Volterra, dopo aver respinto con successo le forze imperiali del Principe d’Oranges, si trovava in un delicato equilibrio di autonomia e fedeltà alla Repubblica di Firenze. Tuttavia, nel novembre del 1529, Giovan Covoni, commissario della Repubblica, decise di intervenire direttamente nella vita della città. Accompagnato dalle sue truppe, entrò a Volterra con l’intento di prendere il controllo della situazione. Questa ingerenza suscitò immediatamente la reazione dei cittadini, che, fieri della loro indipendenza, si opposero con determinazione.

> Sommario, Gli effetti della guerra di Firenze

Quando i Fiorentini vennero a conoscenza della resistenza dei Volterrani contro il Principe d’Orange, furono profondamente lieti e riconoscenti per la fedeltà dimostrata nei confronti della Repubblica di Firenze. Espressero anche il loro dispiacere per l’azione del Covoni, che considerarono un tradimento contro le loro intenzioni, dando ai Volterrani un motivo sufficiente per ribellarsi.

In risposta a queste circostanze, la Repubblica di Firenze e i Signori Dieci scrissero una lettera di lode e incoraggiamento ai Volterrani. Nella lettera, espressero la loro gratitudine per la lealtà dimostrata e li esortarono a perseverare nella loro fedeltà. Assicurarono inoltre che la loro lealtà sarebbe stata riconosciuta e premiata in qualche modo. In segno di buona volontà e per ristabilire l’ordine, inviarono un nuovo Commissario, Bartolo Tedaldi, con il compito di sostituire Covoni e di ripristinare la fiducia e la cooperazione tra Firenze e Volterra.

Bartolo Tedaldi arrivò a Volterra il 22 novembre 1529, accompagnato da due bande di soldati sotto il comando di Francesco Corso e Sandrino Monaldi. Per garantire la sicurezza del nuovo Commissario, furono inviate anche altre due bande e cinquanta cavalli.


SOTTO IL COMANDO DI TEDALDI

Bartolo Tedaldi era già conosciuto e rispettato dai Volterrani, avendo precedentemente ricoperto il ruolo di podestà. La sua nomina come nuovo Commissario suscitò grande sollievo e speranza tra gli abitanti della città, che lo accolsero con festa e gioia. La comunità volterrana, desiderosa di ristabilire un clima di fiducia e collaborazione con Firenze, si preparò ad accogliere Tedaldi e le truppe con entusiasmo, vedendo in lui un simbolo di rinnovata alleanza e stabilità.

Superate le scaramucce civili dei giorni precedenti, a Volterra si sperò che l’unico problema da affrontare, sebbene non fosse certo cosa da poco, fosse l’oppressione crescente dell’esercito imperiale. Dal Duca di Malfi al Principe d’Orange, le minacce si facevano sempre più pesanti mese dopo mese.

Per proteggere le risorse della città, in particolare il bestiame, furono adottate misure precauzionali: molte mandrie furono trasferite in località ritenute sicure come Siena, Lucca, Roma e Piombino. Alcune mandrie ritornavano a Volterra ogni sera, munite di salvacondotto per garantirne la libera circolazione e la sicurezza. Anche gli ecclesiastici presero precauzioni per la propria sicurezza: Monsignor Mario Maffei e Monsignor Luca Giovannini, vescovo di Anagni, trovarono rifugio a Lucca.

Nonostante i pericoli, nessun abitante abbandonò la città, dimostrando un forte attaccamento alla loro comunità. Coloro che si trovavano a Firenze all’inizio del conflitto fecero ritorno a Volterra, probabilmente per partecipare alla difesa della città e per mantenere la coesione sociale e la resistenza contro le forze imperiali.


