Un volterrano ferito a S. Martino. I primi Cacciatori delle Alpi

L’ultimo dei Medici a governare la Toscana fu Giangastone, ultimo del ramo cadetto. Governò svogliato, però, e poi si dette al bere. Negli ultimi tempi della sua esistenza si chiuse con i suoi cani in una camera di Palazzo Pitti e in quella camera morì capellone, pieno di sporcizia e maleodorante.

I capi di Stato esternarono le condoglianze e i «cinque grandi» decisero «in nome del popolo e per grazia di Dio» che il nuovo Granduca sarebbe stato Francesco di Lorena, andato sposo alla figlia dell’imperatore di Austria.

E invece il popolo non lo sapeva neppure, nonostante che quella decisione fosse stata concordata nel gennaio dell’anno precedente, allorché i «cinque grandi» si erano riuniti per discutere sulla ventilata morte di Giangastone.

Il popolo venne a sapere che Francesco non era rimasto soddisfatto di quella assegnazione perchè la Toscana gli sembrava un po’ troppo pochina. Ma quando l’ebbe veduta cominciò a pensare diversamente. E così devono aver pensato in seguito i granduchini, perchè un secolo dopo troviamo ancora i Lorena a governare i Toscani, i quali però canticchiavano ancora così quel ritornello di una canzone in voga:

«Quando si era coi Medici un quattrin faceva a sedici or che siamo coi Lorena se si desina un si cena».

«Hai voglia di lavorar; hai voglia di lavorar; aumenta di valsente la pulenda e il baccalà.»

Alcuni storici sostengono che il regime imposto dai Lorena non era insopportabile: evidentemente non lo era per i funzionari o comunque per le persone interessate ma il popolo pensava diversamente.

I Lorena ed i loro funzionari (quasi tutti toscani) non volevano credere alle nuove idee della rivoluzione francese e si affaccendavano per reprimere moti e riunioni e per arrestare le persone sospette. Ma neppure nelle prigioni le cose cambiavano talchè un bel giorno il governatore dell’Isola d’Elba (volterrano per la precisione; chiese al Granduca di cambiare di carcere il detenuto Francesco Domenico Guerrazzi percbe istigava i detenuti alla rivolta e creava fermento nell’isola. E il Granduca accontentò il nostro concittadino mandando il Guerrazzi nel carcere di Volterra dove le cose presero ad andare come all’Isola d Elba.

Intanto anche in Toscana si diffondevano le nuove idee: nacque il sansimonismo e il babuvismo; sorsero i giacobini, i liberali, i repubblicani, i monarchici, i socialisti le cui dottrine venivano interpretate come il mezzo migliore per risvegliare le classi operaie. «Si sentiva il bisogno» scrisse David Levi «di infervorare le clessi alla causa nazionale» e tutte le opinioni e tutti gli ideali erano buoni perchè indirizzati all’Unità d’Italia.

Nel 1946 fu fondata a Pisa la società Progressisti d’Italia che apparentemente affermava, di voler riunire l’Italia mentre nascostamente predicava l’uguaglianza e il comunismo (come dicevano allora) la divisione dei beni. Il loro inno cominciava così:

«L’uomo è immagin di un libero Iddio;
tutti uguali noi siam sulla terra;
nello spazio che tutto rinserra
luce uguale: comune c’è il sol».

Però il marchese Gino Capponi (parente di quel Piero che voleva dare nelle campane) scriveva così al prof. Capei, il 4 marzo 1847: «Affermo senza dubitazione alcuna che il comunismo, poco temibile ovunque, fuorchè in Inghilterra, è nullo in Toscana».

E con quella fantasia fece il ministro granducale, il deputato provvisorio e il senatore nel regno.

Nel 1848 fu ottenuta la libertà di stampa (con censura) e ne poterono usufruire soltanto i «moderati» i quali se ne servirono per calunniare le sinistre tra i sorrisi del Granduca. E se i tumulti iniziati nel 1849 costrinsero il Granduca a fuggire è anche vero che i moderati lo richiamarono insistentemente «per non andare incontro all’incognito».

Per il popolo fu certamente un ritorno non gradito. Molti volterrani si schierarono con loro; molti andarono volontari a combattere per l’unità d’Italia. Alla campagna del 1859 parteciparono i seguenti volterrani:

