Nel Cinquecento, la nobile Casa de’ Medici regnava incontrastata sui tetti rossi e le piazze lastricate di Firenze. La loro influenza, tessuta con l’arte dei grandi maestri e la politica sagace, faceva brillare la città come un gioiello. Ma nel 1527, mentre Firenze viveva nella prosperità rinascimentale, l’imperatore Carlo V troneggiava su un vasto impero che abbracciava terre e mari, dai venti selvaggi dell’Atlantico alle foreste inesplorate dell’America. Era un uomo intento a forgiare un impero forte e coeso, ma anche a mantenere l’ordine in un mosaico di culture e interessi.
Fu in quel turbolento anno che un evento scosse le fondamenta dell’Europa: il Sacco di Roma. Le armate imperiali, in un ruggito di fuoco e ferro, irruppero tra le antiche mura della Città Eterna, sconvolgendo per un attimo l’equilibrio millenario della Chiesa. Papa Clemente VII, conosciuto ai tempi come Giulio de’ Medici, fu fatto prigioniero nel tumulto, gettando la cristianità in una crisi profonda e segnando una incertezza politica in Italia.
Lontano dal clamore di Roma, a Firenze, le campane delle chiese rintoccarono a distesa, mentre i fiorentini si trovavano di fronte a un’opportunità senza precedenti. La cattività di Giulio de’ Medici, offriva loro la possibilità di rompere le catene di un dominio familiare che per troppo tempo aveva pesato sulle loro spalle. Le strade animate da mercanti e artisti iniziarono a risuonare di sussurri di libertà e così giorno dopo giorno il popolo di Firenze si ribellò per instaurare una nuova Repubblica.
Nel contesto del crescente malcontento popolare, i Medici furono costretti a lasciare il governo di Firenze. Ippolito e Alessandro de’ Medici, giovani nipoti di Clemente VII, dovettero ritirarsi, aprendo le porte al controllo diretto del popolo fiorentino. Molti cittadini influenti, strettamente legati alla famiglia Medici, decisero di abbandonare la città, alcuni per scelta propria, altri per timore di ritorsioni.
Questi mutamenti politici ebbero un impatto significativo anche al di là delle mura di Firenze, influenzando il destino di città vicine come Volterra. In seguito ai cambiamenti avvenuti a Firenze, Volterra subì anch’essa una trasformazione amministrativa importante. La città perse il controllo delle zone rurali circostanti, che furono invece trasferite al Comune delle Pomarance. Questa decisione contravveniva al lascito del 1513 con cui i Medici avevano assegnato a Volterra quei territori. La nuova disposizione è confermata nei documenti d’archivio pubblico, dove si registra che il titolo di “podestà di Volterra” fu sostituito con quello di “Vicario di Val di Cecina”.
Dopo la fuga dei Medici da Firenze nel 1527, la famiglia si trovò in una fase di inattività forzata, mentre l’Italia e l’Europa erano travagliate dai conflitti e dalle alleanze mutevoli. Nonostante il confronto con l’imperatore Carlo V, papa Clemente VII si trovò nella difficile situazione di dover mantenere almeno un certo grado di influenza per i Medici a Firenze, oltre a consolidare la sua posizione di capo della Chiesa.
La svolta arrivò nel 1529 con il Trattato di Barcellona, dove Clemente VII e Carlo V si riconciliarono ufficialmente. In cambio del sostegno imperiale e dell’incoronazione di Carlo V come imperatore, Clemente VII ottenne l’appoggio per restaurare i Medici al potere a Firenze. Con la pace raggiunta e l’alleanza consolidata, papa Clemente VII decise così di riprendere Firenze per conto della sua famiglia; riunendo i suoi nipoti e altri esuli medicei, organizzò una campagna militare per riconquistare la città.
Dunque le forze papali, sostenute dalle truppe imperiali, marciarono da Perugia attraverso Cortona e Arezzo, seguendo il corso della Val d’Arno. Questa avanzata militare mirava a ristabilire l’autorità di Clemente VII su diverse città e territori, che si piegarono alla sua volontà nel corso dell’estate. Anche se Arezzo in seguito proclamò la propria libertà, nel mese di ottobre, l’esercito papale si accampò alle porte di Firenze.