LE MINACCE DI PIRRO

Non lontano da Volterra, Piero Colonna, noto anche come Pirro da Castel San Piero, intraprese nel nome dell’Impero una serie di saccheggi nel territorio di Pisa. Accompagnato dal suo colonnello di cavalleria, da archibugieri e da altri cavalleggeri spagnoli, Colonna devastò la regione senza incontrare resistenza significativa, conquistando Querceto e diversi altri castelli circostanti. Tuttavia, alcune città riuscirono a resistere ai suoi attacchi; tra queste, Ripomarance, Montecatini, Sant’Almatio, Castelnuovo, Monte Castelli, Monte Cerboli e il Sasso si distinsero per la loro difesa tenace. Le popolazioni di questi centri, nonostante la pressione delle forze imperiali, dimostrarono grande determinazione e capacità organizzativa, riuscendo a proteggere le proprie terre e respingere gli invasori.

l giorno seguente all’arrivo del nuovo Commissario Tedaldi, ignari della sua presenza, i soldati si diressero verso Volterra con l’intento di saccheggiarla, portando con sé numerosi cavalli e archibugieri. Giunti presso Cecina, nella zona conosciuta come “la Chiostra”, trattennero bestiame e cittadini in fuga.

Appena la notizia raggiunse Volterra, la popolazione si armò rapidamente e partì con i cavalieri e parte della fanteria per tentare di recuperare il bottino sottratto. Purtroppo, arrivarono troppo tardi: i predatori avevano già trasportato il bottino e i prigionieri a Querceto, per un valore complessivo stimato di oltre tremila scudi. Tra i prigionieri catturati vi erano Giovanni Del Bava, Lorenzino di Pietro Buonamici e un cavaliere straniero. Lorenzino e il cavaliere, entrambi esperti soldati, riuscirono a fuggire dopo aver perso cavalli, armi e sacche. Giovanni Del Bava invece rimase prigioniero fino al pagamento di un riscatto di 30 scudi.

Dopo lo scontro con i soldati di Pirro, che causò feriti da entrambe le parti, alcuni dei Volterrani e dei mercenari stranieri tornarono a Volterra, mentre altri, sotto la guida di Giuliano del Bava, si stabilirono a Montegemoli. Il loro intento era di attaccare Querceto il giorno successivo per recuperare il rimanente bottino.

Tuttavia, il Commissario e i notabili di Volterra, preoccupati per le possibili ripercussioni e valutando la situazione strategica, decisero di proibire ulteriori azioni offensive. Ritennero più prudente ritirarsi, evitando di esporre ulteriormente i loro uomini a rischi inutili.


IL PAGAMENTO DELLE BANDE

Il giorno successivo, i cavalleggeri e le due bande che avevano accompagnato il Commissario Bartolo Tedaldi si ritirarono verso Firenze portando con sé il deludente Commissario Giovan Covoni. Le altre due bande rimaste a Volterra presero posizione nei borghi, montando la guardia di notte insieme agli abitanti. Questa presenza militare, sebbene mirasse a garantire la sicurezza della città, comportò danni considerevoli alle case, con porte, finestre e altri elementi in legno danneggiati o bruciati.

La situazione era ulteriormente complicata dalle lettere che Tedaldi portava dai Dieci di Firenze, spiegando l’impossibilità di inviare denaro per pagare le bande di soldati a Volterra, a causa dell’insicurezza delle strade. Di conseguenza, la comunità locale si trovò nella necessità di trovare i fondi necessari per compensare i soldati, con la promessa di un rimborso futuro da parte delle autorità fiorentine.

Questo stato di cose generò un notevole malcontento tra gli abitanti, che oltre a dover affrontare i danni materiali provocati dalla presenza delle truppe, si trovarono anche a dover contribuire economicamente per sostenere i soldati. La situazione era particolarmente critica considerando che l’anno precedente la comunità aveva subito una grave carestia e un’epidemia di peste, per cui erano stati spesi centinaia di ducati per sostenere i poveri, mantenere i lazzaretti e prevenire la diffusione della malattia.

Con le risorse esaurite, Volterra decise di contrarre un prestito di mille ducati a interesse per poter pagare i soldati qui stazionati; tuttavia, trovare chi fosse disposto a prestare denaro in quei tempi difficili era un compito arduo. La situazione finanziaria della città era estremamente critica, tanto che la comunità si trovò costretta a impegnare praticamente tutti i proventi per sette anni.


UNO SGUARDO SUL CONTADO

I confini di Volterra erano perennemente sotto attacco e a creare disagio erano le frequenti incursioni dei cavalieri spagnoli, che saccheggiavano e rapinavano nelle zone circostanti come Villamagna, Peccioli e San Cipriano. E, badate bene, che non si poteva reagire un granchè: il Commissario non permetteva ai giovani volterrani di uscire, mentre i soldati pagati non mostravano interesse nelle azioni militari e il Commissario non li costringeva ad agire. Quando e se i soldati uscivano, talvolta si facevano vedere dal nemico ma evitavano lo scontro diretto.

