Una delle pallottole che verso le 3.30 della notte tra il 23 ed il 24 ottobre 1896 stroncò l’esistenza al famoso brigante maremmano Domenico Tiburzi, idealizzato dai cantastorie come «Il re del Lamone», partì sicuramente dal moschetto maneggiato con mano ferma da un carabiniere volterrano Eugenio Pasquinucci.
Egli, in quella drammatica nottata, si trovava in pattuglia con il brigadiere Demetrio Giudici e con il commilitone Raffaele Collecchia. I tre costituivano il modesto organico della Stazione dell’Arma di Marsiliana. La casermetta si trovava al centro della ricca tenuta dei Principi Corsini, ma per i militari la vita era tutt’altro che facile; più che Stazione era un vero e proprio fortino avanzato in un territorio ancora da bonificare, paludoso, malarico, dove Tiburzi, Fioravanti ed i componenti della loro banda la facevano da padroni.
Lo scontro a fuoco, che si risolse con la morte di Tiburzi e la fuga del suo luogotenente Fioravanti, avvenne per caso. I Carabinieri stavano a notte fonda perlustrando le campagne alla ricerca di un gregge di pecore rubate. Notarono, giunti al podere «Le Forane», che, a quell’ora impossibile, c’era una luce accesa nella casa del contadino Nazzareno Franci. La cosa li mise in sospetto, e non a caso; infatti nel podere, ospiti del compiacente affittuario, si trovavano il Tiburzi ed il Fioravanti. Mangiando, bevendo (soprattutto il vecchio capobrigante) e raccontando le loro imprese agli attoniti villici, il tempo era passato senza che gli interessati se ne accorgessero. Quando la pattuglia dei Carabinieri avanzò verso il podere, i cani si misero ad abbaiare. Fioravanti (più giovane, più intelligente e non ubriaco), intuito il pericolo, si lanciò da una finestra del retrocasa e si mise in salvo nella folta macchia del Lamone.
Tiburzi, invece, anche sotto la spinta del molto vino ingurgitato, si gettò allo sbaraglio. Si affacciò sulla porta del podere e, intravedendo un’ombra, sparò; la scarica raggiunse il bersaglio costituito da un grosso orcio che andò in mille pezzi e fu la fine. La sua sagoma infatti si era proiettata contro la porta illuminata e la fiammata del suo fucile fece il resto; i tre Carabinieri spararono a colpo sicuro ed il Re del Lamone rotolò lungo la scala esterna del podere terminando sull’aia dove altri proiettili (Tiburzi impugnava ancora una pistola e cercava di usarla) posero fine alla sua «leggendaria» carriera.
Poi seguì tutta una cronaca particolare: il cadavere venne trasportato nel cimitero di Capalbio ove, secondo una macabra usanza da molto tempo adoperata nella lotta contro i briganti, fu drizzato in piedi, legato ad una colonna greco romana e fotografato con le armi in mano, da solo ed in mezzo a Carabinieri. Fu quindi la volta dell’autopsia, con prelievo di parti del cervello da mandare per studio al famoso medico Lombroso; infine la sepoltura, avvenuta, per tradizione, mezzo dentro e mezzo fuori del camposanto.
Il discorso sulla drammatica fine di Tiburzi mi ha portato lontano e non credo che su queste colonne sia il caso di insistervi, né di ricordare tutte le sue gesta, i suoi delitti, la sua personalità. Mio desiderio è infatti trattare la individualità di un altro uomo, del carabiniere Pasquinucci, che ha legato, con gli altri due colleghi dell’Arma, il suo nome all’uccisione del bandito.
Eugenio Pasquinucci, dunque: un uomo semplice, contadino-carabiniere-contadino, un uomo senza retorica alcuna. Se non fosse stato un caso fortuito, non lo avrei saputo. E’ andata così. Un giorno, tornando a casa dal quotidiano lavoro presso la Scuola Media «Persio Flacco» di Saline di cui ero Preside, ero in auto con il segretario, il concittadino rag. Giancarlo Pasquinucci. Parlavamo del più e del meno e, ad un certo punto, il discorso cadde sui briganti dell’Ottocento.
«Ma lo sa, mi disse il rag. Pasquinucci, che mio nonno è stato uno dei Carabinieri che hanno ammazzato Tiburzi?».
Ce n’era a sufficienza per farmi drizzare le orecchie anche se trent’anni di lavoro giornalistico mi hanno smaliziato per ogni situazione. Ma che uno di coloro i quali posero fine alla «onorata» (si fa per dire!) carriera del capobrigante maremmano fosse stato un volterrano e che nella nostra città ci fossero ancora figli, nuore e nipoti di lui, francamente mi giungeva nuova. E allora, un po’ con i documenti, un po’ con le testimonianze personali degli interessati, mi è stato possibile ricostruire la personalità del nostro Carabiniere.
