A Luigi Scabia, figura cruciale nella storia del manicomio volterrano, sono state attribuite molte definizioni: direttore manager, pianificatore urbanista, coraggioso antifascista1. A mio avviso, è quello di “costruttore” l’aggettivo che meglio si addice al personaggio in questione perché coglie più squisitamente il tipo di impegno che egli dedicò all’espansione dell’istituto di San Girolamo e di fatto alla fondazione del manicomio-villaggio. La straordinaria operosità che quotidianamente e fattivamente Luigi Scabia investì nell’edificare il “suo” frenocomio fu, infatti, davvero straordinaria, riuscendo a realizzare una delle esperienze manicomi ali più originali del Novecento italiano2.
L’esperienza è però troppo spesso dimenticata nelle sintesi storiografiche sugli istituti psichiatrici italiani3. Queste, a mio avviso, le possibili ragioni: in primo luogo, a causa della sua collocazione geografica periferica; in secondo luogo, perché essenzialmente novecentesca e dunque rientrante in un arco cronologico meno frequentato dagli storici della psichiatria; infine, perché significativamente anacronistica rispetto alla riflessione teorica e alla pratica manicomiale del tempo. Si tratta, infatti, di un’esperienza davvero sui generis su cui avrò ovviamente modo di tornare.
Luigi Scabia nasce il 16 luglio del 1868 a Padova, dove, nel 1893, si laurea in medicina con una tesi in Clinica psichiatrica4. Prima medico aggiunto presso il manicomio femminile di San Clemente a Venezia, avrà poi modo, a partire dal 1897, di approfondire la sua impostazione strettamente positivista presso il manicomio di Genova, dove ricoprirà l’incarico di medico assistente fino al 1900 e dove frequenta la locale clinica psichiatrica al tempo diretta da una delle figure più eminenti della psichiatria italiana: Enrico Morselli.
Nel 1900 giunge a Volterra, ancora molto giovane quindi, in qualità di Direttore dell’Asilo dei Dementi, al tempo amministrato dalla Congregazione di Carità. Nella cittadina toscana diverrà anche, secondo un’antica consuetudine, una figura – neppure troppo originale in verità – di notabile locale: sarà infatti consigliere comunale dal 1905 al 1914, vicepresidente dell’associazione monarchica, presidente del regio Conservatorio di San Pietro e della Regia Scuola Industriale per l’Alabastro e, dal 1924, presidente della Regia Scuola d’Arte; ricoprirà inoltre alcune cariche nella gestione di diverse associazioni di interesse economico e culturale in città. Relativamente a queste attività, sarà legato ad Arnaldo Dello Sbarba, deputato, ministro e figura di primo piano della politica locale e nazionale5.
Nel corso del primo conflitto mondiale è chiamato alla Direzione degli Spedali Riuniti di Santa Chiara a Pisa dove erano stati collocati gli ospedali militari della città, nonché di quello dei prigionieri di guerra di Calci6. Finita la guerra, nel 1919, è invitato dal Prefetto di Pisa a combattere una terribile epidemia di vaiolo che si era diffusa in una vasta area della provincia, esattamente a Lègoli. Qui istituisce una sorta di lazzaretto, riuscendo a circoscrivere l’epidemia.