I volterrani venivano più volte desistiti perchè, quando uscivano in azione, non mantenevano mai un’organizzazione né un comando efficace, spesso procedendo senza un ordine preciso. Anche coloro che possedevano le capacità necessarie non sempre riuscivano a esercitare un’autorità efficace. Di conseguenza, le azioni militari erano inefficaci e raramente venivano intraprese, anche perché la città soffriva di una carenza di uomini disponibili per sorvegliare le mura e non potevano spostarsi di molto. Questa situazione alimentava crescenti ansie e metteva la città costantemente in stato di allerta, sia all’interno che all’esterno delle mura difensive.

Nei dintorni, la situazione non era molto diversa. Il Comune di Montecatini, chiedeva continuamente soccorso ai Volterrani, che per una occasione propizia inviarono 30 archibugieri divisi in tre gruppi di dieci per difendere la loro città. Gigi de’ Rossi, un uomo esperto in guerra che si trovava a Volterra, fu incaricato della custodia del castello e dei soldati. Soccorrere le castella del contado era abituale per i Volterrani, che si impegnavano a sostenere le comunità adiacenti per quanto possibile. Ad esempio, quando il Sasso si trovò in pericolo a causa delle incursioni di Ieronimo da Piombino, i Volterrani mandarono circa 20 archibugieri stipendiati che riuscirono a respingere alcuni attacchi.

Ieronimo era comunque un capitano di difficile lettura; scorreva i paesi, negoziava accordi e capitolazioni con le castella, ma poi le saccheggiava e le derubava, prendendo prigionieri. Nei dintorni, aggravava la situazione anche Pirro, che, con una squadra di soldati spagnoli o un altro capitano di fanteria o cavalleria, arrivava e devastava nuovamente i paesi già colpiti, trattando ogni uomo come nemico, senza rispettare gli accordi precedenti. Non troppo lontano c’era anche Alessandro Vitelli. E a Empoli il rinomato Francesco Ferrucci.

La situazione a Volterra e nei dintorni era dunque estremamente caotica. Anche le castella che avevano capitolato e accettato la devozione del Papa e dell’Imperatore venivano costrette a negoziare nuovamente, subendo nuove imposizioni e balzelli, sia pubblici che privati. Nessun accordo o fede veniva rispettato, e tutti i comandanti si dedicavano a rubare e commettere ogni sorta di crimine solo per accumulare denaro e soddisfare i loro desideri. Di conseguenza, il dominio fiorentino fu rapidamente spogliato e rovinato.

I Volterrani si trovavano in una situazione di costante difesa, cercando di proteggere le loro terre e castella contro le incursioni di vari signori e capitani, che approfittavano della guerra per saccheggiare e devastare il contado. Nonostante la difficile situazione economica e militare, cercavano comunque di mantenere la loro fedeltà a Firenze e di supportare le comunità del contado con le limitate risorse a disposizione.


LA MINACCIA DEL VITELLI

Nel mese di gennaio, i Volterrani decisero di fortificare ulteriormente la città, iniziando con il rafforzamento del bastione presso Porta all’Arco e lo scavo di un fossato vicino a Porta San Francesco. Con risorse limitate, la città riuscì a equipaggiare sette vecchi moschetti, che vennero riparati e resi operativi per la difesa.

All’inizio di febbraio, precisamente l’8, Alessandro Vitelli arrivò a Volterra con il suo colonnello e tredici insegne di soldati esperti, tutti al servizio della Chiesa e dei Medici. Questi uomini, veterani di una serie di spedizioni che avevano riportato sotto il controllo dei Medici luoghi come Borgo a San Sepolcro, Anghiari, Monte Falciano e altre località, erano ben addestrati e disciplinati. Con Vitelli c’era anche Taddeo Guiducci, commissario ecclesiastico fiorentino.