L’imperatore Carlo V, giunto in Italia per sostenere il papa, sbarcò a Genova e fece rotta verso Bologna, dove incontrò Clemente VII il 5 novembre. Durante questo storico incontro, il 24 febbraio, giorno di San Matteo, Carlo V fu solemnemente incoronato imperatore dal pontefice. Dopo la cerimonia, Carlo V fece ritorno a Bologna il 22 marzo per poi dirigere verso la Spagna, ma lasciò un robusto contingente militare per proteggere il papa nelle vicinanze di Firenze. Clemente VII, lasciando Bologna il 30 marzo, si diresse verso Santa Maria di Loreto prima di fare ritorno a Roma.
Sotto l’assedio combinato delle truppe imperiali e papali, la Repubblica di Firenze oppose una resistenza tenace, schierando soldati, artiglierie e rinforzando le sue fortificazioni per difendere la città. Tuttavia, le forze esterne, determinate a ristabilire il controllo mediceo, inviarono diversi colonnelli di fanteria in tutta la regione fiorentina, ottenendo il controllo di gran parte del territorio senza dover ingaggiare grandi battaglie.
Nonostante la pressione, alcune città come Volterra, Pisa ed Empoli rifiutarono di arrendersi facilmente alle forze medicee. I Volterrani, pur dichiarandosi indipendenti, decisero di confermare alla Repubblica di Firenze, mediante ambasciatori, la loro lealtà e offrire supporto al governo cittadino, mantenendo così una tradizione di cooperazione con i governanti fiorentini.
L’effetto di questa vittoria schiacciante fu significativo: i Medici decisero di prendere numerosi ostaggi dalle principali città della regione, tra cui Pisa, Pistoia, Arezzo e Borgo San Sepolcro, portandoli a Firenze. Volterra, con la sua posizione naturalmente protetta, divenne un rifugio sicuro per molti fuggiaschi dalla Repubblica di Firenze, uomini e donne che non volevano avere nulla a che fare con i Medici e le truppe imperiali.
Si stima che più di mille novecento persone straniere si rifugiarono a Volterra, molte delle quali non essenziali per la difesa della città. Affrontando la responsabilità crescente di ospitare e sostenere un così grande numero di rifugiati, i Volterrani si organizzarono rapidamente. Approfittando di un anno di abbondanti raccolti dopo due anni di carestia, la comunità si unì per raccogliere provviste e beni dalle campagne circostanti. Questo sforzo non solo dimostrò la solidarietà della città, ma garantì anche che i rifugiati avessero il necessario per sopravvivere durante quel periodo difficile.
Il capitano e Commissario Niccolò de’ Nobili guidava le operazioni militari e logistiche, rispettato per la sua integrità e amato dai Volterrani. Sotto il suo comando, i cittadini potenziarono le difese della città, preparandosi a fronteggiare le incertezze di un periodo tumultuoso e instabile.
Nel consiglio comunale, furono nominati “i Quattro della Guerra” per sovrintendere alla sicurezza di Volterra: Ser Agostino Balconcini, Agnolo Marchi, Francesco Del Bava e Gabriello Del Bava. Questi uomini, con il loro impegno e la loro esperienza, assicurarono che Volterra fosse pronta a difendersi da qualsiasi minaccia esterna, dimostrando la determinazione della città nel proteggere i suoi abitanti e i suoi ospiti.
Con il permesso e il sostegno del capitano Niccolò de’ Nobili, il popolo di Volterra si armò e si organizzò per difendere la propria città. Fu deciso di nominare quattro capitani, ognuno responsabile di una contrada specifica all’interno delle mura. Questi capitani avrebbero coordinato le difese locali e la mobilitazione dei cittadini. I nomi dei capitani scelti furono Giovanni Marchi, Giuliano Del Bava, Bartolomeo Fei e Coppo de’ Rossi. Tuttavia, quest’ultimo, a causa di una malattia, dovette essere sostituito da Zaccharia Contugi.
La gioventù di Volterra venne arruolata e organizzata in compagnie, ciascuna con il proprio vessillo e composta da circa 100 uomini. Queste compagnie furono istruite e preparate per difendere la città, seguendo le direttive dei loro rispettivi capitani. In aggiunta alle forze locali, Volterra costituì una compagnia di circa 100 uomini provenienti da altre regioni, finanziata dalla comunità stessa. Questa compagnia era guidata da Giulio Graziani del Borgo a San Sepolcro, inviato dai “Dieci di Balia”, un organo governativo della Repubblica di Firenze responsabile delle decisioni militari e diplomatiche.