Quando l’ho definito «volterrano», ho leggermente forzato il registro dell’anagrafe. Infatti egli nacque da una modesta famiglia di contadini della fattoria «La Striscia», in Comune di Montaione, proprio là dove a volte pochi metri separano il territorio fiorentino da quello di Volterra, il giorno di Capodanno 1872. Un po’ di scuola, tanto per saper leggere e scrivere come a quei tempi costumava, poi al lavoro nei campi, quindi, allo scoccare del diciottesimo anno, seguendo una tradizione familiare che investiva direttamente i primogeniti, indossò l’onorata divisa dell’Arma fedelissima.
La sorte lo inviò nelle disperse Stazioni della Maremma, là dove allora non c’era da dare informazioni ai turisti o regolare il traffico come oggi, ma dove bisognava dormire con il moschetto in mano (quando si dormiva) o, più spesso, camminare per chilometri e chilometri, in mezzo alle paludi ed alla macchia fittissima, sempre in allarme ad ogni frusciar di foglia, nel caldo afoso dell’estate carica di zanzare malariche e nell’inverno umido e piovoso, con il rischio che le doppiette dei briganti sparassero per prime.
Quella famosa notte Tiburzi sparò appunto per primo; ma il vino gli giocò un brutto scherzo e scambiò un orcio per un carabiniere. Il moschetto del Pasquinucci tirò invece a botta sicura e fece centro. L’uccisione del Re del Lamone fece epoca e basta scorrere i giornali del tempo per rendersene conto. Ecco le foto ingiallite dei tre militari, lucerna, bandoliera, baffoni, moschetto in mano, da soli e con in mezzo il brigante legato alla fatidica colonna (questo reperto d’arte classica finito chissà come a Capalbio) al momento della decorazione al valore militare ad opera di un piumato colonnello.
L’operazione conclusasi con l’eliminazione di Tiburzi causò infatti in tutta Italia un’emozione oggi inconcepibile, alla luce soprattutto della drammatica condizione dell’ordine pubblico nella quale il nostro Paese purtroppo si trova. I tre Carabinieri del conflitto a fuoco al podere “Le Forane” furono decorati decorati con la medaglia d’argento. Ne riproduciamo l’originale nella foto che appare in queste pagine. Ecco il testo esatto:
«N. 1677 d’ordine – Ministero della Guerra – Segretariato Generale – S. M. il Re, in data 4 gennaio 1897 – Visto il Regio Viglietto 26 marzo 1833 – Vista la Legge del 31 dicembre 1848 – ha conferito la medaglia in argento al valor militare, con annessovi soprassoldo di L. cento annue al carabiniere della Legione Carabinieri Reali di Firenze Pasquinucci Eugenio, n. 199 di matricola – «per aver coadiuvato un suo superiore nel sorprendere due banditi impegnando coraggiosamente con essi sanguinoso conflitto». – Orbetello (Grosseto) 24 ottobre 1896 – Il Ministro, Segretario di Stato per gli affari della guerra, rilascia quindi al titolare il presente documento per attestare del conferitogli onorifico distintivo – Roma addì 11 febbraio 1897 – Il Ministro (firma illeggibile) ».
Ma non solo i riconoscimenti ufficiali furono dedicati al Pasquinucci ed ai suoi commilitoni. Il nipote ha in casa, oltre la medaglia e la motivazione suddette, anche un prezioso mosaico in vetro che, proprio per la sua conformazione, è stato impossibile riprodurre. Glielo inviarono gli operai di Venezia e suona così:
«All’esimio carabiniere Eugenio Pasquinucci che intrepidamente esplicossi affrontando impavido con altri coraggiosi compagni il famigerato briçiante Tiburzi, terrore delle campagne, meritando così in premio, con una dovuta gratificazione, l’argentea medaglia al valor militare – Il Nucleo Operaio Vetraio di Venezia dedica in omaggio, interprete della lode che la Patria ai valenti tributa – Novembre 1896».
Il corrusco episodio non mutò, dopo i plausi e le fanfare, la vita del carabiniere Pasquinucci, il 5 luglio 1903 si sposò con Ottavia Ribechini, una giovane contadina delle sue parti, dalla quale ebbe tre figli, Remo, Renzo e Alina. A cinquant’anni lasciò l’onorato servizio e ripiegò gli alamari in un cassetto. Contadino era nato e contadino tornò ad essere, varcando, il 9 marzo 1925, i pochi metri di terreno che lo separavano dal Comune di Volterra. Si sistemò in una casetta a Montebradoni, integrando la pensione (modesta come sempre; lo Stato non è mai largo con i suoi più fedeli servitori, pur se benemeriti e decorati, ma questo tutti lo sanno, anche i Carabinieri) ed il famoso soprassoldo di L. 100, con il lavoro in un appezzamento di terreno che aveva a Cozzano.