Le truppe si accamparono nei pressi di San Gimignano, a Sanistagio, dove per diversi giorni compirono razzie nei pagliai delle ville circostanti, provocando gravi danni e aumentando il clima di insicurezza e tensione nella regione. Le scorribande dei soldati di Vitelli rappresentavano una nuova minaccia per Volterra e le comunità vicine, già provate da precedenti incursioni e devastazioni.

Una domenica mattina, mentre a Volterra si svolgeva una solenne processione, parte dei soldati di Vitelli raggiunse San Martino di Roncolla. Qui catturarono alcuni prigionieri e un gregge di bestiame che quel giorno era uscito da Volterra per pascolare. La notizia raggiunse rapidamente la città. Il popolo, abbandonata la processione, si armò e si precipitò fuori dalle mura. Alcuni cittadini coraggiosi raggiunsero i soldati nemici, e anche il Capitano Giulio Graziani con i suoi uomini si unirono alla battaglia.

Durante lo scontro, solo i volterrani combatterono con coraggio. Purtroppo, persero un contadino e due prigionieri, Benedetto Giovannini e Raffaello Guardavilla, mentre diversi altri furono feriti.

Eseguito lo spregio, i soldati nemici si ritirarono verso Sant’Almazio, portando con sé i prigionieri e il bestiame. Qui, attaccarono immediatamente la nuova postazione. I difensori del castello di Sant’Almazio opposero una strenua resistenza e la battaglia durò per ore. Ci furono numerose vittime da entrambe le parti, con molti feriti tra gli attaccanti. Tuttavia, i difensori, a corto di munizioni e polvere da sparo, furono infine costretti a capitolare e a sottomettersi al Papa e ai Medici. Dopo l’ingresso delle truppe, il castello fu quasi completamente saccheggiato.

La notizia del sacco di Sant’Almazio si diffuse rapidamente. I castelli circostanti, come Monte Castelli, Monte Cerboli, Castelnuovo e il Sasso, inviarono ambasciatori da Vitelli per trattare. Il comune di Pomarance, invece, tentò di resistere e chiese aiuto a Volterra, che rispose inviando 30 archibugieri e 30 libbre di salnitro. Tuttavia, Pomarance capitolò in tre giorni, così come Montecatini. Agostino Martelli venne insignito come Commissario di Pomarance e Taddeo Guiducci come Commissario di Montecatini.

La razzia continuò senza sosta; le truppe di Vitelli inflissero danni significativi a Monte Gemoli, quasi distruggendolo completamente per intimidire Volterra. Infine il 16 febbraio, Taddeo Guiducci inviò un trombettiere a Volterra con lettere indirizzate al Consiglio e agli uomini della guerra, esortandoli a sottomettersi ai Medici. Le lettere ricordavano i benefici ricevuti dalla famiglia Medici e minacciavano saccheggi, distruzioni e incendi se non si fossero piegati al loro volere. Lo stesso giorno, l’esercito si spostò da Monte Gemoli a Villamagna, continuando a bruciare e devastare il paese.

In risposta alle lettere di Taddeo Guiducci, il Consiglio di Volterra decise di guadagnare tempo per deliberare. Il trombettiere fu informato che le lettere sarebbero state discusse il giorno successivo. Quando il consiglio si riunì alle 17, la sessione si protrasse fino alle 22, poiché le opinioni erano molteplici e contrastanti. Alcuni consiglieri suggerirono di sottomettersi ai Medici per evitare la devastazione del territorio circostante, minacciata dall’invio di mille devastatori. Già una parte significativa del bestiame era stata persa, e il resto era in pericolo. Inoltre, si sapeva che un’altra colonna di soldati si stava dirigendo verso San Miniato con l’intento di attaccare Volterra. Nonostante la città avesse una buona forza difensiva, mancavano esperti militari e vi era discordia interna.

Altri consiglieri, tuttavia, temevano che sottomettersi ai Medici avrebbe portato a nuove divisioni interne e avrebbe prolungato la guerra, con ulteriori pericoli all’orizzonte. Alla fine, il consiglio decise di nominare dieci cittadini per negoziare con l’esercito esterno insieme al commissario e al capitano, cercando una soluzione onorevole. I negoziatori scelti furono: M. Pagolo Maffei, M. Ludovico Landini, Ser Agustino Falconerai, Ser Giovanni Gotti, Ludovico Incontri, Giovanni Marchi, Mariotto Lisci, Michelangelo Fei, Ser Niccolò Leostelli, Niccolò Gherardi. Essi, insieme al commissario e al capitano, inviarono un trombettiere per comunicare le deliberazioni e chiedere un prolungamento delle trattative. Riuscirono a ottenere un’estensione di otto giorni, ma, alla fine, non fu mai raggiunto un accordo soddisfacente.