Ogni sera, uno dei capitani era incaricato di coordinare la guardia nella piazza e lungo le mura cittadine. Le guardie vigilavano attentamente, attrezzate con tamburi, bandiere e armi, pronte a segnalare e affrontare qualsiasi minaccia per la sicurezza di Volterra. Le procedure rigorose assicuravano che ogni allarme fosse gestito con precisione e rapidità, mantenendo la città in stato di allerta costante. Intorno a Volterra, erano numerose le sentinelle a vigilare, sia giorno che di notte, garantendo una sorveglianza continua.
Nel frattempo, a Firenze, Alduardo Viggiosi operava come ambasciatore permanente per Volterra. Il suo ruolo rivestiva un’importanza cruciale: Viggiosi riceveva aggiornamenti giornalieri sugli sviluppi e gli eventi che avevano luogo a Volterra e li trasmetteva ai “SS. Dieci”, il consiglio di guerra fiorentino. In questo modo, Viggiosi rappresentava gli interessi della comunità volterrana presso le autorità fiorentine, assicurando che le necessità e le emergenze della città fossero prontamente comunicate e affrontate.
Non troppo lontano da Volterra, il Duca di Malfi, comandante della spedizione imperiale nella Valdelsa, avanzò con una considerevole forza militare, conquistando Poggio Imperiale. In questo luogo si trovava il Commissario Giovan Covoni, rappresentante della Repubblica di Firenze anti-imperiale, con quattro bande militari. Tuttavia, vista l’aggressività degli assedianti, Covoni decise prudentemente di ritirarsi senza ingaggiare battaglia, dirigendosi verso Colle di Val d’Elsa.
A fianco del Duca di Malfi c’era Ieronimo da Piombino, accompagnato da circa 80 cavalieri. Ieronimo attraversò la Serra, a confine tra Volterra e San Gimignano, e raggiunse Castelfalfi, dove fece prigionieri alcuni abitanti. Essendo, come già ricordato, parte imperiale, quella stessa sera, giunse a Villamagna con l’intento di catturare Monsignor Mario Maffei, Vescovo di Caviglione, noto per risiedere abitualmente nella sua tenuta a San Donnino. Tuttavia, avvertito del pericolo imminente, il Vescovo si era rifugiato a Volterra, alchè non gli restò altro che saccheggiare San Donnino, catturando alcuni lavoratori locali. Rimase lì durante la notte e, al mattino seguente, si ritirò lungo la stessa strada da cui era arrivato.
Una volta ricevuta la notizia del ritiro delle forze di Ieronimo da Piombino, i Volterrani decisero di agire prontamente. Mobilitarono circa 40 cavalieri e 100 soldati armati di archibugi e altre armi, con l’intenzione di intercettare le truppe nemiche. Il loro obiettivo era di fermare Ieronimo e le sue truppe, dirigendosi verso Castellaccia. Tuttavia, quando arrivarono sul luogo, trovarono che le forze avverse si erano già raggruppate in un’area pianeggiante vicino a Pignano, verso Monte Miccioli. Riconoscendo che un confronto diretto non offriva vantaggi strategici, i Volterrani decisero prudentemente di ritirarsi.
Nel frattempo, le truppe di Ieronimo si spostarono lentamente verso Casole, portando con sé i prigionieri catturati durante il saccheggio di San Donnino.
La presenza imminente di Ieronimo da Piombino nei pressi di Colle di Val d’Elsa costrinse nuovamente Giovan Covoni a riconsiderare la sua posizione. Covoni decise di abbandonare la località e ritirarsi con le sue bande verso San Gimignano. Tuttavia, temendo di essere circondato e intrappolato anche lì, il 19 ottobre prese la decisione di trasferirsi a Volterra con circa 500 uomini.
Dopo l’arrivo del Commissario Giovan Covoni e delle sue truppe a Volterra, il Duca di Malfi inviò un trombettiere per chiedere la resa della città. La risposta dei Volterrani fu risoluta e decisa: se il Duca voleva la città, avrebbe dovuto conquistarla con la forza, poiché non avrebbero accettato un cambio di signoria senza opporsi. La città dimostrò una ferma determinazione, pronta a difendere la propria autonomia e indipendenza. Di fronte a tale risposta e alla percezione della forte resistenza di Volterra, il Duca di Malfi riconobbe la difficoltà di un attacco diretto e decise saggiamente di non procedere con un’azione militare immediata per conquistarla.
