Quando il Commissario Tedaldi si trasferì nella cittadella a causa delle continue minaccie delle bande imperiali, Volterra dovette ammettere di aver perso ogni speranza di resistere ai soldati nemici. Per evitare ulteriori conseguenze catastrofiche, la città si arrese all’imperatore Carlo V, al Papa Clemente VII e ai Medici. Il 24 febbraio 1530, gli ambasciatori volterrani fecero ritorno a Volterra, accompagnati da Roberto Acciaioli, il nuovo commissario imperiale imposto nell’accordo di resa.
Il Capitano della città, Niccolò De Nobili, che aveva guidato fino ad allora eroicamente una resistenza ormai stremata, decise di ritirarsi nella cittadella insieme a Tedaldi. In un gesto di protesta e sfida, De’ Nobili portò con sé le chiavi delle porte della città. Un gesto singolare perché ai volterrani non rimase altra scelta che riforgiare tutte le chiavi delle porte di accesso. Le nuove chiavi furono quindi consegnate in sicurezza al Commissario Acciaioli, con l’accordo che anche i Priori avrebbero mantenuto l’autorità di aprire e chiudere le porte, collaborando strettamente con il Capitano delle guardie del palazzo.
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I cittadini fecero ogni tentativo per convincere De’ Nobili a rimanere, sperando che potesse continuare a fornire una guida sicura, protetto dagli accordi di resa che garantivano la sua incolumità. Tuttavia, De’ Nobili si rivelò irremovibile nella sua decisione di ritirarsi, così contrariato dalla resa imminente che la sua posizione divenne ostile nei confronti dei volterrani. Dunque il 25 febbraio, la cittadella e la fortezza di Volterra iniziarono a sparare colpi da diverse direzioni.
Le tre bande di soldati sotto il comando di Tedaldi presenti in città si ritirarono nella cittadella e pochi giorni dopo, il 28 febbraio, Volterra visse un altro giorno di violenza. Durante il Lunedì di Carnevale, le fortezze ripresero il bombardamento sulla città. A partire dal primo pomeriggio e fino a notte inoltrata, la situazione si fece sempre più drammatica. Le bande, ormai diventate nemiche, uscirono dalla cittadella e affrontarono i cittadini più volte lungo la strada di Firenzuola. In quella zona, si dedicarono a saccheggi e incendiarono diverse case e stalle, seminando terrore e devastazione. Lo scontro che ne seguì fu violento e causò feriti da entrambe le parti.
Nonostante le fortezze avessero sparato oltre 500 colpi di artiglieria quel giorno, i danni alle strutture furono limitati. Anche i colpi provenienti dai mortai, circa una ventina, non riuscirono a infliggere danni significativi. Nel corso dei giorni successivi, i colpi di artiglieria continuarono a piovere sulla città, ma fortunatamente non causarono ulteriori danni gravi. Curiosamente, i sassi lanciati dalle fortezze danneggiarono molte tegole delle case circostanti più degli stessi colpi di artiglieria, evidenziando la relativa inefficacia delle armi utilizzate dalle forze assedianti. La situazione era complicata anche dal fatto che la cittadella non disponeva di artiglieria pesante, avendola persa durante la precedente guerra di Urbino.
Di fronte alla crescente minaccia interna rappresentata dalle bande fuoriuscite dalla cittadella, Volterra si mobilitò con grande solerzia per rafforzare le proprie difese e garantire la sicurezza della città. Le misure adottate furono tanto risolute quanto necessarie per contrastare gli attacchi e garantire una difesa più efficace. A partire da S. Antonio, furono eretti gabbioni in tutte le aperture delle mura; questi gabbioni, con la loro robustezza e stabilità, servivano a proteggere le vulnerabilità delle mura stesse, fornendo una difesa aggiuntiva contro gli assalti nemici.
Verso la cittadella, lungo la strada che conduceva a S. Piero Nuovo, furono costruiti bastioni, posizionati con astuzia strategica per ostacolare l’avanzata delle bande nemiche da quella direzione. Ulteriori bastioni furono eretti in direzione di S. Piero Vecchio.
Messaggeri furono inviati nei dintorni per reclutare soldati di fanteria. Circa trenta guardie furono organizzate e finanziate per presidiare la cittadella; Gigi de Rossi fu nominato Capitano delle guardie, assumendo un ruolo cruciale nella sorveglianza della sicurezza interna contro la cittadella. Alessandro giunse con dieci capitani e circa sessanta soldati, fornendo un significativo rinforzo alla difesa di Volterra. Questi uomini non solo parteciparono attivamente alla costruzione di fortificazioni difensive, ma anche alla gestione generale della situazione in città. Il loro arrivo contribuì a ripristinare un certo grado di ordine e sicurezza in un momento critico di difficoltà.
