Secondo la rievocazione datane di recente da Alessandro Morandi¹, a mezzogiorno dell’8 luglio 1964 Maria Teresa Falconi Amorelli telefonava a Massimo Pallottino da una trattoria di Santa Severa, per informarlo del ritrovamento, nell’area di scavo del santuario di Pyrgi, di quelle tre arcifamose lamine d’oro iscritte che, per il loro bilinguismo, apparvero (almeno inizialmente) una chiave possibile di risoluzione del vecchio “enigma etrusco”. Sembra che persino i rotocalchi dessero allora risalto alla novità archeologica, anche per via dell’intrigante rassomiglianza della bionda assistente di Pallottino all’attrice scozzese Deborah Kerr; e fu poi un’ampia intervista al Maestro, sul quotidiano “Il Tempo” del 22 luglio seguente, a mettere a fuoco i termini più precisamente scientifici del memorabile evento.
È molto probabile che una copia dell’importante quotidiano romano avesse con sé anche Luchino Visconti quando, proprio lo stesso giorno, si recò a Volterra – assieme ai suoi due sceneggiatori prediletti, Suso Cecchi D’Amico ed Enrico Medioli², e all’aiuto regista Rinaldo Ricci – per un sopralluogo preliminare al ciak del suo film Vaghe stelle dell’Orsa… (1965). I quattro amici visitarono Palazzo Inghirami e il suo giardino (col leccio secolare e la cisterna romana), Palazzo Viti, il Museo e la Biblioteca Guarnacci, la Pinacoteca, le botteghe degli alabastrai; si recarono naturalmente alla voragine delle Balze e inclusero nel tour anche Villa Palagione. Le riprese del film ebbero poi luogo tra il 26 agosto e il 17 ottobre 1964³.
Perché Visconti (e i suoi sceneggiatori) optarono per una location volterrana dell’angosciosa storia di Sandra e Gianni Wald Luzzatti? Anticipo subito quella che è un’assoluta ovvietà, peraltro sovente dissimulata sia nella stampa del tempo sia nella bibliografia propriamente critica, che ne è seguita: l’opzione era evidentemente organica alla matrice letteraria della trama, facilissima da riconoscere nel Libro Secondo (quello ambientato, appunto, a Volterra) del romanzo di Gabriele d’Annunzio Forse che sì forse che no, che fu pubblicato per la prima volta nel 1910 e definitivamente, con ritocchi al finale, nel 1932⁴. Gli Etruschi e il loro paesaggio venivano dunque inclusi nel racconto cinematografico come componenti strutturali e non esornative della narrazione e, se è certo che l’idea fosse anteriore, è tuttavia suggestiva la coincidenza cronologica con gli eventi di larga risonanza mediatica di quella che potremmo chiamare l’estate di Pyrgi⁵.
Nella filmografia di Visconti, “Vaghe stelle dell’Orsa…”⁶ è un’opera a torto giudicata, da taluni, minore. Esemplifica, al contrario, un momento fortemente critico, cioè di svolta, nell’accidentato percorso (anche ideologico) del suo autore. Veniva infatti subito dopo il grande impegno – anche per costi di produzione – del Gattopardo (1963), un capolavoro controverso non meno che acclamato, per la sua palese deviazione (o involuzione, secondo il punto di vista) da un presunto realismo verso modalità narrative di tipo melodrammatico e temi rischiosamente decadentistici. La svolta, del resto, era stata già evidente, dieci anni prima, con Senso (1954), e lo stesso Rocco e i suoi fratelli (1960), a dispetto dell’apparenza di spaccato di vita proletaria, l’aveva confermata.
