L’inesorabile avanzare delle Balze, lungo i contrafforti su cui si erge in bilico la città di Volterra, impedisce oggi di cogliere nel suo complesso tutta un’area dell’insediamento medievale fatta di un vivace tessuto di mura, case e chiese che nei secoli più recenti è stata via via abbandonata. Le vicende di San Marco illustrano in pieno questo processo: sorta in una zona economicamente vivace della città, presso una delle porte nelle mura etrusche e lungo quella che era allora la via principale che scendeva giù in direzione della Valdera e di Pisa, la chiesa in origine indipendente venne annessa al monastero di San Giusto ed eretta a prioria camaldolese, per essere poi nel corso del Cinquecento, fatta salva l’adesione a Camaldoli, trasformata in monastero femminile.
L’edificio fu poi smantellato nel 1774, quando il crollo della vicina chiesa di San Giusto e il timore di un ulteriore estendersi della frana provocò un abbandono di tutto quel settore della città. Trasferitesi dunque le monache presso la più sicura chiesa di San Pietro in Selci (1710), nel settore diametralmente opposto di Volterra, e assunta la denominazione di San Marco in San Pietro, il nuovo ente visse in quella sede le successive vicende e la trasformazione nel 1785 in conservatorio decretata dal granduca Pietro Leopoldo. Abbandonata poi dalle monache camaldolesi nel 1804, nel 1810 l’edificio passò al conservatorio di San Lino, che assunse così la denominazione che conserva ancora oggi: conservatorio di San Lino in San Pietro¹.
Fatta dunque questa necessaria premessa, per riallacciare in avanti le vicissitudini di San Marco con quelle dell’attuale conservatorio di San Lino in San Pietro, di cui l’antica prioria costituisce uno degli antenati istituzionali, conviene ora volgersi piuttosto indietro e cercare di tracciare per sommi capi le sue vicende, con particolare attenzione ai secoli finali del Medioevo, e in particolare a quei cento anni in cui, dalla fine della signoria belfortesca sulla città (1371) al sacco dei Fiorentini (1472), si consumò il definitivo inserimento di Volterra nella compagine territoriale che faceva capo alla città del Giglio.
Nel tracciare un profilo per sommi capi della storia della prioria ho voluto adottare un approccio per così dire ‘istituzionale’, mettendo al centro San Marco e indagando di volta in volta le diverse fasce di rapporti che la prioria seppe intessere nel corso dei secoli: in primis la dipendenza dal monastero di San Giusto e a un livello più alto da Camaldoli; poi il legame con il circostante insediamento cittadino, l’area detta di Pratomarzio, i rapporti con il governo comunale e quindi con alcuni dei personaggi economicamente e politicamente più importanti della Volterra del primo Quattrocento. Si tratta quindi di tante sfere concentriche ed episodi distinti tra di loro, che spero di poter intrecciare tra di loro non solo per ricostruire la storia della prioria ma soprattutto attraverso di essa uno spaccato più ampio sulla realtà della città di Volterra a cavallo tra Tre e Quattrocento.
Le prime attestazioni nelle fonti scritte della chiesa di San Marco sono contenute nel cosiddetto Calendario di s. Ugo databile al 1161, ove figura come una delle tappe nell’itinerario per la celebrazione della festa dell’Ascensione. In tale occasione infatti il clero cittadino si recava in processione presso le principali chiese di Volterra nell’arco dei tre giorni della festa: San Marco veniva visitata il terzo e ultimo, insieme alle chiese di Santo Stefano, San Giovanni di Orticasso e San Giusto de Monte, per concludere con l’arrivo presso il monastero di San Giusto ove veniva officiata la messa².
Il Calendario si rivela pertanto fondamentale per due ordini di motivi: perché mostra non solo la stretta importanza per la città di Volterra delle chiese visitate durante l’occorrenza ma anche il ruolo fondamentale del monastero camaldolese di San Giusto, ove la celebrazione aveva termine; e perché disvela lo stretto legame che univa tra di loro il clero cittadino, il monastero e le chiese visitate³. Si trattava insomma di un rituale collettivo volto essenzialmente a rimarcare l’unità indissolubile tra il tessuto urbano e la sua Chiesa.
