La disperazione civile durante la Grande Guerra

La guerra 1915-18, allo scopo di liberare Trento e Trieste, italiane dall’impero austro-ungarico e renderle all’Italia, e che costò 500.000 morti e migliaia di mutilati e di feriti, fu dichiarata il 24 maggio 1915. Il Papa di allora, Benedetto XV, non volle benedirla, forse perché l’Austria-Ungheria era troppo cattolica, ma la voce di quel pontefice non fu ascoltata.

Rammento quando il presidio del 22° reggimento fanteria di Volterra partì per il fronte, comandato dal nostro concittadino capitano Bargi. I soldati transitavano per le vie della città con un fiore rosso sulla bocca della canna del fucile, cantando con forzata allegria. Il povero capitano Bargi, però, dopo solo pochi mesi di fronte fu ferito gravemente, promosso maggiore con medaglia al valore, morì eroicamente, come si diceva allora, sul campo dell’onore.

Dopo poco tempo dallo scoppio della guerra, l’allora vescovo di Volterra, Emanuele Mignone, ritirò i seminaristi dal seminario di S. Andrea in vescovado, mettendo a disposizione il grande locale affinché fosse adibito a ospedale per feriti e ammalati di guerra che, per quei tempi, divenne un ospedale comodo e soddisfacente. E dopo qualche mese i feriti cominciarono ad arrivare.

Rammento, la sera, la lunga processione di lettighe a cavalli, a braccia, a spalla, dalle quali si udivano, di quando in quando, pietosi lamenti. All’ospedale di S. Andrea, però, dei più gravi, ne morirono tanti. Poi cominciarono ad arrivare anche i prigionieri austriaci che furono alloggiati nella famosa caserma dei Ponti. Poveretti, anche loro! Li portavano a lavorare, scortati dai soldati con la baionetta in canna, all’ospedale psichiatrico, ovverosia al manicomio, come si chiamava a quei tempi, dove era in costruzione il reparto Biffi e ove lavorarono da manovali e muratori fino al completamento dello stabile.

Cominciando ora a parlare della vita civile che si conduceva in quel triste e lungo periodo, da principio ben poco se ne risentì, ma poi, come avviene in tutte le guerre, cominciò la restrizione su tutto. Fu istituita la tessera con i rispettivi “tagliandi” per comprare lo scarso vitto giornaliero assegnato e, a poco a poco, la fame si fece inesorabilmente sentire. Il pane veniva confezionato con un po’ tutte le farine e, per di più, vi si trovavano sfatte patate lesse. E almeno ce ne fosse stato! Tre etti al giorno pro capite.

Una volta, io, affamato dalla mia età di adolescente, ricorsi alla bottega di alimentari Rossi, dove la mia famiglia si serviva, chiedendo un pezzetto di pane quasi piangendo, ma invano; infine, mossi a compassione, mi dissero: «Ti posso dare la razione di domani, ma mangi l’ovo in corpo alla gallina» ed io l’accettai lo stesso.

La carestia poi venne su tutte le cose necessarie alla vita. La miseria a quei tempi era molto superiore a quella dell’ultima guerra. Lavoro di alabastro ce n’era poco o punto, i sussidi che passava il Governo alle famiglie dei soldati richiamati e di leva erano insufficienti. Mio padre, con due figli al fronte, riceveva la bellezza di ben 5 lire al mese! Così vi furono dimostrazioni popolari, specialmente di donne che avevano il marito al fronte e che non potevano vivere con quel misero sussidio che passava loro il Governo, ma queste dimostrazioni venivano subito disperse dalla forza pubblica o dai soldati che, al suono di una trombetta, minacciavano di caricare la folla. Una di queste donne, certa Maria Leoncini, soprannominata “Tramontana”, che “capitanava” un gruppo di donne di scarso numero, progettò persino di andare in campanile a suonare una campana a tocchi, a raccolta, per fare accorrere più gente possibile, ma l’allora capo delle guardie comunali, Nuvolini, che la sentì, la dissuase minacciandola e il gruppo si disperse.