La situazione a Volterra peggiorava di giorno in giorno. Dopo gli attacchi precedenti, una nuova squadra di cavalleria nemica arrivò a San Cipriano, incendiando numerose case e seminando il panico tra gli abitanti. Gli assalitori percorrevano il territorio quotidianamente, creando un clima di costante allarme e ansia.

La situazione a Volterra stava precipitando. Dopo gli attacchi precedenti, le due bande che avevano presidiato i borghi, anziché organizzare una difesa efficace, chiesero di essere trasferite all’interno delle mura della città. Si dichiararono incapaci di proteggere i borghi contro gli attacchi incessanti. La guardia di Sandrino Monaliti fu spostata a Firenzuola, mentre quella di Francesco Corso dapprima fu collocata a San Francesco e poi, non sentendosi al sicuro, si trasferì verso la cittadella, trovando alloggio vicino a San Piero. La guarnigione del Capitano Giulio Graziani si trasferì invece a Santo Agostino.

Questa movimentazione delle bande lasciò i Volterrani esterrefatti: i borghi erano completamente scoperti e la città non più sicura. Il clima a Volterra diventava sempre più teso, con voci di divisioni interne e crescente disordine mentre le truppe nemiche continuavano a rafforzare i confini. Ormai stremata dai saccheggi e dalle devastazioni, la popolazione aveva perso la fiducia nella capacità delle truppe di fornire una protezione adeguata. Volterra si trovava in una situazione sempre più precaria, costretta a difendersi con risorse limitate e un morale in caduta libera.

La crescente divisione tra il popolo riguardo alle decisioni da prendere preoccupava sempre più il Commissario Tedaldi. Per cercare di stabilizzare la situazione, Tedaldi chiese ai nuovi membri della commissione di guerra, M. Paulo Maffei, Lodovico Incontri, Ser Giovanni Gotti e Mariotto Lisci, di raccogliere una somma di denaro sufficiente per pagare due stipendi alle tre bande di soldati, per un totale di circa 2000 ducati. Il consiglio si riunì ed elesse quattro uomini con il compito di raccogliere almeno 500 ducati il più rapidamente possibile.

Tuttavia, Tedaldi si rese conto che la situazione era ormai sfuggita di mano e prese la decisione di chiudersi nella cittadella, sperando di trovare una posizione più sicura e difendibile. Questa mossa, però, non fu ben accolta dai Volterrani né dai Quattro della Guerra, che ne furono amareggiati. Anche il Capitano della città, Niccolò de’ Nobili, rimase deluso dalla scelta del Commissario, interpretata dai cittadini come un atto di abbandono, alimentando ulteriormente il malcontento già diffuso tra la popolazione preoccupata per la situazione militare e la gestione delle difese.

Con il Commissario apparentemente distante e il Capitano in uno stato di frustrazione, il popolo iniziò a perdere fiducia nelle loro capacità di resistenza. La paura e la disperazione si diffondevano rapidamente, portando molti cittadini a pensare che l’unica via d’uscita fosse negoziare un accordo con gli assedianti. Così, il 23 febbraio, durante un consiglio straordinario, si decise all’unanimità di capitolare e di trattare con le forze esterne, conferendo pieni poteri ai dieci cittadini nominati per le negoziazioni. Una clausola cruciale dell’accordo era che solo un Commissario di Firenze avrebbe potuto governare su Volterra.


LA RESA DI VOLTERRA AI MEDICI

Il 24 febbraio, gli ambasciatori volterrani si recarono a Villamagna per negoziare la resa con il commissario Taddeo Guiducci. Ser Agostino Falconcini, Giovanni Marchi e Mariotto Lisci furono accolti con favore e ottennero tutte le richieste, con l’approvazione del Papa.