Malgrado l’importanza che pure San Marco aveva per l’area circostante⁴, la relativa vicinanza con la badia dovette finire per esercitare una qualche forma di attrazione, cosicché la chiesa si trovò a gravitare sempre di più verso il monastero.
Una trentina di anni dopo il Calendario di s. Ugo infatti troviamo proprio il rettore di San Marco, il prete Azzo⁵, annoverato tra i monaci di San Giusto. La circostanza per cui il rettore fosse anche un membro della comunità monastica sembra suggerire a questa altezza cronologica un legame più di carattere personale che giurisdizionale, eppure segna la prima tappa di un rapido processo di avvicinamento tra la chiesa e il monastero: pochi decenni dopo infatti un documento del 1220 definiva in maniera netta la dipendenza di San Marco da San Giusto attraverso la formula «sub dicta abbatia»⁶.
Il passaggio definitivo doveva essere avvenuto nel giro di quegli anni, allorché alla guida della chiesa si trovava il prete Forte, lo stesso che nel documento del 1220 sopra ricordato viene citato come converso di San Giusto⁷. Dovette agire in tal senso la volontà della badia di rendere effettivo il proprio controllo su quel settore della città a lei più prossimo, concessole peraltro dagli stessi presuli di Volterra.
Il monastero infatti era stato fondato tra 1030 e 1034 per iniziativa dell’allora vescovo Gunfredo e inizialmente affidato ai Benedettini, per passare nel 1113 all’interno della Congregazione camaldolese. L’impronta vescovile fu ulteriormente rimarcata dalle ripetute donazioni compiute dagli ordinari a cavallo tra XI e XII secolo, volte a incrementare il già cospicuo patrimonio monastico e soprattutto a consolidarne la giurisdizione spirituale e materiale sull’area di Pratomarzio⁸. In tal senso non deve stupire come l’interesse per quel settore di Volterra, nato sotto l’ombrello delle concessioni vescovili, si fosse tradotto nel giro di pochi decenni in una ben più consistente iniziativa per rendere ancora più salda la giurisdizione spirituale concessa sulla carta, spiegando così l’interesse dei monaci per San Marco.
Il legame preferenziale di San Giusto con l’autorità diocesana, sottolineato dalle vicende legate alla sua fondazione e dotazione, si esplicava anche nel ruolo di assoluto primo piano nel complesso rituale per l’arrivo in città dei nuovi vescovi.
In tale circostanza, l’abate e i suoi monaci accoglievano il presule presso la cappella di San Quirico, suffraganea del loro monastero e posta sulla riva sinistra dell’Era; da qui era poi condotto alla chiesa di San Giusto e al monastero, ove trascorreva la notte; il giorno successivo il corteo si recava alla chiesa di San Marco per delle celebrazioni liturgiche e solo dopo il nuovo ordinario era ufficialmente accolto dalle autorità del Comune e poteva mettere piede nella sua cattedrale⁹. Ne emerge pertanto, come ha rilevato Caby, un ruolo di profonda simbiosi istituzionale tra l’autorità del vescovo di Volterra e quella dell’abate di San Giusto¹⁰.
L’inserimento di San Marco all’interno del rituale (ove anzi rappresentava la prima chiesa entro la cerchia muraria in cui il nuovo vescovo officiava il servizio liturgico) e la sua trasformazione in prioria ne sancivano la ormai definitiva appartenenza al monastero: una giurisdizione che si tradusse nel controllo che l’abate si riservò quanto all’elezione del priore, scelto tra i monaci di San Giusto, come nel caso del prete Gregorio fatto eleggere nel 1285 dall’allora abate Accursio¹¹. L’acquisizione da parte del monastero determinò inoltre il passaggio di San Marco dalla giurisdizione vescovile, alla quale era stata fino a quel momento soggetta, a quella di San Giusto e dell’Ordine camaldolese, di cui il cenobio era entrato a fare parte e alle quali ora sarebbe spettato la risoluzione delle vertenze sulla chiesa e sulla nomina dei suoi rettori, escludendo in tal modo il vescovo di Volterra da qualunque ingerenza su San Marco¹².