Nonostante il combattimento diretto fosse stato evitato, la minaccia rimaneva comunque significativa. La presenza di un contingente anti-imperiale non favorevole ai Medici in città avrebbe sicuramente destabilizzato gli equilibri delle alleanze stipulate. Per questa ragione, i Volterrani dedicarono grandi sforzi al potenziamento delle loro fortificazioni, preparando la città a un possibile assedio imminente. Le mura cittadine furono rafforzate: i merli furono migliorati per consentire il tiro contro il nemico senza esporsi e il terreno alla base delle mura fu scavato per prevenire eventuali tentativi di minare le difese. In aggiunta, iniziarono la costruzione di due bastioni principali: uno di fronte alla Porta di Sant’Angelo e l’altro di fronte alla Porta di San Francesco. Questi progetti furono coordinati dai giovani volontari di Volterra, che si alternavano giornalmente per scavare, trasportare materiali e completare altre attività necessarie per la protezione della città. Anche i borghi circostanti furono fortificati con bastioni e altre strutture difensive per garantire una linea di difesa estesa e robusta.
Poi, sempre in previsione di un lungo assedio, furono importate grandi quantità di legname, sia per uso pubblico che per il privato. Gli abitanti del contado, compresi i forestieri e alcuni residenti locali, iniziarono a spostare i loro beni al centro città, credendo che potesse essere il luogo più sicuro in caso di attacchi imminenti. Tuttavia, come vedremo, questa convinzione si rivelerà errata.
Inizialmente, i Volterrani mostrarono riluttanza nell’accogliere Giovan Covoni e le sue truppe, poiché metà di esse erano sbandate e considerate di dubbia affidabilità. Avrebbero preferito accogliere soltanto il Commissario, ritenuto più ragionevole, tuttavia, di fronte alla paura che Volterra potesse perdere la propria autonomia in caso di un potenziale attacco del Duca di Malfi, furono costretti ad accettare l’intero contingente di Covoni.
Per fare spazio alle truppe, le monache del Santa Chiara lasciarono i loro conventi e si trasferirono parzialmente nei conventi di San Lino e Sant’Almatio. Dopo essere stati temporaneamente alloggiati in due stanze fuori città, nei conventi di Sant’Andrea e San Gerolamo, i soldati forestieri manifestarono comunque il loro disappunto riguardo alle loro dimore. Dopo alcuni giorni, decisero di chiedere al Commissario di trovare loro alloggi più soddisfacenti. Nonostante qualche riluttanza iniziale, il popolo di Volterra alla fine acconsentì a trasferire i soldati nei borghi vicini alla città, cercando di non farli arrabbiare ulteriormente.
Dopo alcuni giorni di permanenza nei borghi circostanti, le quattro bande militari del Commissario Giovan Covoni iniziarono a comportarsi in modo sempre più problematico. Invece di mantenere una disciplina rigorosa, le bande cominciarono a creare disagi tra gli abitanti, suscitando preoccupazione e malcontento. I soldati insistettero con il Commissario affinché fossero trasferiti all’interno della città di Volterra stessa, chiedendo di essere sistemati nelle case dei cittadini.
Nonostante la contrarietà iniziale da parte del Commissario e la resistenza dei Volterrani, sotto la pressione delle bande e in linea con le richieste dei Dieci di Firenze, Covoni acconsentì a far entrare solo due delle bande nella città, assegnando loro aree specifiche. Questo compromesso, sebbene apparentemente concordato con il popolo, non soddisfaceva appieno i soldati imperiali, che desideravano una maggiore libertà e comodità nelle loro sistemazioni.
Il 5 novembre 1529, Giovan Covoni orchestrò un piano per consolidare il controllo delle sue truppe su Volterra. Con la complicità dei suoi capitani, Covoni mise in atto una rassegna delle bande militari nella piazza maggiore e una volta riunite, due delle bande sotto il comando di Covoni si diressero rapidamente verso la guardia dei Volterrani, posizionata nei pressi dei granai del Comune. In un attacco fulmineo, le truppe imperiali assaltarono la guardia, conquistando le armi e l’insegna cittadina e respingendo i difensori, che erano numericamente inferiori e non riuscirono a opporre una resistenza efficace.