Ci andava tutti i giorni a piedi (e son chilometri), lavorava su quelle aspre e poco redditizie colline come il classico bue ed ugualmente a Montebradoni tornava a sera con il «cavai di San Francesco». Chi lo ha conosciuto in quell’epoca, me lo descrive come un uomo ancora in gamba, ben portante, un po’ burbero dietro i baffoni. Nel 1934 cambiò casa e si sistemò al podere «Lecceto» poco sotto il cimitero urbano e continuò sempre il suo duro lavoro, senza nulla chiedere, tutto dedito a tirar su la famiglia, combattendo con le intuibili difficoltà economiche del tempo, poiché le 100 lire del 1897 (una somma cospicua per l’epoca) non erano state certo rispettate dalla prima guerra mondiale, dalla crisi di Wall Street e da tutte le altre vicende che seguirono, anche se successivamente elevate prima a quota 200 e poi a 400.
Ogni tanto, per lo più in casa, poiché fuori aveva tempo solo per il lavoro ed era piuttosto riservato, rievocava la terribile notte maremmana. Da quando ho accertato (e credo di essere nel vero), i suoi racconti fanno giustizia d’ogni illazione in proposito, raccolte via via, tramite la voce popolare, da giornalisti e scrittori. Si è detto che i Carabinieri andarono a botta sicura a “Le Forane” per effetto di una compiacente soffiata di un informatore. Non è vero; la pattuglia vi si trovò per caso, cercava le pecore rubate e trovò il lupo della macchia. Si è detto che Tiburzi, rotolato ferito giù per le scale del podere, si sarebbe ucciso con la propria pistola onde non cadere vivo nelle mani della giustizia. Non è vero: morente, cercò di sparare ancora contro i Carabinieri che avanzavano e che non poterono non rispondere al fuoco, eliminandolo. Tutto qui: il resto è leggenda, spesso artefatta.
Eugenio Pasquinucci morì dopo una breve malattia (il suo forte fisico era ormai provato dall’età e dal lavoro, il 3 febbraio 1944, mentre l’ombra della guerra scellerata si era ormai addensata cupa su Volterra infatti era “sfollato” ad Ariano. Di fronte alle S.S. i ricordi di Tiburzi svanivano come fiaba, come un trascurabile episodio.
La moglie è vissuta molto più a lungo; è defunta infatti nell’aprile 1975, portandosi dietro i ricordi del suo carabiniere, al quale si è ricongiunta nel cimitero cittadino. Passata la bufera della guerra, visti i legittimi diritti di reversibilità, i familiari chiesero al Ministero (ora non più della Guerra ma della Difesa) la reputazione del famoso soprassoldo di Tiburzi.
Dopo la lunga lotta con la burocrazia imperante (ma Eugenio Pasquinucci non aveva esitato ad aprire il fuoco quando il dovere glielo aveva imposto!), furono stanziate per la vedova prima uno stralcio di L. 21.000 per il decennio 1944-54, poi circa 240.000 lire annue. Con la morte di Ottavia Ribechini, è scomparso così l’ultimo ricordo, tangibile, di Tiburzi. Lo Stato non ha più debiti! Me lo ha fatto tornare presente però il nipote: “Sa, mi dice, quando ero bimbo e finivo a letto con l’indigestione o l’influenza e mi agitavo perché non volevo rimanere sotto le lenzuola mia nonna mi faceva star buono, mettendomi in mano la foto di Tiburzi legato alla colonna!”
Potenza delle immagini e dei ricordi sui bambini! E chissà che Domenico Tiburzi dai campi elisi dove lo inviarono i Carabinieri dalla natia Maremma, non sorridesse dell’uso ingenuo fatto della sua truculenta immagine. Alla fine oggi che son passati molti anni, anche la sua figura sfuma nella leggenda e.di fronte alla fredda e assurda criminalità dei tempi nostri appare sugli abiti dimessi non del Re del Lamone, bensì di un povero contadino maremmano entrato in un giro più grande di lui con tutte le circostanze socio economiche del tempo a far da corona.
A proposito di fuorilegge toscani. Della pattuglia dei tre carabinieri che il 14 marzo 1871 uccise in conflitto a fuoco a Tegoleto (Arezzo) il famigerato bandito Federigo Bobini detto “Gnicche” assai più sanguinario e feroce di Tiburzi (“il brigante col coltello fatto a cricche” dicevano i cantastorie dell’epoca, tanto per far rima con “Gnicche”) appunto, faceva parte un altro milite volterrano, Antonio Banchelli.
Di lui non sono riuscito a trovare notizie precise in loco; se in città ci sono ancora i discendenti, mi farebbero cosa grata (e penso anche ai lettori) fornendo il materiale necessario per la rievocazione.