A causa di una malattia improvvisa, Acciaioli dovette lasciare Volterra, e al suo posto fu nominato Commissario Taddeo Guiducci. Guiducci, noto per la sua vasta esperienza e abilità nella gestione degli affari pubblici, si trovò di fronte alla necessità urgente di proteggere la città dalle crescenti minacce esterne. Per affrontare questa sfida, decise di mantenere una presenza robusta di 200 soldati. Metà dei costi per questo contingente sarebbero stati coperti dal Commissario stesso, mentre l’altra metà sarebbe stata sostenuta dalla comunità di Volterra.
I soldati furono reclutati da Giovanni Battista Borghesi, che li organizzò in bande sotto la guida di due capitani esperti, Carlo del Cesta e Cammillo Borghesi. Tuttavia, pochi giorni dopo, divenne evidente che era necessario reclutare ulteriori uomini per garantire una difesa adeguata. Pertanto, altri 100 soldati furono arruolati e posti sotto il comando di Carlo Mannucci.
I soldati si dedicarono a pattugliamenti costanti e scaramucce intorno alla cittadella, contrastando le incursioni delle bande nemiche. La vita quotidiana a Volterra era segnata da questi conflitti continui tra difensori e assedianti, ognuno cercando di ottenere un vantaggio sul campo. Nel frattempo, le fortezze nemiche continuavano a bombardare la città, ma grazie alle difese organizzate dai Volterrani, i danni rimasero contenuti. I gabbioni e le fortificazioni installate lungo le mura cominciarono a dimostrare la loro efficacia.
Tra i numerosi episodi di scaramucce, uno in particolare rimase degno di nota. Una moschetta fu posizionata in una casa sopra San Piero Vecchio e il Capitano Giovanni Battista fece fuoco verso la cittadella, causando la morte di due uomini e due cavalli. Inoltre, una scheggia di pietra ferì gravemente il Capitano della Cittadella al viso. Questo singolo colpo inflisse più danni di quanto la cittadella avesse potuto causare a Volterra con oltre mille colpi di artiglieria più potenti.
Tutti coloro che possedevano case vicino alla cittadella murarono porte e finestre su quel lato, trasformandole in postazioni per archibugieri e soldati. Di fronte a questa reazione, molti dei soldati che erano entrati nella cittadella decisero di lasciarla dopo pochi giorni: alcuni tornarono a supportare la città per ricevere il loro salario, mentre altri preferirono ritirarsi nei campi, causando un significativo ridimensionamento delle loro compagnie.
In questo contesto, si iniziò a discutere di un possibile accordo, poiché la cittadella stava patendo per la mancanza di provviste. L’arrivo di numerosi fuggitivi fiorentini aveva portato la popolazione della cittadella a oltre 500 persone, sebbene solo 130 di loro fossero capaci di combattere. Furono tentati vari accordi per cercare di salvaguardare i civili, ma nessuno di essi portò a una conclusione soddisfacente.
Il 7 marzo, nonostante l’opposizione dei giovani Volterrani e dei soldati, fu stabilita una tregua di due mesi tra la città e le fortezze circostanti. Questo accordo includeva la promessa reciproca di non attaccarsi. Tra i termini stabiliti, i Volterrani si impegnavano a fornire al Commissario della Cittadella 300 scudi e provviste giornaliere per il sostentamento dei residenti. La consegna delle provviste poteva essere effettuata da un massimo di sei persone, mentre i fiorentini avevano il permesso di muoversi liberamente. Sebbene altri capitoli fossero inclusi nell’accordo, sono troppi per essere dettagliati tutti.
L’accordo fu sottoscritto sotto pena di inadempimento e firmato personalmente dal Commissario generale Bartolomeo Valori, dal Capitano della città Niccolò De Nobili, dal Capitano della Cittadella, dai due castellani delle fortezze circostanti e dagli ambasciatori. I 300 scudi furono pagati puntualmente e le vettovaglie furono fornite ogni giorno. Il 17 marzo del 1529, i rappresentanti di Volterra presero la strada verso Bologna per rendere noto Papa Clemente della tregua. Tra loro c’era Mario Malici, già presente nella città papale, Ser Agostino Balconcini e Gio Marchi, accompagnati da dodici giovani Volterrani. Papa Clemente, pur disapprovando la tregua con la cittadella, acconsentì con benignità agli accordi stipulati tra le parti, apponendo la sua firma.
