Santo Genet, l’ultima produzione della Compagnia della Fortezza, non è uno spettacolo che il palcoscenico riesce a contenere. Artigianato teatrale al quadrato, non solo disorienta la frontalità del consueto guardare ma, come una forza in espansione, riempie il contenitore-teatro, lo rompe e dilaga, inonda, pervade. È dello spazio che la compagnia si appropria, lo fa suo, e da padrone di casa riceve gli spettatori “sulla soglia”. Il foyer del Teatro Verdi di Pisa si fa anticamera, ed è in questo luogo di passaggio che comincia il viaggio-esperienza nelle stanze di Jean Genet.
Genet è già lì, sornione e ipocrita, ci accoglie, ci seduce, ci sequestra dal nostro tempo quotidiano per portarci in un tempo altro: spazio-tempo del teatro, tempo sospeso, che scandisce il lavoro di Armando Punzo e della sua compagnia nel carcerefortezza di Volterra. Tardi ci accorgiamo che la teca funebre in vetro, collocata nel foyer, nella quale una sposa-travestito recita il suo inno all’amore, altro non e che indizio e indice del cimitero tomba nel quale ansiosi stiamo entrando.
Secondo l’idea genettiana il teatro è una macchina per uccidere e la morte è cifra stilistica e tema di fondo di questo spettacolo postumo. Insieme alla morte, la santità, in un inseguimento costante, rimanda anch’essa ad uno stato attribuito in senso comune all’uomo dopo la sua morte; allora la domanda di fondo è: esiste qualche altro tipo di santità? Per Genet sì! Una santità rovesciata, ambigua, in bilico tra il divino e il diabolico, tra il sacro e la sua profanazione, tra immagini sante e brutalità umana, una santità immorale, innocente, nel suo manifestarsi ai margini di una società che quella moralità crede di detenere o insegnare.
Se l’autore francese sovvertendo il comune pensare ha tracciato una netta linea di demarcazione tra la società civile e i suoi personaggi emarginati, liminari, l’operazione di Punzo risulta essere completamente opposta. Riallaccia lo squarcio, espone la ferita, e prova, o per lo meno propone, attraverso il contagio, un’occasione di contatto. Gli attori cercano il contatto con il pubblico; è il pubblico il loro referente principale. A partire dal narratore-autorequlda (Punzo in soprabito lungo, cilindro in testa e libro in mano), riflettendo sulla kermesse composta dai numeri tutti staccati dei monologhi di ogni personaggio (monologhi tratti dall’opera di Genet o costituiti da reminiscenze in lingua dialettale e straniera) è evidente che il dilago è eliminato dalla scena. Non vi è possibilità di rapporti o di solidarietà su una scena che nega il dialogo, non ve ne è tra attore e attore e neppure tra personaggio e personaggio; l’umanità è però ristabilita nel rapporto col pubblico. È ad esso che tutto è rivolto. Come la magia delle camere del bordello del Balcon è riservata al cliente, così la magia di questa scena è riservata al suo pubblico. La scena tocca il pubblico, lo prende a ballare, e nello stesso modo lo costringerà all’azione nel finale.
Lo spazio, di un neoclassicismo in rovina, è riscaldato dal rosso dei velluti e dall’oro della cornice degli specchi, cui fanno da contrasto i marmi freddi di sculture e colonne. Sul fondo un imponente schermo diventa punto focale dell’apparato scenografico, concentrando su di sé i mutamenti di tonalità delle luci (dal torpore rosso-arancio ai viola e ai blu di notti mai finite), nonché superficie per la proiezione di immagini. La colonna sonora del tastierista in scena (davanti a sinistra) è un perenne contrappunto che dà il ritmo alle azioni e, in accordo con le luci, ne scandisce il tempo. Le immagini proiettate, dall’estasi di Santa Teresa al Cielo con angeli, fino a quelle sui paraventi, fanno riferimento all’ambito sacro. Investono superfici e corpi; violentano i corpi, riproponendo quel contrasto tra sacro e profano che tanto influenza anche la musica. Scenografia in questo caso riadattata per il palcoscenico, non rinuncia al suo carattere simultaneo e recupera il movimento grazie anche ad un attore-marinaio che continuamente porterà in giro uno specchio che inquadra porzioni di spettacolo.
La drammaturgia si fa scena: dal bordello ai paraventi, alle tombe, tutto è già testo. L’apparato evidenzia il personaggio, lo incornicia; è decorativo e funzionale insieme, l’attore è spinto in proscenio, sempre più vicino al pubblico, da cui è irrimediabilmente attratto. Sono personaggi portatori di una innocenza oscena: Culafroid, Irma, il negro, il prelato, la vedova suicida, i giapponesi, la santa – tutti truccati e travestiti nel segno di una teatralità dichiarata, con elementi posticci ed evidentissimi – si direbbe alla Genet – denunciano la loro volontà di essere ridondanti, duplicati, riprodotti nelle statue che essi stessi porteranno in vivace processione in platea, per poi posizionarle sul palco, ulteriori indizi di un cimitero monumentale, ma anche meccanismi drammaturgici: i pezzi degli ergastolani (così li definirà il maggiordomo-io epico) sono delle confessioni. I personaggi sono “esposti”, come sono esposti i santi, non a caso le statue ripropongono le loro proprie fattezze e sono portate in processione.
«Ho sempre pensato che i fiori e gli ergastolani avessero qualcosa in comune» recita il narratore, sulle giacche degli attori sono dipinti dei fiori, i fiori riempiono il teatro, ultimo omaggio senza speranza, delicato e destinato ad appassire, di una scena baratro verso la quale la platea scaglia appunto, come commiato, dei fiori. Era dall’inizio una commemorazione funebre, ma nel tempo altro della pièce l’avevamo dimenticato. Il cadavere rimane scoperto.