A metà strada circa tra Saline e Pomarance si trova il casolare di San Lorenzo, meta un tempo di allegre e chiassose scampagnate che finivano con abbondanti merende a base di salame e prosciutto, con altrettanto grandi bevute e con l’immancabile ballonzolo all’aria aperta.
Le comitive, specialmente la domenica perché allora il sabato si lavorava purtroppo tutto il giorno, partivano dal paese al suono di chitarre e mandolini e procedevano ridendo e cantando tra i sassi e la polvere della strada.
> Sommario, dal ricovero di mendicità alla chiusura del manicomio
Il primo casolare che si incontrava sulla sinistra era il podere detto di San Giovanni, colonia dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra che vi aveva allogato un certo numero di ammalati addetti ai lavori agricoli. Si trattava certamente di uno dei primi esperimenti di cura all’aria aperta delle malattie mentali. Questo esperimento deve avere avuto senz’altro un esito positivo sia per gli ammalati che per la popolazione locale in quanto mai si verificò il minimo incidente tra le due categorie di persone, anzi, tra di esse si instaurò addirittura una vera e propria corrente di simpatia.
Io ricordo molti degli ospiti del San Giovanni perché durante le mie gite campestri, li incontravo talvolta a zappare o a segare la messe sotto la guida paziente del bravo Egidio (uno degli infermieri) che li comprendeva e li aiutava senza mai rimproverarli.
Tra gli ospiti del San Giovanni c’era un certo Meini.
Immaginate un ometto anziano, piccolo e per di più già assai incurvato verso quella terra che di lì a poco non avrebbe mancato di inghiottirlo. Aveva labbra grosse, bavose e come tumefatte. Camminava ad angolo retto con le mani intrecciate dietro la schiena e teneva costantemente fissi al suolo un paio di occhi tristi e mansueti.
Al contrario di Bracco il quale coltivava, come abbiamo accennato, le nobili arti della scultura e della musica, il Meini si sentiva irresistibilmente attratto dalla medicina e dalla filosofia. Egli era insomma, senza minimamente sospettarto, un grande medico e un grande filosofo da annoverarsi tra i seguaci della antica scuola peripatetica.
Nella sua «dottrina», egli sosteneva che tutti i viventi, passati, presenti e futuri erano morti o sarebbero morti nientemeno che per mancanza di fiato. In sostanza, diceva lui, non vi sono né mali, né malattie di sorta, ma è solo la mancanza di fiato che provoca, la morte degli uomini e delle donne i quali, se fossero stati sempre provvisti di fiato, non sarebbero mai morti ed avrebbero quindi realizzato il loro antico sogno d’immortalità.
Perciò, nell’intento di divulgare questa sua dottrina, il Meini aveva adottato una specie di predicazione che si compendiava nella sua celebre frase: Tutti morti ammazzati col fiato!
Quando il Meini si avvicinava al paese per i soliti modesti acquisti di giornali, di sigarette ecc., si sentiva da lontano la sua voce stentorea che gridava la solita ossessionante frase: Tutti morti ammazzati col fiato!.
Ai primi accenni della sua voce i paesani si facevano sulla strada o sulle porte delle case per accoglierlo festosamente e preparavano intanto i mozziconi di sigarette o di sigari.
Il Meini avanzava curvo, senza degnare di uno sguardo i suoi ammiratori ma sornionamente intento a raccogliere i piccoli doni che gli venivano offerti. E non si stancava di sgranare la sua monotona teoria: Tutti morti ammazzati col fiato; carabinieri, guardie di finanza, guardie di pubblica sicurezza, soldati, caporali, sergenti, marescialli, ufficiali, generali, tutti morti ammazzati col fiato!
Recitando le sue filippiche, il Meini non pensava nemmeno un momento di fermarsi per riprendere fiato e tirava diritto per la sua strada. Se però accennava a riposare la lingua che talora tendeva ad impastarsi e a perdere la consueta scioltezza per il grande uso che ne aveva fatto, subito dal pubblico, partiva una voce di incitamento: – O Meini, o allora?
E il Meini non si faceva pregare: – Tutti morti ammazzati col fiato, i frati, le monache, i preti, le suore dell’ospedale di Volterra, tutti morti ammazzati col fiato!
Se il raccolto di cicche era abbondante, il Meini si comportava come il suo amico Bracco ed ammoniva agli ascoltatori una razione supplementare: – commercianti, bottegai, barbieri, vetturini, muratori, falegnami, stagnini, maniscalchì, tutti morti ammazzati col fiato!
Se invece i frutti erano scarsi, chiudeva ostinatamente la bocca e bisognava pregarlo e ripregarlo affinché riprendesse la filastrocca. E talvolta la riprendeva ma, certamente a titolo di punizione per l’esiguo raccolto, finiva con l’includere tutti i presenti nell’ultimo suo elenco: – Tutti morti ammazzati col fiato, gli operai, le operaie, i capocci, sorveglianti, gli impiegati, l’ingegnere, il direttore della Salina di Volterra, tutti morti ammazzati col fiato!
Povero, caro Meini! lo non so come e quando anche a lui venne a mancare il fiato e se in quell’attimo estremo abbia potuto fare qualche cosa per procurarselo, ma ricordo come fosse ora a sua voce monotona scandire con somma sicurezza le infinite categorie di coloro che già erano morti o che sarebbero morti per mancanza di fiato.