Sarebbe tuttavia errato leggere solo queste forme di presa di controllo nell’ingresso sotto la sfera di influenza della badia, dal momento che questo legame poteva anche tradursi in donativi per il patrimonio ecclesiastico, come quando nel 1256 furono assegnati a San Marco i redditi di alcuni mulini che il monastero possedeva lungo l’Era¹³. Anzi, proprio dal punto di vista patrimoniale, la vita della prioria si era notevolmente arricchita grazie alla costituzione ai primi del Duecento della relativa Opera, negli stessi anni in cui anche la chiesa di San Giusto – altra dipendenza del monastero – si dotava di un ente analogo per supervisionare la gestione dei propri beni e della fabbrica: a capo della nuova Opera, posta sotto il controllo dell’abate, si poneva de iure il priore di San Marco, affiancato da operai laici scelti verosimilmente dai parrocchiani¹⁴.
Quanto alla consistenza materiale del patrimonio di San Marco all’epoca, sappiamo dalla deposizione del rettore prete Forte all’abate di San Giusto del 1220, secondo quanto ipotizzato da Ducci, che dovevano trattarsi in un paio di terreni posti a Pratomarzio, più una casa vicino alla chiesa¹⁵. Un’indicazione sommaria sul carattere dei beni di sua pertinenza ci viene poi dall’estimo preparato da Camaldoli in vista della richiesta della decima papale e databile agli anni Settanta del Duecento¹⁶.
Si tratta di un documento estremamente prezioso in quanto elenca i principali cespiti d’entrata del monastero di San Giusto e delle sue due dipendenze, ovvero San Marco e San Cipriano¹⁷: benché lontane dalle ben più consistenti entrate della badia, la prioria dichiarava tra le proprie entrate la vendita di cereali come il grano (con una produzione di 18 staia e 3 quarre, per un totale di 11 lire e 5 soldi, lontanissime dai 611 staia e conseguenti 366 lire e soldi 12 che San Giusto poteva ricavare dalle proprie terre), cui si aggiungevano anche 18 barili di vino (corrispondenti a 7 lire e 8 soldi: per San Giusto la produzione ammontava invece a 125 barili)¹⁸. Se i cespiti del monastero si qualificano per la loro maggiore consistenza, frutto di un patrimonio ben esteso e articolato, comprendente anche diritti di sfruttamento sui boschi e sui canneti oltre a pensioni riscuotibili sugli immobili¹⁹, i beni pertinenti alla sola San Marco sembrano caratterizzarsi piuttosto per produzioni di cereali come segale e orzo, fave e altri legumi (ceci e cicerchie); l’elemento che a mio giudizio qualifica meglio la sua dotazione è rappresentato dai cespiti ricavati dalla produzione di olio (valutati in 6 lire e 40 soldi) e dagli affitti degli orti (per altri 40 soldi)²⁰.
La presenza di simili entrate (che invece non figurano tra quelle della badia) farebbe supporre che tra i suoi beni figurassero, insieme con terreni vocati alla produzione cerealicola, anche numerosi appezzamenti tenuti a uliveto e a orto, che lascerebbero ipotizzare una buona dotazione patrimoniale²¹. La prioria poteva dichiarare così un’entrata totale di 35 lire, 18 soldi e 6 denari che, seppur lontanissima dalle oltre 558 lire di San Giusto, la poneva ben al di sopra dell’altra dipendenza del cenobio, San Cipriano, con appena una decina di lire ricavate dallo smercio di 18 staia di grano²².
La giurisdizione sull’oratorio di San Tomeo (di ubicazione ancora incerta ma con rendite provenienti da un podere a Pulicciano in Val di Pesa e dai terreni a Fonte Mandringa, Ripa di Montebradoni e a Corbano), mentre l’Opera di San Marco possedeva un terreno in località Doccia, un orto presso la chiesa di San Martino e una rendita di 5 lire dovuta alle elemosine dei fedeli²³.
