Fabrizio Maramaldo, venuto a sapere della partenza di Francesco Ferrucci da Volterra per attaccare la Firenze imperiale, si diresse verso Pisa per intercettarlo. Scoprendo che Ferrucci era già arrivato a Pisa, Maramaldo attraversò l’Arno e si accampò a Pescia. Ferrucci, rimasto a Pisa per alcuni giorni, preparò un’avanzata verso Firenze con 3000 fanti, 300 cavalli e quattro tromboni di fuoco. Durante il viaggio saccheggiò bestiame e giunse a Gavinana, dove le forze imperiali si preparavano a bloccarlo.
Il 3 agosto, il Principe d’Orange guidò personalmente l’attacco imperiale contro Ferrucci nella Battaglia di Gavinana. Maramaldo e i suoi alleati, attaccando da più lati, cambiarono le sorti dello scontro. Le bande bianche del Ferrucci furono sopraffatte e si ritirarono, subendo gravi perdite. Ferrucci e Giò Paolo da Ceri furono catturati e Ferrucci fu brutalmente ucciso da Maramaldo. La battaglia durò sette ore e si concluse con la morte del Principe d’Orange e numerosi prigionieri e saccheggi.
La politica del Ferrucci a Volterra passò in mano ai suoi sottoposti, che dovettero affrontare anche il problema della peste.
> Sommario, Gli effetti della guerra di Firenze
Nell’estate del 1530, Volterra affrontò una crisi grave e complessa che combinava una carenza di beni essenziali e l’emergere di una epidemia devastante. La città toscana stava già lottando con problemi economici e logistici che compromettevano la sua capacità di garantire un rifornimento regolare di cibo e risorse vitali. Già Ferrucci, il comandante incaricato della difesa di Volterra contro l’assedio imperiale, si trovò a gestire non solo le difficoltà militari ma anche una crescente crisi interna. Il 4 luglio, per la prima volta dall’inizio della guerra, le campane di Volterra suonarono a lutto, segnalando una grave crisi di approvvigionamento. La causa principale fu la mancanza di manodopera per macinare il grano, poiché molti contadini erano occupati con la segatura. Questa situazione costrinse i cittadini a intervenire personalmente per macinare la farina necessaria alla comunità.
La crisi di approvvigionamento rappresentava una debolezza strategica per Volterra e forniva un punto di vulnerabilità che i nemici avrebbero potuto sfruttare per intensificare l’assedio. Non a caso Cornelio Inghirami fu arrestato e torturato con la corda dopo che fu trovata una lettera anonima in suo possesso, nella quale si faceva riferimento ai problemi di approvvigionamento della città. Accusato di tradimento da Ferrucci, Inghirami fu condannato a morte per impiccagione. Fortuna volle che grazie alla solidarietà della comunità, che raccolse 200 scudi per pagare il riscatto, Inghirami riuscì a salvarsi e a ottenere la sua liberazione.
La situazione si aggravò ulteriormente il 12 luglio, quando iniziarono a circolare preoccupazioni circa una possibile epidemia di peste. I timori si concretizzarono il 22 luglio, quando l’epidemia fu confermata e cominciò a diffondersi rapidamente sia nella città che nella cittadella.
Dopo la morte del Ferrucci, Volterra rimase sotto il comando dei commissari Gio Batista Gondi e Marco Strozzi, che introdussero alcune restrizioni per il contenimento della peste che ormai imperversava e per il mantenimento delle truppe in città. Dunque i Volterrani non potevano uscire senza autorizzazione e dovevano consegnare tutte le armi da fuoco al Palazzo. Chi ne era disposto doveva portare anche grano e sale alle autorità.
Per prevenire la diffusione della peste, i commissari stabilirono che i soldati dovessero essere alloggiati nei conventi e in altre strutture dedicate, anziché nelle case dei Volterrani. I residenti che avevano ospitato i soldati erano ora obbligati a fornire loro materassi e lenzuola, mentre i soldati potevano tornare a casa solo per i pasti principali. Per limitare ulteriormente il rischio di contagio, i commissari introdussero una tassa obbligatoria per i cittadini, destinata a garantire il vitto dei soldati al di fuori delle loro abitazioni: 4 soldi per i capitani, 14 per i sergenti e luogotenenti, e 7 per i fanti. Inoltre, furono nominati uomini locali, come i membri della Misericordia di Volterra, per gestire la crisi sanitaria, compito che includeva l’isolamento delle famiglie infette e la sepoltura dei morti.
Per sostenere invece il servizio dei soldati, i commissari esercitarono forti pressioni sui cittadini e sul clero per raccogliere denaro. Un esempio significativo fu la richiesta della testa d’argento di San Vettore come pagamento, minacciando di danneggiarla se non fosse stata pagata una somma di 16 scudi. Alcuni preti, per evitare il furto della reliquia, pagarono la somma richiesta. L’argento e l’oro raccolti vennero utilizzati per battere nuove monete, sfruttando tutte le risorse disponibili, inclusa la vendita forzata di proprietà confiscate.
Le truppe, temendo di non ricevere il pagamento, minacciavano quotidianamente di abbandonare il loro servizio, specialmente durante l’epidemia di peste che affliggeva la città. Per fronteggiare questa situazione e ottenere denaro, furono messe in atto alcune pratiche ingannevoli ed estorsive.