Di per sé, Vaghe stelle nacque come produzione a basso costo, segnando un significativo ritorno al bianco e nero – di cui si dirà poi -, e risponde alla committenza del produttore Franco Cristaldi che, in procinto di sposare Claudia Cardinale, intendeva dare ulteriore e piena valorizzazione all’icona indimenticabile di Angelica Sedara. Con la Cardinale, dunque (qui interprete dell’ambigua volterrana Sandra) – trionfante sul piano visivo in virtù di una carnalità alabastrina, che il chiaroscuro di Armando Nannuzzi seppe esaltare con sapienza -, fu coinvolto nell’impresa un cast internazionale, comprendente l’efebico Jean Sorel (Gianni, il fratello perverso), Michael Craig (Andrew, il marito americano), il grande Renzo Ricci (nella parte dell’avvocato Gilardini, patrigno dei due fratelli), Marie Bell (la madre impazzita) e Fred Williams (il giovane psichiatra Pietro Fornari, ex-fidanzato di Sandra⁷). Nel settembre del 1965, il Leone d’Oro al Festival di Venezia sembrò a molti una specie di compensazione per i due ingiustamente mancati del ’54 (Senso) e del ’60 (Rocco).
L’intreccio di Vaghe stelle è caratterizzato, come altri di Visconti, da una sorta di agglutinazione di riferimenti letterari stratificati, che contaminano modelli diversi secondo un processo di analogie o associazioni d’idee; sicché la critica tende usualmente ad accumulare, a sua volta, i vari riferimenti man mano che questi affiorano all’esegesi, presentandoli alla pari, come se tutti fossero egualmente importanti e decisivi e tutti assieme contribuissero a creare una storia differente, carica di citazioni e però altra, rispetto a quelle delle sue fonti narrative.
Una posizione di questo genere manifesta, per esempio, Massimo Fusillo⁸, quando difende, proprio per Vaghe stelle, la necessità di una “comparazione interartistica” ed esclude la possibilità di riconoscere nella sua sceneggiatura la “dipendenza da un testo primario”. Mia impressione è invece che, non solo in Vaghe stelle ma in tutto il cinema di Visconti, sia sempre enucleabile una fonte testuale primaria, di autore gerarchicamente prioritario e fondamentale, soggetta a contaminazioni e a variazioni, eppure riconoscibile, come una gabbia che contenga tutti i metatesti possibili e li costringa a interagire e a rimescolarsi: di volta in volta Boito, Dostoevskij, Testori, Tomasi, Mann ecc. Pertanto, un’insidia metodologica da cui guardarsi è quella che deriverebbe da una registrazione corriva delle molteplici indicazioni di fonti letterarie, che lo stesso regista e i suoi collaboratori hanno dato, e la critica del tempo, specie quella allineata all’estetica militante del PCI, avvalorato: perché qui si misurano precisamente alcuni voluti equivoci costruiti intorno alla rappresentazione di un Visconti vate (e poi forse traditore) dell’etica del realismo. Nel caso specifico, non può esservi dubbio che il testo gerarchicamente prioritario sia – come già indicato – il Forse che sì dannunziano o, più esattamente, la sezione del Forse che sì ambientata a Volterra: altrimenti, come si potrebbe spiegare – al di là degli eventi suggestivi dell’estate di Pyrgi – l’opzione ‘etrusca’ del soggetto e della sua sceneggiatura? Il testo primario dunque c’è ed è quello, non altro. Il nodo cruciale del dramma, l’incesto (autentico o solo fantasticato?) dei due fratelli di Visconti, Sandra e Gianni, replica precisamente quello (consumato) dei due fratelli Isabella e Aldo, nel plot dannunziano; allo stesso modo, si richiamano esplicitamente le rispettive situazioni di disagio nelle relazioni e nella gestione dei beni di famiglia – la madre risposata al Gilardini nel film; il padre “passato in seconde nozze con la concubina” nel romanzo -; in entrambi, la terrificante rimpatriata volterrana (di Sandra come d’Isabella) stravolge la pur sana fisionomia psicologica del rispettivo marito (Andrew) o amante (Paolo). Per tacere di tutta una serie di rispondenze puntuali di luoghi e di situazioni, su cui tuttavia avremo modo di soffermarci più avanti.
Apparirà forse un poco sorprendente la citazione da Le ricordanze, che Gianni mette in testa al suo scandalosissimo manoscritto – quasi inafferrabile per platee non italiane, sicché all’estero il film fu distribuito col raccapricciante titolo di Sandra of a Thousand Delights⁹. Al di là della comune terribilità provinciale che poteva accomunare Recanati e Volterra (e tante altre piccole città italiane, cariche di storia, di sogno e di frustrazioni), la vulgata aneddotica¹⁰ attribuisce il riferimento leopardiano a un suggerimento di Mario Soldati.
