L’affare Dumesnil

In una afosa giornata di luglio 1748 alla porta di S. Pier Gattolino di Firenze, il vescovo di Volterra Giuseppe Dumesnil fu arrestato dalla polizia granducale e rinchiuso nel Forte Belvedere.

Chi era il Dumesnil? Sotto quale imputazione fu arrestato? Il Dumesnil era nato a Toul in Lorena dal cav. Michele Dumesnil, conte di Oeville. Aveva studiato teologia alla Sorbona di Parigi; era dottore di quel collegio teologico e canonico della Cattedrale. Forse fu parente (non saprei dire di quale grado) di Dumesnil Marie Francoise Marchand, attrice di prosa, nata nel 1711 e morta nel 1803, specializzata nelle parti tragiche del repertorio di Racine e di Corneille. Fu vescovo di Volterra il 19 maggio 1748. Era stimato moltissimo per i suoi costumi severi, per la sua grande dottrina.

Aveva già avuto scontri aspri con il senatore Giulio Ruccellai, ministro degli Affari Ecclesiastici del Granducato di Toscana. Il Ruccellai era stato professore di Istituzioni Civili nello Studio di Pisa, dal 1727 al 1730. Fin dal pontificato di Clemente XII egli aveva sostenuto conflitti in materia ecclesiastica con vari elementi del clero toscano e con la curia romana. Fu continuamente attaccato dai curialisti e lodato dai giansenisti (come il Fabroni, lo Zobi, ecc.) e dagli illuministi. Poiché la prima loggia massonica a Firenze fu aperta nel 1733, non è escluso che sia stato sostenuto anche da essa nelle sue prese di posizione anticlericali.

Da diverso tempo, ancor prima dell’arresto di Dumesnil, le relazioni tra Papato e Granducato di Toscana erano tese. Nel 17431 fu pubblicato un decreto della congregazione generale del Santo Uffizio circa la legge sulla stampa, approvata poco prima in Toscana. La legge del 28 marzo 1743 contro “l’uso e la pratica fin ad allora osservati”, sottraeva al controllo del Tribunale della Santa Inquisizione i libri non di carattere religioso, stampati ed introdotti nel Granducato. L’attrito era stato durissimo. Ne fanno fede l’opposizione alla legge dell’arcivescovo di Firenze Gaetano Incontri in data 4 maggio 17432 ed una lettera personale del papa Benedetto XIV all’imperatore granduca Francesco II3. In essa il papa si proclamava dispiaciuto per i danni arrecati dalla suddetta legge ed invitava il granduca a non introdurre pericolose novità nel suo Stato.

Il granduca rispondeva con una lettera in lingua francese, molto diplomatica ed un tantino ironica sotto l’ossequio formale, chiedente spiegazioni più precise, non essendo possibile rispondere a generiche lamentele. Secondo l’imperatore granduca, la legge era stata elaborata per eliminare gli abusi contro i buoni costumi, per il bene e la tranquillità pubblica e non affatto diretta né contro la religione né contro la morale. La “sacra maestà” concludeva il suo scritto invitando il papa  ad un più approfondito esame della legge. Il decreto del Santo Uffizio fu poi abrogato nel 1750. Altro motivo di attrito tra Vaticano e Granducato si avrà più tardi, nel 1747, a proposito degli accordi commerciali stipulati dalla Toscana con l’impero turco.

IL CONFLITTO TRA DUMESNIL ED IL RUCCELLAI

Tornando alle relazioni personali tra Dumesnil ed il Ruccellai, risulta che tra i due c’era stato un incidente in casa dell’arcivescovo di Pisa monsignor Guidi4. Il Ruccellai era accusato, in certi ambienti cattolici, di professare le massime del diritto canonico francese favorevole ad una maggiore indipendenza del clero da Roma. Ne mancavano però le prove concrete e le testimonianze autorevoli ed il Dumesnil avrebbe tentato di fare l’agente provocatore inducendolo ad affermazioni compromettenti, fingendo di essere favorevole a quelle tesi anche lui. A detta dei cronisti contemporanei giansenisti, il tranello sarebbe stato sventato, ma il canonico Dumesnil avrebbe composto ugualmente una storiella che avrebbe divulgato a discredito del Ruccellai non solo a Firenze, ma facendola pervenire anche a Roma nelle mani di papa Benedetto XIV che, con lettera del 12 agosto 17475, si congratulò con il già designato vescovo di Volterra “per il sacerdotale coraggio e per la buona dottrina” dimostrata nel rintuzzare gli argomenti “velenosi” del Ruccellai.