Durante questo periodo di tregua, gli abitanti di Volterra si dedicarono con fervore alla costruzione di fortificazioni e difese. Bastioni furono eretti nel castello e una moschetta fu posta sulla Torre del Capitano. Un’altra moschetta venne installata sulla Torre degli Scalini, vicino a San Piero Nuovo, da cui era possibile prendere di mira tutte e tre gli avamposti nemici. Per migliorare le difese, i Volterrani inviarono ambasciatori al campo per richiedere palle, polvere da sparo e artiglieria. Furono accontentati con tre barilotti di polvere e la promessa di ricevere due sacchi ogni volta fosse necessario, provenienti da Siena. Su richiesta del Commissario del Campo, fu inviato un altro ambasciatore a Siena per chiedere ulteriori forniture di artiglieria e munizioni. A Siena, l’ambasciatore fu accolto con grande onore e disponibilità: la Balia promise di fornire tutta l’artiglieria e le munizioni necessarie e, se non fosse stata sufficiente, avrebbe fuso le campane per creare nuova artiglieria, a patto di essere sicura di riaverla una volta utilizzata.
La tregua, purtroppo, non resistette a lungo. La mattina del 23 marzo, un gruppo di soldati uscì dalla cittadella in direzione di San Lazzero. Qui, inaspettatamente, furono colti di sorpresa dalla presenza di una postazione di difesa nel castello e uccisero una sua sentinella, un soldato di Colle del Capitano Gio Batta. In tal merito il Commissario Tedaldi inviò un messaggero al Commissario Guiducci di Volterra accusandolo di aver costruito bastioni all’interno del castello. Il Commissario di Volterra respinse le accuse, invitando Tedaldi a inviare qualcuno per verificare personalmente la situazione sul campo. Tuttavia, senza ulteriori verifiche o giustificazioni e sapendo di sentire il falso, Tedaldi ordinò intorno alle diciannove un bombardamento indiscriminato sulla città con artiglieria e mortai, lanciando circa cento proiettili che colpirono vari punti.
L’attacco provocò danni significativi: un proiettile colpì Firenzuola, causando la morte di un soldato e ferendo gravemente il Capitano Carlo Del Cesta, che fu poi sostituito da Geronimo Senese. In risposta, i Volterrani reagirono con colpi di moschetto e archibugio, anche se non si conosce l’entità dei danni inflitti alla parte avversa.
I Volterrani, determinati a rafforzare le proprie difese, inviarono nuovamente un ambasciatore a Siena per richiedere altra artiglieria. Sebbene la richiesta fosse accolta, nell’immediato non fu concessa, poiché nei pressi di Siena si era accampato Fabrizio Maramaldo con circa 4000 soldati, causando notevoli danni; le autorità senesi risposero che fino a quando i soldati fossero rimasti lì, non sarebbe stato possibile fornire l’artiglieria.
Il 29 marzo, una moschetta fu puntata verso il canto della Via Nuova, un luogo molto frequentato, causando la morte di un soldato, la rottura di una gamba a un cavallo e lo strappo di un pezzo di cappa a un altro cavallo. Nonostante i numerosi colpi sparati da entrambe le parti, non si registrarono altri danni significativi.
Il 2 aprile, i soldati della cittadella uscirono verso San Lazzaro e si imboscarono nei pressi della porticciola del soccorso di Firenzuola. Quando i Volterrani tentarono di uscire, il Capitano Camillo fu ucciso da un colpo di archibugio e il Capitano Geronimo fu ferito a una coscia. Al posto del Capitano Camillo, fu nominato il Capitano Fabrizio Borghesi, fratello di Giovanni Battista Borghesi.
Il Commissario Tedaldi di cittadella avanzò una richiesta a Pisa per ottenere 500 fanti con l’obiettivo di assediare Volterra. Il 3 aprile, inviò un messaggero a Vada per ottenere una risposta riguardo a questo piano. Durante il ritorno, il messaggero fu catturato e interrogato, rivelando che per ottenere il sostegno richiesto, Tedaldi avrebbe dovuto inviare 300 scudi a Pisa.
In contemporanea, Tedaldi inviò un messaggio agli uomini di Pomarance, cercando di riconciliarsi con loro e riconoscendo che le azioni passate erano state compiute sotto costrizione. Promise riconoscenza per il loro aiuto nel sopprimere la ribellione dei Volterrani. Gli uomini di Pomarance, dopo aver ricevuto il messaggio, immediatamente informarono il Commissario Guiducci della richiesta di Tedaldi, rifiutando di collaborare. Anche in questo caso i volterrani catturarono il messaggero di Tedaldi insieme a una copia delle lettere inviate. Svelando così il complotto in atto, il 6 aprile, il Commissario Guiducci fece giustiziare i due messaggeri catturati e inviò le lettere al campo come prova delle intenzioni nemiche.