Ciò non si vuol mettere in dubbio; ma non è stato finora osservato che Vana Lunati, sorella minore della sfingea protagonista del Forse che sì, suicida come il Gianni della versione cinematografica, giusto prima di conficcarsi in cuore il “pugnaletto turchesco” di Andronica Inghirami, si affaccia alla finestra in una notte stellata e “fredda su gli orti cupi” e con “occhi d’incorruttibile smalto” riconosce per l’ultima volta il Carro, cioè l’Orsa. Dunque, le vaghe stelle del bellissimo titolo avevano già avvolto del loro lume remoto gli ultimi istanti della povera Vana, prima di battezzare anche la velleitaria autobiografia del morituro Gianni.
Ma, per comprendere a fondo il senso di questa scelta dannunziana di Visconti, ne occorrerà recuperare il contesto di gestazione. Va sottolineato, in primo luogo, come la presenza di D’Annunzio nelle letture del regista (e dei suoi sceneggiatori) sia stata tutt’altro che episodica o marginale. Non è infatti accettabile l’asserzione di Raffaella Bertazzoli¹¹, che lo qualifica come “scrittore non troppo amato”: fin superfluo ricordare, al contrario, come l’estremo titolo della filmografia viscontiana, L’innocente (uscito postumo nel 1976), costituisca un approdo alfine esplicito e diretto alla narrativa dannunziana.
Si dovrà dire, piuttosto, che a Visconti non piaceva il D’Annunzio drammaturgo – mai nessuna pièce dannunziana, se non sbaglio, negli allestimenti teatrali a sua regia -, e potrebbe essere interessante approfondire le ragioni (facilmente intuibili) che, agli effetti del linguaggio cinematografico, ne rendevano i romanzi ben più appetibili delle tragedie. Il punto-chiave da sottolineare – in pieno accordo con Mauro Giori, autore di un recente, non conformistico saggio¹² – è piuttosto un altro e va indicato nella circostanza della non proprio fortunata messa in scena a Parigi, giusto quattro anni prima delle Vaghe stelle, del dramma secentesco di John Ford Tis Pity She’s a Whore¹³, con una Romy Schneider e un Alain Delon poco più che ragazzi, a interpretare Annabella e Giovanni.
Un’esigenza stringente di autocensura (non volendo scoprire troppo il fianco a facili polemiche e condanne del PCI) è palese dietro le scelte che hanno deliberatamente dissimulato il richiamo alla novella di Ford – anch’essa centrata sul rapporto incestuoso fra fratello e sorella – e, al tempo stesso, consentito di sfruttare a pieno, benché nascosto da imperscrutabile riserbo, il D’Annunzio ‘etrusco’. All’esigenza di mimetizzare (dietro D’Annunzio) il modello fordiano si può attribuire, in ultima analisi, anche la cifra essenziale di quello che appare il tema primario del film, cioè il ritorno alla radice da parte della protagonista: se si fosse trattato di un plagio o di un rifacimento di Ford, anziché di una creatura etrusca vagheggiata da D’Annunzio, il cuore della storia sarebbe stato semmai l’analisi psicologica del legame patologico fra i due fratelli, alla maniera di Delon e Schneider, e non la riappropriazione da parte di Sandra della casa, degli arredi, della madre, della tomba paterna e della ‘faina’ simbolo di purezza¹⁴ (la pelliccia bianca che sormonta il suo cappotto nero).
Ai riferimenti a Ford rimane dunque – rispetto alla densa struttura etrusco-dannunziana – uno spazio ben più limitato e indirettamente funzionale: come un richiamo lontano e, a sua volta, mimetizzato in qualche “frase mancata” del soggetto.