Di tenore ovviamente diverso è la lettera del Ruccellai6 all’imperatore granduca sulla stessa faccenda. Il senatore sostiene di aver affermato che il diritto canonico francese non conveniva affatto allo Stato toscano e dice che il canonico Dumesnil, già prescelto per la Chiesa di Volterra, non doveva certamente pensarla diversamente da lui. Afferma di avere conservato un religioso silenzio su tutte le chiacchiere e le dicerie del Dumesnil a suo carico e si lamenta che, per il suo ufficio, egli debba essere sempre in contatto con “al sommo irritabili persone, convinte di potersi impunemente procurare i loro interessi, che chiamano i propri diritti”.

La nostra modesta impressione è, dopo una attenta lettura di tutti i documenti relativi, che la cultura e la superiorità dialettica del Dumesnil dovevano aver veramente fatto fare una brutta figura al ministro. Il che, del resto, non è molto difficile ottenere anche ai nostri giorni.

Intanto, forse anche nascondendo alla curia romana molti retroscena e molte di queste irritazioni della corte granducale nei suoi riguardi, il Dumesnil, come abbiamo detto, il 19 maggio 1748 fu consacrato vescovo di Volterra. Il nuovo presule stampava nella stessa data la prima ed ultima sua pastorale diretta al clero ed ai fedeli della diocesi volterrana7. Parlava del “pesante e pericoloso ufficio episcopale accettato” ed invitava i Volterrani “a pregare senza interruzione per il loro Vescovo” affinché “con le parole e con l’esempio giovassero alla debolezza delle sue forze”.

Sotto queste generiche proposizioni non è difficile intravedere una effettiva preoccupazione del neo vescovo per la situazione difficile che lo attendeva sul poggio volterrano.

La reggenza toscana si meravigliò per la consacrazione del vescovo che non aveva avuto il suo placet e che si rifiutava di ottenere l’approvazione granducale ed informò subito il sovrano a Vienna. Il conte Mingazzi, ambasciatore imperiale a Roma, presentò al papa ed al suo segretario di stato cardinal Valenti energiche proteste ed al Dumesnil fu comunicata la decisione imperiale che prevedeva il suo esilio perpetuo dalla Toscana. Il papa ordinò al vescovo di non lasciare Roma senza il suo permesso. Egli, invece, partì per la sua sede vescovile poiché, forse, temeva che, senza l’effettiva presa di possesso, la sua nomina potesse essere revocata. Le autorità ecclesiastiche e civili di Volterra, prevenute e dalla polizia granducale e dagli organi vaticani, non lo assecondarono negli atti di presa di possesso e fecero vuoto intorno a lui. Ma la crisi lasciò tracce profonde nella nostra diocesi. Senza un pieno governo pastorale si rilassarono molto la disciplina ed i costumi del clero. Il 13 luglio 1748 egli si presentò alla Cattedrale ed al Seminario di Volterra, accompagnato da alcuni ecclesiastici e laici venuti da fuori. Poi si mosse alla volta di Firenze, forse per andare a conferire o con l’arcivescovo Incontri o con le autorità granducali per una spiegazione. Come abbiamo detto fu arrestato alle porte della città per aver contrastato la volontà dell’imperatore che l’aveva condannato all’esilio e per aver contravvenuto alla prassi giurisdizionalista in vigore. Gli furono confiscati molti documenti che aveva con sé e fu internato nel Forte di Belvedere.

FRENETICA ATTIVITA’ DIPLOMATICA

L’arresto mise in moto le cancellerie del Vaticano, dell’arcivescovado di Firenze, della reggenza granducale, della corte imperiale di Vienna. Il papa chiese all’arcivescovo di Pisa una esatta relazione su ciò che era accaduto tra il Dumesnil ed il Ruccellai. Accenniamo rapidamente a questo carteggio inedito che si trova nell’Archivio del Capitolo della Cattedrale di Volterra (Lettera all’Incontri).