Oltre alle questioni di carattere patrimoniale, il passaggio sotto la giurisdizione del monastero di San Giusto significò per San Marco la partecipazione diretta alle vicissitudini della comunità monastica. In primo luogo, il priore, in quanto monaco di San Giusto, figura con una certa frequenza all’interno della documentazione relativa ai capitoli abbaziali²⁴; e secondariamente compare in relazione con il cenobio nelle carte e negli atti del priore generale di Camaldoli. Si tratta soprattutto di una serie di atti, successivi alla peste del 1348 e databili al decennio successivo, con i quali l’allora priore generale, Giovanni degli Abbarbagliati, aveva cercato di ripopolare San Giusto e di mantenerci attivo l’insegnamento della grammatica²⁵. La questione aveva infatti assunto estrema urgenza per l’Ordine: la presenza di un insegnamento di grammatica entro le mura del cenobio volterrano è infatti testimoniata da una lettera dell’11 settembre 1320 con cui l’allora priore generale Bonaventura trasferiva il monaco Niccolò di Arezzo presso San Zeno di Pisa, vista la sua straordinaria competenza in quella materia. Una competenza che doveva aver lasciato degli ottimi frutti all’interno della comunità monastica, se nel 1322 è documentata l’esistenza a Volterra di una scuola specializzata nella grammatica. La situazione di queste scuole entro i monasteri camaldolesi, allora ancora fluida e legata piuttosto alla presenza dei maestri all’interno dei cenobi, si normalizzò con il Capitolo generale di Faenza del 1338, allorché si riconobbe anche a livello istituzionale l’esistenza di questi insegnamenti e si cercò di disciplinarli con l’apertura entro alcuni monasteri (tra cui anche San Giusto) di apposite facoltà di grammatica, teologia e filosofia²⁶.
Che queste preoccupazioni fossero al centro dei provvedimenti del priore generale emerge se si ha la pazienza di sfogliarne gli atti: illuminante in tal senso risulta il primo trasferimento, databile al 28 dicembre 1355, con cui il monaco Bartolomeo di Anghiari veniva spostato «ex abundantia monachorum» da San Michele in Borgo in San Giusto, «volentes monasterii Sancti Iusti de Vulterris indigentie providere […] ubi vigere gramatichale studium consuevit»²⁷, e in cui si trovano esplicitate tanto la condizione di spopolamento in cui doveva trovarsi allora il cenobio volterrano quanto l’esistenza entro le sue mura di un insegnamento di grammatica. Questi trasferimenti per motivi di studio potevano tuttavia agire in entrambi i sensi, in entrata come pure in uscita. Fu ad esempio il caso della richiesta avanzata al priore generale il 26 ottobre 1362 da uno dei monaci di San Giusto, Nicola, perché gli fosse concessa licenza di trasferirsi ad Arezzo «in studio commorandi»²⁸. Ben più significativo ai fini della nostra analisi fu il provvedimento del 6 settembre 1364, allorché il priore generale scrisse a Leonardo, niente meno che «olim priori ecclesie Sancti Marci de Vulterris», concedendogli il permesso di trasferirsi o in San Salvatore della Berardenga o in San Vigilio di Siena affinché potesse continuare i suoi studi in diritto canonico, evidentemente non previsti nel curriculum di insegnamenti disponibili presso San Giusto²⁹.
I rapporti sin qui descritti tra la prioria e il monastero, incarnati in primo luogo nel vincolo di dipendenza istituzionale tra di loro e dalla partecipazione di San Marco alle vicissitudini di San Giusto, hanno già permesso di osservarne in controluce una sfera ulteriore, consistente nel legame con Camaldoli. San Giusto, nato inizialmente come cenobio benedettino, era poi passato nell’alveo del monachesimo camaldolese attorno al 1113³⁰: una data significativa, perché a quello stesso volgere di anni datava a Pisa, forse per l’intervento del nuovo vescovo Pietro, l’ingresso nell’Ordine di s. Romualdo dei monasteri di San Savino a Cerasiolo e San Michele in Borgo (di cui il presule prima dell’elezione era stato abate)³¹. San Marco, una volta divenuta una dipendenza del cenobio volterrano, era a tutti gli effetti entrata a fare parte anch’essa dell’Ordine.