Il riferimento alla faina chiude la pagina filmica del ritorno alla “purezza” di Sandra, e con esso si chiarisce anche il valore dell’immagine iniziale, che sigilla e cuce la vicenda fin dall’apertura del film, quando la donna compare seduta di spalle, davanti alla luce fortissima del vetro smerigliato di una finestra che apre alla città, mentre dietro a lei si agita e infastidisce il marito Andrew. È a questo punto che la trama di D’Annunzio si trasfigura – e qui, sì, il regista si allontana dal modello testuale – nel dramma di una donna colpevole di incesto solo in quanto oggetto di amore inconfessato da parte del fratello e disposta a purificarsi dell’infamia (del resto, agli occhi della madre e degli altri) attraverso un annullamento totale del desiderio, simboleggiato dalla pelliccia verginale.
Sandra, alla fine, riuscirà a conservare il rapporto di fedeltà col marito; ma, per far questo, dovrà distruggere l’eredità del padre, innescando – o accettando – la morte del fratello¹⁵, la cancellazione della memoria materna e una definitiva chiusura verso il passato: tutta la sua famiglia (d’Annunzianamente potente e tragica) deve morire per permetterle di rivivere senza fantasmi nel presente¹⁶. Una chiusura del cerchio tanto più suggestiva, nella città di Volterra, che per millenni ha conservato intatto e misterioso il suo doppio volto, di etrusca e di romana, di tragica e di imperiale¹⁷.
La centralità del testo dannunziano è, del resto, pienamente confermata dalle scelte narrative e visuali del regista. Dal Forse che sì vengono direttamente la sequenza della corsa in auto – la BMW spyder dello stesso Visconti – che porta Andrew e Sandra su per i tornanti verso la “città di vento e di macigno”; la passeggiata notturna dei due uomini rivali in amore e, in particolare, l’apparizione infernale delle Balze, con la battuta di Gianni (“Nel corso dei secoli le frane hanno inghiottito case, chiese, conventi, antiche mura e anche necropoli etrusche”) che riprende, più prosaicamente, la “fauce inestinta” che, nella scrittura di D’Annunzio, “aveva già inghiottito le case degli uomini e di Dio, i borghi i monasteri le basiliche (…) e i cipressi e gli elci dalle radici inespugnabili”¹⁹; e poi naturalmente l’episodio, anche visivamente cruciale, dell’ambiguo incontro dei fratelli nella Cisterna Inghirami²⁰.
Altra immagine forte della Volterra dannunziana sono naturalmente le guarnacciane “piccole sale rosse e nere” della conversazione malinconica di Aldo e Vana, che – con la dicromia equipollente del bianco e del nero cinematografico – ospitano nel film lo sfogo del Gilardini e il disorientamento di Andrew, proiettati entrambi sulla quinta di tragiche storie familiari e di veri e propri mostri, offerta dai rilievi delle urne cinerarie (Fig. 2). Queste avevano già fatto una prima apparizione nel vestibolo di Palazzo Inghirami, per farsi poi rivedere, con qualche ironia, miniaturizzate tra i souvenirs del caffè di notte, visitato dallo stesso Andrew e da Gianni al termine del loro angosciante giro turistico.
Un’altra immagine etrusca e peculiarmente volterrana è quella della kelebe, il cratere a colonnette di produzione locale, che s’intravvede nell’ombra, fra gli arredi di Palazzo Inghirami, e acquista in seguito improvvisa e direi simbolica evidenza come contenitore di ambigui biglietti segreti.
Val la pena soffermarsi, infine, sulla mutevole iconografia della protagonista. In apertura di film, dentro al chiacchiericcio anglofrancese del salotto ginevrino, spezzato dalla voce tragica del pianoforte, Claudia Cardinale esibisce un caschetto di capelli stirati e compatti, che si propone, nella sua geometrica compattezza, quale indicatore di un’internazionalità sradicata. Ma a Volterra tutto cambia: e il primo segnale sta, significativamente, nel mutamento della pettinatura, con l’opzione per la treccia, rustica e arcaica insieme (vogliamo dire etrusca?), che già l’Isabella dannunziana aveva portato. Così Sandra, di cui Andrew dice: “per me (…) è nata il giorno in cui l’ho incontrata a Ginevra”, si riappropria anche visivamente della sua nascita volterrana, che la rende consapevole, nel confronto col marito yankee, di una specie di sua invincibile anteriorità. Vediamo infatti Sandra che s’intreccia meticolosamente i capelli prima di presentarsi all’appuntamento della Cisterna, così che quel richiamo al passato (suo personale: un’adolescenza torbida; della sua gente: gli antenati sepolti) si configura, alla lettera, come un descensus catactonio.