Nel frattempo, le altre due bande si diressero verso il Palazzo dei Priori. Qui, senza incontrare resistenza significativa, occuparono il palazzo e sequestrarono l’artiglieria e le munizioni che erano custodite al suo interno. Dopo aver preso il controllo delle principali vie di accesso alla piazza principale, le truppe imperiali posizionarono strategicamente l’artiglieria catturata, composta da quattro cannoni di bronzo e tre di ferro forniti recentemente da Firenze.
I Volterrani, profondamente legati alla loro indipendenza, furono sorpresi dall’azione decisa del Commissario Giovan Covoni, specialmente perché i rapporti con le truppe della Repubblica di Firenze erano stati dichiarati pacifici, purché Volterra mostrasse complicità. Non vi era nulla da parte di Volterra che lasciasse presagire una mancanza di collaborazione. Tuttavia, di fronte alla grave perdita della piazza principale, della guardia cittadina e del Palazzo dei Priori, il popolo di Volterra dovette reagire prontamente e con determinazione.
Così i cittadini si armarono ed esposero le insegne volterrane. I giovani della città si schierarono sotto i loro vessilli, manifestando un forte senso di unità e determinazione difensiva. Al contempo, gli altri cittadini iniziarono a fortificare le proprie abitazioni, posizionando sassi alle finestre e preparando le armi disponibili per la difesa.
Le bande militari di contro tentarono di imporre il loro controllo sulle strade di Volterra, costringendo chiunque incontrassero a deporre le armi, sebbene non sempre con successo. In uno specifico episodio, alcuni soldati si avventurarono lungo via degli Incontri e cercarono di disarmare alcuni giovani volterrani, tuttavia furono aggrediti da sassi lanciati dalle finestre, costringendoli alla fuga.
Nonostante l’ingerenza delle bande, i Volterrani mostrarono maggiore determinazione e riuscirono a barricare le strade circostanti e a erigere fortificazioni per bloccare qualsiasi accesso ai soldati che si erano rifugiati nel Palazzo del Potestà, dove il Commissario Covoni si trovava con parte dell’artiglieria. Una volta riconquistata la piazza e il Palazzo dei Priori, tra le grida di “Marzocco, Marzocco!”, il Commissario Giovan Covoni chiese clemenza al popolo. Propose di permettere ai soldati di tornare alle loro stanze in sicurezza per evitare ulteriori violenze e garantire la pace.
Dopo intense discussioni, il popolo di Volterra accettò la proposta del Commissario, ponendo una condizione: tutto ciò che era stato rubato doveva essere restituito. I soldati, consapevoli della loro posizione precaria e temendo per la propria incolumità, acconsentirono. Sotto la scorta di Nicolò de’ Nobili, capitano della città, e accompagnati da altri cittadini fiorentini e volterrani, le quattro bande militari furono condotte fuori dalla città. Due bande uscirono dalla Porta di San Francesco e le altre due dalla Porta dell’Arco, ristabilendo così una temporanea tranquillità a Volterra.
Il Commissario Covoni rimase a palazzo e continuò a svolgere il suo ruolo.
I Quattro della Guerra, visto il sopruso del Covoni e la situazione critica della cittadella, informarono immediatamente i Dieci della Guerra a Firenze tramite lettere e ambasciatori, utilizzando diverse vie per assicurarsi che il messaggio arrivasse a destinazione. In risposta i Dieci della Guerra, ordinarono al Commissario di inviare due bande a Empoli, come già comunicato in precedenza, e di lasciare la decisione sull’impiego delle altre due bande ai Volterrani. Due bande ripresero la via per Volterra.
Quando la notizia della fuga dei soldati raggiunse Siena, alcuni cavalieri spagnoli approfittarono e si avventurarono nei dintorni di Volterra, saccheggiando ville, bestiame e bruciando pagliai. Il principe d’Oranges, commissario generale del campo imperiale intorno a Firenze, approfittò per chiedere a Volterra la resa della città. Offrì grandi vantaggi se i Volterrani si fossero sottomessi all’Imperatore e al Papa e dunque anche ai Medici, ma la risposta dei Volterrani fu chiara: la città non apparteneva a loro e la avrebbero difesa per chi governava Firenze.