Nella notte seguente, alle quattro del mattino, i soldati della cittadella tentarono un assalto ai bastioni del Castello di Volterra. L’allarme suonò subito e i Volterrani si precipitarono verso di loro, riuscendo a farli rientrare nella cittadella senza che scoppiasse uno scontro diretto. Nello stesso momento, a causa della carenza di vettovaglie, i soldati delle fortezze uscirono verso San Lazzaro e catturarono alcuni buoi appartenenti a Piero Lisci, portandoli nella cittadella. I Volterrani tentarono di inseguirli, ma arrivarono troppo tardi.
Il 9 aprile, una parte dei soldati della cittadella uscì nuovamente, provocando scaramucce con i soldati di Volterra. Altri soldati entrarono in città e appiccarono il fuoco in due stalle vicino a Sant’Antonio, una delle quali fu completamente distrutta dalle fiamme. I Volterrani, avvertiti dal segnale della guardia sulla torre, accorsero sul posto, ma non riuscirono ad impedire il danno. Tutto questo accadeva mentre la cittadella continuava a sparare con l’artiglieria, sia per coprire i propri soldati sia per causare danni ai difensori, ferendo due soldati volterrani.
Il 12 aprile, Martedì Santo, i soldati della cittadella uscirono in una missione che sembrava di routine, dirigendosi verso San Matteo. Là, saccheggiarono alcuni animali e un mulo carico di pali. I Volterrani, non restando a guardare, li inseguirono e si scontrarono con loro presso la fonte al Pino. La cittadella rispose con un intenso fuoco di artiglieria, ma senza infliggere danni significativi. Durante la scaramuccia, tre soldati della cittadella persero la vita. Quella stessa notte, i nemici tornarono a incendiare la stalla già danneggiata in precedenza.
Il Venerdì Santo, 15 aprile, i soldati delle fortezze simularono un’altra sortita. I soldati di Volterra, usciti dalla porticciola dei Ponti, furono colpiti da un colpo d’artiglieria che uccise il banderario del Capitano Carlo Mannucci. La tensione cresceva di ora in ora, alimentata dalla violenza e dalle provocazioni.
Il 14 aprile, giorno di San Marco, celebrato con grande gioia dal popolo, i soldati delle fortezze continuarono a sparare numerosi colpi alla Torre del Capitano, dove uccisero il bombardiere di guardia. Il Sabato Santo, 16 aprile, i colpi di artiglieria della cittadella continuarono incessanti, causando la morte di un uomo di Michelagnolo Fei. Il giorno di Pasqua, nonostante un periodo di tregua delle armi, i soldati della cittadella ripresero a sparare nel pomeriggio, colpendo i tetti delle case vicine e ferendo accidentalmente il figlio di Filippo Landini. Il giorno seguente, per Pasquetta, un uomo fu ferito alla coscia da un colpo di archibugio sparato dalla cittadella.
In questo clima di costante conflitto, Baccio Valori, tornato al campo, decise di inviare Luigi di Bivigliano dei Medici a Genova per ottenere artiglieria da utilizzare nell’assedio della cittadella di Volterra. Luigi fece preparare l’artiglieria a Porto Venere e, il 18 aprile, arrivò a Bibbona con due cannoni, due mezzi cannoni, una colubrina, un sacco e 390 palle di ferro. I Volterrani, avvertiti dell’arrivo, inviarono a Bibbona marraioli, bufali, ingegneri e altri specialisti necessari per trasportare l’artiglieria a Volterra. Così, l’artiglieria giunse in città, fornendo ai difensori un potente rinforzo contro le continue incursioni della cittadella.
I soldati della cittadella, avendo saputo in anticipo dell’arrivo dell’artiglieria da Bibbona, immediatamente inviarono queste notizie alla Repubblica di Firenze, chiedendo aiuto. L’aiuto fu concordato e, così, di notte, diverse schiere di arcieri uscirono da Firenze verso il campo, armati da più parti, pronti a colpire con maggiore efficacia. Cinque bande e circa 300 cavalieri si riunirono a Empoli sotto le direttive del Commissario Francesco Ferrucci. Rafforzarono le loro forze con tre bande già presenti e altre cinque giunte da Ponte ad Era e Cascina, per un totale di tredici bande, circa 1100 soldati e 300 cavalieri. Con questo imponente contingente, si diressero verso Volterra, pronti a cambiare le sorti del conflitto.
Il 26 aprile 1530, alle 22:00, Francesco Ferrucci entrò in cittadella.
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