Se fu facile per San Barbato abbattere il secolare noce di Benevento e disperdere così le migliaia di streghe che vi si davano convegno, le difficoltà che avrebbe incontrato a Volterra sarebbero state tanto sovrumane da fargli perdere la speranza di poter sfrattare da Mandringa le malefiche allieve di Satana che schiamazzando vi si radunavano la notte del sabato.1
Un conto fu tagliare l’albero, per quanto maestoso, e costruire sulle sue radici una chiesa; un altro conto invece sarebbe stato distruggere quell’enorme masso che si staglia possente verso il cielo, sulla strada di Badia, avvolto nell’edera, nei rovi e nella madreselva.
Ai suoi piedi, sotto l’arco duecentesco, sgorga da sempre un’acqua limpida e pura, ritenuta in ogni tempo la migliore della città: “Chi sciacqua le lenzuola / alla Docciòla, – ricordava il D’Annunzio nel Forse che sì forse che no – convien che l’acqua attinga / alla Mandringa”.
Attorno al masso, di giorno era tutto un vai e vieni di donne e di ragazzi, un continuo ciarlare spensierato che accompagnava la lunga teoria di brocche e di mezzine di rame assetate di quell’acqua fresca e gorgogliante.
Ma di notte, il sabato notte, poco prima che l’orologio di Piazza scandisse la fine di un altro giorno, un fruscìo lento e rabbrividente penetrava l’aria già greve e pregna di zolfo, seguìto da un brusìo che, sempre più marcato ed intenso, faceva da macabro preludio alla vorticosa danza delle streghe.
Le donne e i ragazzi ascoltavano terrorizzati nel dormiveglia le voci stridule e sghignazzanti delle streghe e, quando il lugubre stridìo della civetta e il lamentoso miagolìo dci gatti annunciavano l’arrivo di altre entità malvage, neppure gli uomini avevano il coraggio di uscire di casa.
Sull’orlo delle Balze, un’altra notte di tregenda si stava consumando in onore del Principe delle tenebre, ai piedi delle antiche mura, fra il sacro tempio dei Patroni e il diruto cenobio dei Camaldolesi.