In data 3 agosto 1748 il cardinale segretario di stato Valenti sollecita l’arcivescovo di Firenze Incontri (che è volterrano) ad andare a trattare con il Dumesnil ed a riferire subito. Il Valenti, successivamente, accusa ricevuta della lettera informativa e risponde brevemente ed amaramente, lamentando la nequizia dei tempi. L’Incontri, in data 4 settembre 1748, scrive al vescovo Dumesnil incarcerato accludendo copia degli atti pontifici con cui si comunicavano le censure ecclesiastiche in cui era incorso violando le disposizioni canoniche di Giovanni XXII Ut praelatorum e Et si deceat de majoritate et oboedientia. L’atto dell’Incontri di accludere documenti del genere mi sembra, in verità, pericoloso e ingenuo diplomaticamente. Con biglietto del settembre 1748 Giovan Antonio Tornaquinci, segretario di stato della reggenza, accusa ricevuta all’arcivescovo Incontri delle lettere suddette per passarle al Dumesnil. Il 7 settembre 1748 l’arcivescovo di Firenze avvisa il papa di aver comunicato tutto al Dumesnil. Il 14 settembre 1748 il segretario Tornaquinci dà disposizioni perché l’arcivescovo Incontri possa liberamente accedere al Forte del Belvedere per visitare l’illustre prigioniero. Il 15 settembre 1748 avviene la prima visita del prelato al vescovo di Volterra che è in carcere “amareggiato, pieno di sospetto e irritato”. Il Tornaquinci afferma in una lettera che “dopo la visita, se ne era accresciuta la ostinazione e l’alterigia” e afferma che comunque “si spera nell’ultimazione amichevole del negozio”.

Il 16 settembre 1748 l’arcivescovo Incontri scrive al Tornaquinci su di una seconda visita al Dumesnil. Il 17 settembre 1748 l’arcivescovo informa il papa Benedetto XIV che non ha ricavato risultati concreti da tutti i suoi approcci. Il Dumesnil è irremovibile.

Dai carteggi risulta che sia la Santa Sede che il governo granducale avevano una grande fretta di risolvere l’affare che aveva destato grande scalpore in tutte le cancellerie d’Europa. Il governo toscano voleva liberarsi del tenace vescovo e nel gennaio 1749 lo fece trasferire a Roma dove rimase relegato in Castel Sant’Angelo fino alla morte avvenuta il 13 marzo 1781. Con lui furono banditi dalla Toscana, un gesuita, un prete, un chierico, suoi aperti fautori. Nel carteggio si allude più volte, da ambedue le parti, ad una cabala che potrebbe formarsi intorno al caso Dumesnil. A Roma forse si temeva di vedere istruire un processo Mindzenty a carico del Dumesnil. Dal momento del suo imprigionamento in Castel Sant’Angelo le notizie sono sempre più reticenti e confuse. La diocesi volterrana, rimasta vacante (il Dumesnil è, ormai, vescovo a tutti gli effetti), viene affidata a vicari apostolici. Il primo fu l’abate Jacopo Inghirami. Il 21 luglio 1755 con il titolo di vescovo in partibus Zenoboli, fu nominato coadiutore il canonico volterrano Filippo Nicola Cecina. Da 1768 al 1782 con il titolo di vescovo in partibus di Solea, fu eletto coadiutore del Dumesnil Alessandro Galletti, patrizio volterrano. E decadde, di conseguenza, anche la morale del popolo specialmente nelle campagne. Il papa Benedetto XIV ritornò su questo caso nel Concistoro segreto del 21 luglio 1755 con cui informò il Sacro Collegio dei cardinali della incolpabile inabilità del vescovo di Volterra ad amministrare la sua diocesi, annunciando provvedimenti di emergenza. Nell’agosto del 1748, in una lettera all’arcivescovo Incontri, aveva detto che il vescovo di Volterra si era “comprata a quattrini contanti la sua disgrazia”8. In data 12 aprile 1748 Benedetto XIV aveva informato l’imperatore granduca sulla incolpabile impenitenza del Dumesnil in risposta ad una richiesta imperiale. Nella Allocuzione ai cardinali, sopra citata9, il papa parla della triste condizione del vescovo irremovibilmente ostinato e sempre più chiuso in sé stesso. Le espressioni sono “melanchonica affectio”, “infelix conditio”; il prelato è assistito, inutilmente a quanto pare, da vari medici. Anche un tentativo di farlo vivere in un appartamento fuori del castello insieme ai suoi familiari, sembra sia fallito.

