per la soluzione finale: egli inizialmente tergiversò, poi finì col rivelare dove si trovavano il Cucchiara e lo Zopfi, cioè in una zona del ripido monte Le Cornate, offrendosi addirittura di guidarvi sul posto; il che avvenne a bordo di un’autoambulanza. I Carabinieri superarono con grande fatica il monte, e poi discesero nel versante opposto, quando uno di loro, Covarelli, individuò un capanno coperto di frasche, fuori del quale stavano Cucchiara e lo Zopfi.

Insieme al Covarelli scattò il maresciallo Orrù della stazione di Volterra.
Questo sottufficiale era da molto tempo in servizio nella nostra città, dove erano nati i suoi figli, tra i quali ricordo l’amico Dario, divenuto generale della Folgore. Il sottufficiale era unanimemente chiamato “il maresciallino” per le sue caratteristiche fisiche: era un sardo non molto alto, magro come il classico chiodo, però tutto muscoli ed energia.

Davanti a loro, il bandito si fece scudo dello Zopfi, il quale si raccomandava di non sparare. L’ostaggio fu trascinato fino al limite della boscaglia, dove fu lasciato andare, mentre il Cucchiara fuggiva a tutte gambe. Era la mattina del 3 novembre e, mentre veniva soccorso lo Zopfi, il maresciallo Orrù si gettò, aprendo il fuoco, sulle tracce del bandito, che riuscì, una volta di più, a fuggire.

Per lui, però, la resa era ormai vicina. Anche perché, stanco ed affamato, cercò di rifugiarsi in casa dei parenti, nel comune di Monteverdi Marittimo.
La mamma di Antonio stava di sentinella e, quando al mattino del 4 novembre vide avanzare le forze dell’ordine, dette l’allarme, facendo fuggire di nuovo il figlio. Ormai la caccia volgeva al termine; la corsa dello sciagurato si trasferì nel territorio di Massa Marittima, dove, in località Massoni, fu bene individuato e ferito dal lancio di una bomba a mano.

Poco eroicamente fu colpito nelle parti posteriori e si arrese. Erano circa le dieci del mattino. Fu trasportato a Volterra e ricoverato in ospedale, dove venne operato per togliergli le schegge metalliche dal sedere.


IL RITORNO DELLO ZOPFI

Ben altro fu il ritorno di Gioacchino Zopfi. Quando fu rinvenuto era in maniche di camicia ed aveva la barba lunga, ma era sostanzialmente in buone condizioni. Circondato da una ressa di giornalisti e fotografi, narrò i particolari del suo rapimento.

Aveva compiuto tantissimi chilometri a piedi su terreni impervi; aveva dormito in qualche grotta; i suoi carcerieri lo avevano, per così dire, trattato bene; lo chiamavano con deferenza “Sor Gino” e lo avevano sempre ben nutrito con cibo portato dal Russo nelle vesti di vivandiere. Solo i piedi apparivano feriti, sia per le lunghe camminate, sia perché, prima di dormire, gli mettevano sassolini nelle scarpe onde non potesse allontanarsi. Saltuariamente il Russo gli aveva fatto anche da barbiere.

Il suo rientro in città avvenne tra una grande folla che lo aspettava in piazza XX Settembre, poiché la famiglia Zopfi abitava nei pressi, nell’attuale via degli Orti di Sant’Agostino.

Tutta questa faccenda aveva previsto anche una richiesta di riscatto, tramite una lettera imbucata a San Dalmazio, con cui gli estortori chiedevano venti milioni, una bella cifra per l’epoca.


GLI STORNELLI

Il rapimento dello Zopfi ebbe una grande eco in Italia e in Svizzera e se ne impadronirono i cantastorie, che allora andavano di moda, sempre presenti alle sagre ed alle fiere dei paesi. Due di questi, Morganti e Burchianti, abitavano a Montecatini Val di Cecina, ma Socrate Morganti veniva spesso a Volterra, dove aveva una figlia sposata e dove si rivolgeva alle Grafiche UTA per stampare le sue produzioni. Ne compose molte, tutte ispirate a fattacci di cronaca nera; naturalmente non poteva mancare il rapimento dello Zopfi.

Quasi tutta la produzione del duo Morganti – Burchianti sembra essere svanita nel nulla; garantisco che mi sono dato molto da fare, ma senza esito. La memoria, però, mi assiste e sono in grado di ricordare le prime due strofe, regolarmente in ottava rima. Eccole:

“Tiburzi, Fioravanti e il Passatore,
Stoppa, Mastrilli e celebri banditi,
dicono, un tempo, si fecero onore
a depredare questi arricchiti…
ed ai signori gli facean la bara,
così volevan far Russo e Cucchiara.

Lo Zopfi era nella sua collina,
aveva gli operai a lavorare,
ma l’ora della SITA s’avvicina,
a Volterra doveva ritornare.
Tosto col calessino s’incammina,
il nipote lo volle accompagnare,
ma quando sulla strada fu arrivato,
s’accorse che dal mitra era aspettato…”

Per chiudere la vicenda, va detto che i due furono condannati in Corte d’Assise a ventisei anni di reclusione; forse oggi se la sarebbero cavata con meno, poiché Russo e Cucchiara appaiono veramente due disgraziati che fecero il cosiddetto “passo più lungo della gamba”, passando dalla modesta posizione di ladri di galline a quella ben più criminale del rapimento Zopfi, un reato di gran lunga superiore alle loro forze.

© Edizioni Gian Piero Migliorini, PAOLO FERRINI
“… così volevano fare Russo e Cucchiara”, in “Una pallottola volterrana per Tiburzi: Storie, storielle e storiacce di casa nostra”. Edizioni Gian Piero Migliorini, 2011, pp. 29–32.