I rapporti diretti con Camaldoli emergono in questo caso in due occasioni precise: per le questioni di carattere disciplinare e per le collette straordinarie bandite all’interno della Congregazione. Per quanto riguarda le prime, la documentazione camaldolese ci mostra la prioria coinvolta in un paio di episodi tra gli anni ‘60 e ‘70 del Trecento, probabilmente legati tra di loro e sintomatici di una frattura interna alla comunità monastica. Il 29 marzo 1367 infatti si era presentato al cospetto del priore generale tale monaco Simone, proveniente da Volterra e allontanatosi senza licenza dal suo monastero nella speranza di ottenere il trasferimento in un’altra sede: per queste ragioni era stato rispedito indietro e il priore generale aveva ammonito severamente l’abate di San Giusto, ingiungendogli di accogliere il fuggitivo che in precedenza «nec in tuo voluisti monasterio retinere nec in Sancto Marco eum recipi voluisti […]»³². Quello che è certo è che il ritorno in città di Simone finì per creare ulteriori problemi, di cui ci informa il provvedimento successivo, del 5 marzo 1372, con il quale il priore generale ne ordinava l’immediato allontanamento e l’incarcerazione presso il monastero di San Mamiliano dell’isola di Montecristo. La durezza di quel mandato si spiegava con le ruberie che il monaco avrebbe compiuto dopo il suo rientro ai danni delle chiese di San Giusto e San Marco e soprattutto con la gravissima usurpazione della pieve di Lajatico³³. Altrettanto indicativo sulla presenza di divisioni interne alla comunità di San Giusto e sulla difficoltà dell’abate di controllare la situazione è un provvedimento di pochi mesi dopo, datato 12 dicembre 1372. In quella occasione il priore generale Giovanni aveva infatti disposto il trasferimento nel monastero di San Frediano di Pisa del monaco Domenico di Firenze, colpevole di aver occupato senza autorizzazione proprio la chiesa di San Marco³⁴.
Risulta evidente alla luce di questi provvedimenti come nel volgere di quegli anni la prioria avesse finito per rappresentare la sede privilegiata in cui la comunità di San Giusto spediva quei monaci ritenuti più scomodi e, di conseguenza, anche un approdo sicuro per quelli disobbedienti e ambiziosi come nel caso di Simone e Domenico.
L’altro versante dei rapporti che unirono San Marco con Camaldoli è leggibile attraverso le contribuzioni a carattere fiscale bandite all’interno dell’Ordine: oltre all’estimo degli anni ’70 del Duecento, di cui si è parlato prima e che si rivela di estrema importanza per avere un’idea anche sommaria della consistenza del patrimonio della prioria, una fonte ulteriore, benché tarda e a due secoli di distanza dalla precedente, è rappresentata dalla colletta straordinaria che il 28 febbraio 1486 l’allora priore generale di Camaldoli, Pietro Delfino, impose a tutti i monasteri e chiese facenti parte della Congregazione per reperire i 3.000 fiorini necessari a pagare i creditori del monastero fiorentino di Santa Maria degli Angeli³⁵. Di particolare interesse è il modo in cui le cifre furono ripartite tra i vari cenobi e che rappresenta un utile indicatore sulla loro floridezza economica. Sotto questo aspetto la situazione di San Giusto e di San Marco e San Cipriano si rivela quanto mai variegata: se infatti alla badia fu chiesto un contributo di 60 fiorini (che, benché lontano dai 400 fiorini richiesti a Santa Maria delle Carceri di Padova, lo ponevano al quinto posto insieme con San Mattia di Murano all’interno di tutto l’Ordine e denotavano lo stato di floridezza del cenobio volterrano), le cifre richieste alle sue due dipendenze furono di gran lunga inferiori: 5 fiorini vennero ascritti a San Cipriano (tali da collocarlo alla fascia contributiva più bassa, al di sotto dei 10 fiorini), mentre il priorato di San Marco fu chiamato a contribuire con 16 fiorini. Si trattava in quest’ultimo caso di una cifra comunque di una certa importanza per quella che era la dipendenza di un monastero e che è possibile ascrivere a una fascia contributiva media (tra i 10 e i 50 fiorini), in cui si inserivano pure cenobi di lunga tradizione come San Michele in Borgo e San Zeno di Pisa (rispettivamente con 44 e 30 fiorini).
L’immagine che si ricava dai contributi richiesti agli enti volterrani si rivela pertanto utile, in quanto attestano uno status florido della prioria di San Marco e una buona disponibilità di denaro all’interno della Congregazione.