Il Dumesnil era veramente impazzito o lo si volle far passare per tale? Quali segreti si celavano sotto questa segregazione? Non sono il commissario Maigret e non sono in grado di dare una risposta esauriente. Comunque ecco quanto mi sembra di poter dire. Forse il Dumesnil si era fidato troppo di alcuni amici romani appartenenti al partito degli intransigenti in materia di relazioni tra Stato e Chiesa; forse non aveva capito, lui straniero, che nel nostro paese bisogna spesso guardarsi più dagli amici che dai nemici. Fu un impulsivo, per niente diplomatico; forse diventò esasperato per la profonda amarezza e per quello che riteneva assurda incomprensione del suo buon diritto. Ma non ci sembra di aver trovato le prove irrefutabili della sua pazzia. Testardo come ogni buon lorenese, questo si; fedele, forse troppo alla lettera, al detto “Mon Dieu et mon droit”. Da Giovanna d’Arco a De Gaulle la terra di Lorena ha fornito molti  campioni di questo stampo. Era forse un uomo fuori del tempo. La sua figura è patetica come quella di ogni sincero ed onesto conservatore. Il mondo cambia continuamente intorno ed uno finisce per rimanere prigioniero di ideali, regole, forme di vita che lo rendono strano, diverso dagli altri.

Fu superbo il Dumesnil? Può darsi. Era nobile di nascita ed aveva un’alta coscienza della sua posizione di vescovo. Forse ebbe la presunzione di valere più di quello che in realtà valeva. Il superbo finisce col perdere la sua libertà spirituale, la sua disponibilità verso la vita. Ossessionato da sé, dal personaggio che incarnava non si abbandonò, non si concedette a nulla. Per salvare la sua personalità forse la intristì e la isolò dal mondo.

Nelle 20 diocesi toscane, con 19 vescovi residenti nel Granducato, con altri 13 vescovi forestieri che avevano giurisdizione spirituale sopra alcune parti del territorio, casi di scontri tra autorità civile ed ecclesiastica erano molto frequenti.

Nel 1743 il vescovo di Pienza era entrato in urto con il Ruccellai. In occasione delle nozze dell’arciduca Giuseppe, questo vescovo si rifiutò di cantare il Te Deum e di contribuire al donativo affermando di essere consacrato principe della Chiesa e di non poter riconoscere altra autorità superiore al papa10. Già precedentemente “il Governo riguardava il prelato qual uomo alienato di mente”.  Dopo questa sua posizione fu espulso con altri tre preti. Lo stesso avvenne a proposito di Giustino Bagnesi, vescovo di Chiusi, per un contrasto sulle licenze di caccia ai preti, privilegio che egli intendeva riservare a sé e non alle autorità civili. Anche di questo vescovo gli ambienti ufficiali fecero spargere la voce che era uomo non sano di mente. E francamente ci sembra un poco troppo. Non potremo mai arrivare a credere in una epidemia di demenza tra l’alto clero toscano dell’epoca. Il sistema di far passare per pazzi o strambi o fissati i propri avversari è in vigore, del resto, anche ai nostri giorni. Quante volte dinanzi ad un individuo tenace in ciò che crede il suo buon diritto, si sente dire: «E’ un fissato!».

STATO E CHIESA NEL SETTECENTO

Per capire bene la situazione occorre calarsi nel clima della Toscana di quel periodo. Il sovrano cercava di aumentare la propria autorità e la propria forza all’interno. Si voleva abbattere tutto ciò che arrestava ed ostacolava la potestà sovrana. La concezione dominante nelle classi dirigenti era questa: di fronte ad una infima minoranza di menti illuminate i popoli sono greggi di sciocchi sempre disposti a farsi mettere in mezzo dai più furbi. Nella foga di colpire i pregiudizi si colpivano anche sinceri sentimenti religiosi. Si difettava di valutazione storica e si colpivano tradizioni ed istituzioni ancora viventi nella gente, dal cui risveglio, nell’Ottocento, prenderà alimento la coscienza nazionale del popolo.