Il gioco delle acconciature continua altrove, nel film, dove troviamo la Cardinale, nella stessa logica di revival indigeno, col capo velato e lo scialle al modo tardo ottocentesco delle modelle di Anticoli Corrado; o col cappello a larga tesa che ne ombreggia il volto divenuto meduséo, anche in questo caso con patente richiamo dannunziano²¹; sino al finale, dove il foulard candido che le serra il capo richiama i defunti ammantati nel viaggio etrusco d’Oltretomba.
Un ultimo punto su cui vorrei soffermarmi ci riporta al tema già toccato ieri da Andreas Steiner. Poiché il transfert di statuto etnico-culturale, che nella sceneggiatura di Vaghe stelle ebraizzò l’Agamennone volterrano e i suoi due ombrosi figlioli, opponendoli a una moglie e madre ariana e antisemita (nonché adultera) e a un Egisto-Gilardini delatore fascista (riciclato, si presume, in maggiorente democristiano), rappresenta la riproposizione di una non infrequente equivalenza fra Etruschi ed Ebrei che è certo meritevole di approfondimento.
È evidente che anche questo aspetto della complessa elaborazione intertestuale mirasse ad attenuare l’incomoda matrice decadentistica dell’intreccio dannunziano e ad attualizzare, nel contempo, alcune maschere esemplari del teatro antico, attraverso la loro ricontestualizzazione in un’Italia profondamente ferita dall’occupazione tedesca e dalla guerra civile.
Tale ebraizzazione assume, in alcuni dettagli, connotati curiosamente linguistici. Si pensi al nome di famiglia scelto per il professore tradito e deportato, Luzzatti: che – ad là della relazione amicale che legava Visconti al celebre scenografo: Emanuele, detto Lele, Luzzati²² – sembra nato da un piccolo ritocco consonantico apportato a quello degli sciagurati fratelli del Forse che sì: Lunati, appunto (Isabella essendo divenuta un’Inghirami per via matrimoniale).
Aggiungo che la sopravvivenza di una lingua antica e incomprensibile ai non iniziati – vedi la recita del Kaddish per il prof. Luzzatti nella chiusa del film – contribuisce a rimescolare la doppia identità (ebraica ed etrusca) dei due protagonisti, in accordo per quanto inconsapevole con una vecchia idea, presente a intermittenza, ma di lunga durata nella cultura antiquaria (non solo italiana), che aveva fatto degli esotici, misteriosi Etruschi, venuti forse da Oriente e perciò isolati per lingua (appunto) e religione (appunto), la manifestazione di un’alterità etnica equivalente, nell’Italia preromana, a quella degli Ebrei nel mondo levantino. Ma forse c’è dell’altro. Una sofisticata novella di Thomas Mann, Walsungenblut (Sangue velsungo)²³, racconta dell’incesto consumato dai gemelli Siegmund e Sieglind (chiamarsi così … un destino!) al ritorno da una perturbante esecuzione della Valchiria. Lo strepitoso ribaltamento di stereotipi che governa il racconto fa dei protagonisti, a dispetto dei nomi wagnerianamente indogermanici, i rampolli un po’ snob di una ricca famiglia ebraica, gli Aarenhold, con cui Mann intendeva alludere a quella di sua moglie Katia Pringsheim… Così è probabilmente accaduto che in Visconti – si sa, suo attentissimo e memore lettore – l’idea sovversiva dell’incesto tra fratelli trascinasse quasi automaticamente con sé il connotato di diversità dell’ebraismo.
In fondo, sembra di cogliere il falsetto²⁴ di un’eco manniana nascosta, anche nelle insinuazioni feroci e volgarmente antigiudaiche della madre di Sandra: “E invece… Anche tu hai sangue ebreo, come lui. Sei una viziosa, come lui… Piccoli vizi… prudenti… sporchi… vizi segreti.”²⁵