I termini dell’accordo erano chiari e specifici:

Si garantisce la sicurezza e la libertà di movimento per il Capitano Niccolò De Nobili, Bartolo Tedaldi e tutti i fiorentini e altri forestieri presenti nelle città, nelle pendici e nel contado di Volterra, insieme ai loro beni e attrezzature, permettendo loro di andare e stare dove desiderano.

Le bande militari presenti a Volterra hanno il permesso di partire e spostarsi liberamente, eccetto che per Empoli.

I volterrani non sono obbligati ad alloggiare soldati, cavalli o altre truppe, né sono soggetti a pagamenti per l’ingresso in città o fuori nei paesi.

La comunità di Volterra può continuare a vendere il sale fino a quando le questioni di Firenze saranno risolte, al prezzo di due soldi la libbra di sale bianco, di cui un soldo va alla comunità e uno al Commissario Generale di N.S. La comunità è obbligata a pagare tale soldo al commissario residente in Volterra, e deve vendere il sale solo con l’autorizzazione del Commissario Generale del campo o di chi lui delega.

Tutti i capitoli, spedizioni, privilegi, tasse e ogni altro diritto concessi fino ad oggi alla comunità di Volterra sono confermati in perpetuo, con le condizioni che verranno decise dalla Santità di Nostro Signore.

Il governo della città, delle pendici e del contado di Volterra non può essere affidato a nessuno che non sia cittadino fiorentino. Viene concordato in sostituzione all’attuale Commissario relegato in Cittadella il Commissario Generale Roberto Acciaioli, con piena autorità, fino a quando la questione non sarà risolta o non si riceverà un’altra direttiva dalle autorità competenti.

Le chiavi della città sono sotto la custodia del Commissario Generale che le terrà con sé.

Tutti gli animali, le proprietà e le persone dei volterrani che si trovano al di fuori del dominio fiorentino sono protette e sicure dalle forze di Nostro Signore e della Maestà Cesarea.

Ai volterrani è permesso vendere fino a tre carichi di sale al di fuori del dominio fiorentino al prezzo che riterranno opportuno, oltre a quanto devono fornire al governo di Firenze.

Taddeo Guiducci, commissario di Sua Santità, sottoscrisse l’accordo, impegnandosi a far sì che il Commissario Generale Bartolomeo Valori approvasse, confermasse e rispettasse quanto stipulato. Allo stesso modo gli ambasciatori volterrani Ser Agostino Falconcini, Giovanni Marchi e Mariotto Lisci firmarono l’accordo in rappresentanza della comunità di Volterra.

Il 26 marzo 1530, da Bologna, Clemente VII confermò ufficialmente gli accordi di capitolazione con una lettera indirizzata alla comunità di Volterra. Nella lettera, il Papa esprimeva la sua gratitudine per la devozione e la fedeltà dimostrate dalla comunità volterrana, garantendo il suo impegno a salvaguardare la loro sicurezza e confermando i termini e le condizioni della loro resa.

La lettera papale recitava:

“Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Gli oratori nostri, con le lettere da voi consegnate, hanno esposto la vostra devozione e fedeltà nei nostri confronti. Sebbene non inattesa, ci ha comunque fatto molto piacere. Abbiamo accolto benevolmente i vostri ambasciatori e abbiamo promesso loro tutto ciò che riguarda la vostra sicurezza, confermando i capitoli e le condizioni della vostra resa con la nostra firma. Vi esortiamo a mantenere la vostra devozione e a comunicarci qualsiasi necessità…”

La lettera terminava con la solenne dichiarazione:

“Dato a Bologna sotto l’anello del Pescatore, il 26 marzo 1530, anno VII del nostro Pontificato.

Il 24 febbraio, gli ambasciatori volterrani tornarono a Volterra, accompagnati da Roberto Acciaioli, che ne divenne il nuovo Commissario della città.

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Volterracity, MARCO LORETELLI
Testo riadattato in lingua attuale di
INCONTRI, CAMILLO. Infortuni Occorsi alla Città di Volterra nell’Anno 1529 e 1530. Ed. Arnaldo Forni, 1979.
FONTI
INCONTRI, CAMILLO. Infortuni Occorsi alla Città di Volterra nell’Anno 1529 e 1530. Ed. Arnaldo Forni, 1979.