Inoltre i Lorena cercavano sempre di creare una Chiesa autonoma dinanzi al papa e completamente nelle loro mani. Il granduca Leopoldo, per questa sua mania di intrufolarsi nelle faccende della Chiesa, fu chiamato Re sagrestano. Dumesnil fu una delle vittime più tragiche di questa lotta.

Nella classe dominante dell’epoca (e del resto anche quella dei nostri giorni non sta certo molto meglio) c’era spesso formale affettazione di sentimenti religiosi ma al fondo esisteva un epicureismo sensuale e con esso erano assenza di fede e scetticismo religioso. Un noto proverbio veneziano del Settecento si poteva benissimo adattare alla Toscana dell’epoca: «Alla mattina una messeta, al dopodisnar una basseta, ed alla sera una doneta».

Che dire dell’atteggiamento di papa Benedetto XIV su questa questione (prima si congratula col Dumesnil, poi lo riprova ed incarcera) e sulla sua politica ecclesiastica in genere? Il Balan e lo Hergenrother ed altri storici ecclesiastici moderni, con parole più o meno dure, biasimano questo pontefice per l’eccessiva arrendevolezza alle pretese dei governi del tempo. In realtà Benedetto XIV, la cui figura è stata resa popolare dal celebre dramma del Testoni Il Cardinale Lambertini, comprese che certe forme di presenza della Chiesa non rispondevano più al momento storico in cui egli viveva. Forse gli mancò il coraggio di svincolare la Chiesa da forme esteriori sorpassate. Ma non fu affatto un debole. Fu un papa del Dialogo con il mondo e con la sua bonomia e tolleranza mi ricorda, un poco alla lontana, anche per i suoi rapporti con il mondo protestante, la figura di papa Giovanni XXIII. Tentò di distaccare il papato dalle beghe politiche in modo da attendere alla ricostruzione religiosa delle coscienze attaccate dal razionalismo illuminista. Certe intransigenze ed asprezze del Dumesnil non potevano rientrare nella linea politica del cardinale Lambertini, amico di un Bottari, di un Faggini, giansenisti, non molto favorevole ai gesuiti, in relazione epistolare perfino con Voltaire.

Dumesnil si attardò, e dobbiamo dire coraggiosamente, nella rivendicazione di posizioni ormai storicamente superate e, non avendo ascoltato i consigli della duttile ed intelligente politica papale, fu messo in disparte. Del resto non era il solo a non capire gli intendimenti di Benedetto XIV che fu il papa di molti concordati tra Stato e Chiesa. Quello che spesso non arrivavano a capire molti delle due parti contendenti era il problema della distinzione e non separazione tra Stato e Chiesa, ambedue agenti su di uno stesso soggetto: l’individuo, cittadino e credente. Ma proprio una soluzione concordata non piaceva, in Toscana, ai difensori della religione laica illuminista dello stato assoluto.

Non si arrivava a capire spesso (e molti non lo comprendono neppure adesso), né da parte di molti cattolici né da parte di molti laicisti, la necessità di un equilibrio, non statico ma dinamico, che potesse consentire alla Chiesa di inserirsi nel tempo senza legarsi ad esso e senza identificarsi con nessun tipo di civiltà e di struttura politica.

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
L’affare Dumesnil, in “Volterra”, marzo 1965; in “Scritti Volterrani” (a cura di Gianna Bertini, Enrico e Fabrizio Rosticci), Pisa, a. 2004, pp. 81-87
1 Zobi Antonio, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848. Vol. I, appendice, p. 33. Firenze, 1850.
2 Archivio del Capitolo della Cattedrale di Volterra, Lettere all’Incontri.
3 Zobi Antonio, op. cit., vol. I, appendice, p. 35.
4 Ibidem, p. 272.
5 Ibidem, appendice, p. 46.
6 Ibidem, appendice, p. 48.
7 Biblioteca Guarnacci Volterra, Filza 45, doc. 14.
8 Zobi Antonio, op. cit., appendice, p. 45.
9 Leoncini Gaetano, Illustrazione sulla Cattedrale di Volterra, p. 433. Siena, 1869.
10 Zobi Antonio, op. cit., vol. I, p. 393.