L’inverno del 1917, mentre ferveva la guerra, fu uno dei più terribili e rimase memorabile perché nevicò quasi sempre, con certi ghiacciati che perfino i fili aerei della luce elettrica si caricavano di ghiaccio e ogni tanto si scaricavano dando luogo a delle vere e proprie “ballonate” sulla gente che passava; il freddo aveva raggiunto anche i 10 gradi sotto zero. Il bello era che non si trovava nemmeno la brace, il carbone e la legna per riscaldarsi. Le stufe a legna, a quei tempi, pochi le avevano. La gente si rassegnava anche a bruciare qualche sedia o qualche mobile vecchio, pur di non morire di freddo. Alcuni si recavano in campagna per racimolare qualche fastelletto di legna, e rammento che una mattina una donna trascinava con una fune un mezzo tronco di olivo.

Un giorno si seppe che alla bottega di combustibile del Ninci, in via Ricciarelli, era arrivata della brace, però era molle e intinta. La gente non finì di saperlo che si formò una vera folla con corbelli, panieri, pezzuole da spesa, davanti a quella bottega e volevano invaderla. Il carbonaio, vista la mala parata, fu costretto a chiamare i carabinieri per respingere la folla e tenerla fuori. Per la verità anche gli agenti di custodia erano lì per prendere la brace per loro, perché i disgraziati detenuti, lassù nel Maschio, morivano di freddo.

Intanto il vitto per la popolazione si faceva sempre più ridotto e anche poco buono. Una volta ci fu una distribuzione di riso, tolto da sacchi ripescati in mare da un piroscafo affondato: era un riso brutto, nerastro, che, chissà perché, fece vomitare quasi tutti coloro che l’avevano mangiato. Quella piccola razione di olio che ci passavano era una vera porcheria; oltre tutto, aveva un odore quasi nauseante, tant’è vero che un certo Pasquinelli prese la boccettina dell’olio e si recò dal sindaco per farglielo sentire. Il sindaco, che era il marchese Incontri, gli rispose scherzando: «Che ti devo dire? Io ce l’ho buono». Il Pasquinelli gli diede uno schiaffo e il sindaco lo fece arrestare. Poi, ripensando alla frase sfuggitagli di bocca, andò dai carabinieri e lo fece uscire di prigione.

Come se tutto questo doloroso stato di cose non fosse bastato, intervenne pure una calamità più grossa e più grave: una malattia contagiosa chiamata popolarmente “la spagnola”, che portò al cimitero tanta gente, e l’allora manicomio fu, secondo il solito, decimato. Morivano giornalmente sette o otto ammalati, e l’amministrazione di quei tempi non aveva provveduto a fare un altro cimitero, come nell’ultima grande guerra, perciò i cadaveri venivano portati tutti al cimitero urbano, dove gli interratori lavoravano tutti i giorni con poco riposo, minacciando di dimettersi se non mandavano loro un aiuto, che non venne mai perché non lo trovarono.

I cadaveri di questi poveretti del manicomio, per mancanza di posti nei quadri regolari, vennero seppelliti tutti lungo i viali del campo sottostante al primo, l’uno accanto all’altro come le sardine, distinti ciascuno con un numero scolpito nel muro. Nessuna famiglia li ha mai ritirati. Morirono anche tanti prigionieri di guerra austriaci, ma questi furono collocati l’uno accanto all’altro nei così detti forni, con sul marmo nome, cognome ecc.

Intanto, sul fronte, era avvenuta la ritirata di Caporetto. Si era ai primi di ottobre 1918, e anche Volterra si riempì di profughi, quasi tutti veneti, alcuni dei quali si stabilirono definitivamente a Volterra. La situazione era veramente drammatica, anche perché quella povera gente non sapeva dove e come collocarla. Ma ormai c’era poco da fare “tombola” e, dopo tanta mortalità, tanta miseria, tanta penuria di tutto e tanti patimenti, finalmente il 4 novembre 1918 l’esercito italiano, con la grande eroica resistenza del Piave, vinse la guerra e venne l’armistizio. Ricordo quella sera del 4 novembre 1918. La gente sembrava impazzita dalla gioia, le campane suonavano a festa, le strade si riempirono di gente fra schiamazzi e “inviti a bere”. Dei ragazzini trascinavano un pupazzo, raffigurante l’imperatore d’Austria-Ungheria, Francesco Giuseppe, al lume di un mozzicone di torcia, gridando: «Si porta all’inferno Cecco Beppe!». Era un vero tripudio. Ma c’era anche tanta gente che, per quanto quel giorno fosse di gioia, purtroppo piangeva, ripensando al congiunto che, mentre tanti ritornavano alle proprie famiglie, non sarebbe più ritornato.

© La Spalletta, Mario Pazzagli
“Ricordi della Guerra 15-18”, in La Spalletta, 28 gennaio 1989, p. 27