Una di queste era la tecnica del mercante. Un mercante, munito di un salvacondotto dei commissari, arrivava a Volterra per commerciare con i soldati, accumulando rapidamente una notevole somma di scudi. Una volta che il mercante lasciava la città, i soldati si organizzavano per derubarlo, recuperando così il denaro per usarlo in altri scopi. Un’altra pratica era la condanna all’impiccagione per disobbedienza. Spesso, i familiari e gli amici del condannato erano costretti a pagare una cospicua somma di scudi per evitare l’esecuzione; gli scudi così ottenuti venivano poi spesi per il mantenimento delle bande. Per non parlare dei numerosi abusi fatti nelle case per costringere spesso i padroni ad abbandonare le loro proprietà per evitare danni maggiori.
Le forniture alimentari a Volterra erano scarse e i prezzi erano elevati, con alcune merci che aumentavano notevolmente a causa della presenza militare. Questa situazione portava spesso i soldati a rubare e a intimidire la popolazione locale. In un occasione i commissari inviarono tre bande fuori da Volterra per saccheggiare le campagne circostanti, causando danni significativi nelle aree limitrofe come San Gimignano e Pisa. Queste bande, guidate dai capitani Conte Ghelardo, Gualtierotto e Moretto fiorentino, perpetrarono saccheggi e ruberie in varie città.
Il 13 agosto, i soldati di Niccolò Strozzi, malati di peste, chiesero di essere pagati e si ammutinarono al palazzo dei commissari. La situazione divenne tesa e ci furono scontri tra soldati e commissari, con alcuni tentativi di saccheggio respinti. La banda di Niccolò Strozzi subì perdite e molti dei suoi uomini fuggirono, mentre altri furono incorporati in altre compagnie.
Il 20 agosto 1530 segnò una svolta cruciale nella situazione politica di Volterra con l’ingresso delle truppe dei Medici a Firenze. Sebbene Volterra avesse storicamente resistito alla sottomissione, esisteva un patto che prevedeva la cooperazione con la Repubblica di Firenze, indipendentemente da chi fosse al comando. Fino a quel momento, Volterra aveva collaborato con una Repubblica anti-imperiale, ma con l’ascesa dei Medici, la città dovette allinearsi con la nuova fazione al potere.
Nonostante l’eroica resistenza di Ferrucci, Volterra cambiò schieramento, passando dai colori bianchi della Repubblica anti-imperiale a quelli rossi dell’Imperatore, del Papa e dei Medici. Questo cambiamento comportò dapprima la liberazione di alcuni prigionieri fiorentini detenuti nella rocca di Volterra, poi al cambio di commissario, con la venuta del fiorentino Giovanni Vettori. Con l’influenza dei Medici in aumento e il timore di rappresaglie da parte dei soldati del Maramaldo, la popolazione locale iniziò a richiedere il permesso di lasciare la città. Una tale decisione portò a una significativa emigrazione di abitanti e alla partenza di numerose bande di soldati. Solo il capitano Sandrino Strozzi e pochi soldati rimasero in città, ma l’8 settembre, con la peste che continuava a mietere vittime e la situazione complessiva diventata insostenibile, decisero pure loro di lasciare definitivamente Volterra.
Il commissario, desiderando ripristinare l’ordine e la normalità nella città, emise un bando che richiamava tutti i volterrani esiliati, ribelli e altre persone condannate per le loro azioni durante la guerra passata, a tornare a Volterra e contribuire al ristabilimento delle istituzioni e delle norme consuete. Così accadde, ma a causa del persistere della peste, pochi di loro trovarono alloggio nella città stessa, rimanendo fuori dalle mura. La peste a Volterra raggiunse proporzioni devastanti, tanto che in tutta la città non c’erano più di quattro case che potessero dirsi sicure, cioè dove non fossero presenti né malati né morti di peste. Una situazione terribile e orrenda che morivano più donne e bambini rispetto agli uomini adulti. Anche tra i forestieri rifugiatisi in città, molti morirono perché impossibilitati a ritornare nelle loro case. La fame aggravò ulteriormente la situazione, poiché anche quelli che erano fuggiti per le campagne morivano di malattia, contribuendo a diffondere il contagio in tutto il contado.
La cura per gli ammalati era diventata quasi impossibile: non c’era nessuno che potesse assistere, poiché tutti erano infetti o troppo spaventati per avvicinarsi. Anche gli ufficiali della città erano colpiti dalla peste, rendendo la situazione ancora più disperata. Per esempio il 28 agosto, con il permesso e l’approvazione del commissario, i volterrani tennero un consiglio, ma per garantire che questo si svolgesse in sicurezza, fu designato un rappresentante per ogni casa dei partecipanti, per un totale di 54 persone, che si riunirono in Sant’Agostino, dato che il Palazzo era considerato infetto dalla peste. Durante questo consiglio, i priori e gli altri funzionari presero decisioni importanti, tra cui la riduzione del numero di priori da otto a due, incaricati di gestire le funzioni amministrative nel Palazzo. Successivamente, questa disposizione venne modificata, aumentando nuovamente il numero di priori a sei, una volta cessata l’emergenza dovuta alla peste.
Questa epidemia continuò fino alla primavera del 1932, quando finalmente i pochi superstiti che erano rimasti in città decisero di tentare di riprendere la loro vita quotidiana.