Amato Matteoli, Francesco Di Marco: 5.a divisione; 17.° reggimento; 11.a compagnia.
Federigo Carducci: 15.° reggimento fanteria; 1.a compagnia.
Orlando Grigi: 8.° reggimento; 1.a compagnia. Era nato nel 1830 e morì il 2-1-1901, alabastraio.
Achille Bacci: 1.° reggimento Pinerolo; 2.a compagnia; arruolato il 30-4-1859; matricola n. 15246; nato il 7-5-1837; deceduto il 29-6-1906; scultore alabastraio.
Raffaello Giustarini (detto «Mezzettino»}: 2.° reggimento granatieri Sardegna; 5.a compagnia.
Luigi Calastri (detto «Gigetto»}: 6.° reggimento; 2.a compagnia. Deceduto il 16-9-1879.
Francesco Pescucci: 13.° battaglione Pinerolo 2.a compagnia.
Tito Brogi: 13.° battaglione Pinerolo; 2.a compagnia. Nato nel 1839; deceduto il 15 Giugno 1907 in via Guidi 18. Pensionato regio.
Agostino Biagini: 16° reggimento deposito Casale; 1.a compagnia.
Ulisse Melani: 13° reggimento; 12.a cornpagnia.
Costantino Castellucci: 15° reggimento fanteria Casale. Deceduto nel 1895.
Silvio Barbi: 15.° reggimento Casale.
Pietro Biagini: Calzolaro.
Lodovico Ruggeri.
Annibale Nesti (detto «Pipetta»}: 13° reggimento. Deceduto nel 1904.
Achille Goretti. Deceduto nel 1875.
Lodovico Baccerini (detto «Chiccia»). Eugenio Manetti – Capobanda.
Antonio Frassinesi – Bandista.
Isidoro Giannelli.
Claudio Giannelli.
Vittore Bargelli. Deceduto il 9-4-1904.
Attilio Gennari. Deceduto il 19-9-1877.
Ottaviano Volterri. Deceduto il 18-6-1880.
Desiderio Mancini. Deceduto il 2 Maggio 1880.
Giuseppe Bartolini. Deceduto il 16 Aprile 1881.
Alfonso Baldini: 3° reggimento Cacciatori delle Alpi; 3.a compagnia.
Tobia Fattorini: alabastraio; Cacciatore delle Alpi. Nato nel 1831 e deceduto nel 1902.
Gaetano Giustini (detto «Ciuci»). Cacciatore delle Alpi.

Soltanto questi ultimi (per quanto mi risulta) fecero parte della divisione Cacciatori delle Alpi, composta di soli tremila uomini, al comando di Garibaldi.

Probabilmente anche gli altri Volterrani avrebbero voluto essere arruolati con la divisione di Garibaldi ma l’effettivo massimo di tremila uomini non lo poteva consentire. Del resto Garibaldi e molti garibaldini si preparavano da tempo alle battaglie dcI risorgimento.

Il diciannove dicembre 1858 Garibaldi aveva detto a Mercantini: «Voi mi dovete scrivere un inno per i miei volontari; lo canteremo andando alla carica e lo ricantererno tornando vincitori».

Quell’inno fu provato la prima volta la sera dell’ultimo dell’anno 1858, allo Zerbino. La signora Mercantini accompagnava al pianoforte e i garibaldini presenti, guidati dall’autore, presero a cantare così:

«Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti!»

Quell’inno fu cantato alle prime battaglie a Sesto Calende, a Varese, a Brescia, andando alla carica contro gli austriaci che scappavano appena le camicie rosse si avvicinavano.

Ma anche i soldati che parteciparono alla battaglia di S. Martino furono valorosi.

Del soldato Achille Bacci riportiamo il congedo assoluto del regno di Sardegna, firmato dal comandante generale della divisione militare, Mollard, dal colonnello del reggimento, dal maggiore e dal capitano della compagnia, con la seguente motivazione «Ha fatto la campagna di guerra dell’anno 1859 contro l’impero austriaco. Ferito alla natica destra da una palla da moschetto alla battaglia di S. Martino li 24 giugno 1859».

Per quella battaglia fu fregiato anche della medaglia dalla direzione del corpo di spedizione francese a Solferino, comandato da Napoleone III.

Il 2 settembre 1859 il Bacci ripartiva per Volterra con quattro lire in tasca fornitegli dal commissario di guerra Dallavalle per le spese di viaggio. E a Volterra tornò volentieri a fare lo «scoltore», lieto di avere prestato la sua opera per l’unità d’Italia e per aver contribuito alla cacciata di «Canapone».

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Da una lettera del gonfaloniere di Volterra Cav. Tito Cangini, datata 18 Febbraio 1856, si rilevano le istruzioni per i giovani soggetti al reclutamento militare e si raccomandano i parroci di informare i giovani perchè S.A.I. e R. il Granduca aveva stabilito, fra l’altro:

«Nel mese di Dicembre dell’anno precedente quello nel quale compiono l’anno decimo nono di età, tutti i giovani toscani sono obbligati a darsi in nota all’Ufficio del Comune».

«Il giovane che abbia mancato all’obbligo suddetto di darsi in nota verrà rimesso in buon giorno, se si presenta spontaneamente prima che sia fatta I’imborsazìone per la Tratta».

«Il Coscritto che abbia sortito un numero chiamato a far parte del Contingente, e si renda refrattario, sarà arruolato per dodici anni di servizio».

«Un giovane che produca un documento falso sarà compreso in ogni modo nel Contingente e assoggettato a pena non minore della reclusione nella casa di forza di Volterra».

Ma i giovani si rendevano volentieri «refrattari» e appena sapevano che in Piemonte erano aperte le iscrizioni volontarie partivano con ogni mezzo, anche a piedi.

Dal diario di Marco Tabarrini, di famiglia volterrana, che «dalla natia Pomarance era giunto nel 1843 nella dominante del granducato toscano» e che nel 1849 resse anche il ministero della pubblica istruzione, si rileva come egualmente i giovani toscani andassero volentieri in Piemonte ad arruolarsi.

«16 Aprile 1859: Oggi sono partiti un migliaio di Livornesi; una madre ha ricordato ai due suoi figli che suo padre fu ucciso dai tedeschi. Il Bastogi ha dato un francescone a ogni volontario».

«18 Aprile: Oggi si è saputo che a Lucca nella notte sono disertati venti soldati con armi e bagagli».

Evidentemente tutti i mezzi erano buoni per accorrere a combattere al fine di rendere l’Italia libera dallo straniero.

© Pro Volterra, GIOVANNI BATISTINI
Un volterrano ferito a S. Martino. I primi Cacciatori delle Alpi, in “Volterra”