La sua mancata adesione al fascismo, nonostante vari tentativi di dialogo con il regime – più volte egli avanza infatti precise richieste presso le autorità fasciste al fine di ottenere risultati concreti per l’istituto – gli costa l’anticipata e forzosa collocazione a riposo. Il tutto, come consuetudine, è preceduto da un lungo periodo di isolamento, che non esclude qualche attacco più diretto e violento.7
Le accuse ebbero spesso tratti davvero meschini: nel 1922 sulla stampa locale compare un’anonima protesta di un gruppo di infermieri ex combattenti che affermarono di non aver potuto partecipare alla cerimonia della celebrazione della Vittoria, il 4 novembre, perché trattenuti in servizio. La risposta di Scabia, pacata e decisa, riferisce che la rappresentanza dell’ospedale era stata del tutto ampia ed adeguata, con relativa bandiera, e non priva di qualche aggravio per il servizio. Accusato anche di aver protetto dei “sovversivi” nel 1921, facendoli assumere come infermieri, tra il 1927 ed il 1928 entrerà più esplicitamente nel mirino delle autorità fasciste: in più occasioni i commissari governativi chiaramente cercarono dei pretesti per estrometterlo, finendo persino con l’accusare Scabia di aver svolto attività antifascista sia in servizio sia in città. La polemica nata attorno all’allontanamento di quaranta infermieri di fede fascista – perché fascisti secondo l’accusa, perché non svolgevano i loro compiti secondo la difesa – rende ben esplicito il clima generale. La campagna contro Scabia divenne martellante nel 1931, quando cominciarono a circolare insinuazioni ed accuse che spaziavano da questioni di tipo personale alle simpatie politiche e al comportamento professionale. La vicenda assunse poi l’aspetto di una vera e propria campagna denigratoria condotta sulla base di imputazioni pretestuose, incontrollabili o palesemente infondate. Nel 1934 venne avanzata persino l’ipotesi di una diretta dipendenza del manicomio dal ministero; Scabia sarà ancora una volta sottoposto ad un’altra inchiesta che non porterà a nulla, se non ad una serie di sigilli e controlli persino nella sua abitazione, finché si profila la soluzione di un suo anticipato collocamento a riposo8,
Dopo una breve malattia, Luigi Scabia conclude la sua vita il 20 ottobre del 1934 presso il centralissimo Hotel Etruria, dove si era trasferito nel settembre dello stesso anno, dopo aver lasciato l’abitazione occupata in qualità di direttore del Frenocomio. Le autorità significativamente impongono il funerale alle cinque del mattino «per impedire ai cittadini di tributare l’estremo commosso omaggio al loro papà».9 Ma il trasporto funebre si trasformò in una manifestazione silenziosa, di elevata dignità umana e di coraggio, nonché di larvata opposizione al regime.
Per quanto riguarda il suo percorso scientifico, l’aspetto più interessante è rappresentato da un contenuto distacco che Scabia compie, proprio dopo essere divenuto direttore del frenocomio di San Girolamo, dalla cultura positivista, al cui interno si era formato e che aveva interamente abbracciato in una prima fase per approdare poi verso un approccio più aperto e lievemente critico. I suoi primi contributi scientifici esprimono infatti un chiaro interesse per i temi dell’antropologia fisica e utilizzano categorie proprie della cultura positivista, prima tra tutte quella di “degenerazione”. Ne è un esempio lo studio sulla conformazione della mano nei malati di mente, frutto di un’indagine condotta nel 1894: in questo caso la ricerca spasmodica per il dato quantitativo esaurisce tutta la spinta euristica in sé, non approdando di fatto a nessuna nuova acquisizione. La ricerca infatti conferma alcune caratteristiche rilevate in base a criteri razziali e a quelli morali, avvalorando tesi al tempo note come quella secondo cui le prostitute risulterebbero avere una mano più lunga delle donne normali o, ancora, evidenziando le differenze antropometriche su base razziale10.
Giunto a Volterra ha modo di eseguire l’autopsia su una degente appena defunta in cui Scabia trova la conferma di un’ipotesi – di netta impostazione positivista – già avanzata quando a Genova aveva svolto un’intensa attività come anatomopatologo: una chiara corrispondenza tra l’epilessia e l’anomalia del midollo allungato11.
Al concetto di degenerazione, Scabia dedica moltissima attenzione: riprende infatti temi più classicamente positivisti come quello delle manifestazioni artistiche dei malati di mente lette come dimostrazione di una fisiologica degenerazione12.
Ancora espressione di un fatto degenerativo viene interpretata la poliuria13, mentre sugli effetti dell’atropina sulla frequenza del polso sulle varie psicopatie si sofferma in uno studio condotto, con il collega Stefani, sempre negli stessi anni14. Nel compresso, mi pare che Scabia si ponga come obiettivo quello di mettere in correlazione i disturbi mentali con le lesioni anatorno-patologiche, con le possibili disfunzioni del sistema nervoso, ma anche con l’anomalia costituzionale presupposta dalla teoria delle degenerazione. Con tutta evidenza, quindi, Scabia è perfettamente inserito nell’ambito del dibattito psichiatrico italiano del tempo.
La produzione scientifica di Scabia, che forse voleva preludere ad una carriera accademica, si conclude, o quasi, in coincidenza con l’incarico di direttore al manicomio di Volterra, al quale si dedicherà in modo sempre più esclusivo15. Il 1900 è comunque anche l’anno di pubblicazione del suo Trattato di terapia delle malattie mentali, mentre l’anno successivo vedrà la luce la sua Guida dell’infermiere dei malati di mente nella Casa e nel Manicomio, articolata in quattordici lezioni16. Del periodo successivo, va ricordato il suo impegno come perito legale e la pubblicazione di alcune perizie tra il 1902 ed il 1906 e poi ancora nel 192517.
Il nome di Scabia è tuttavia principalmente e giustamente legato alla sua originale organizzazione del manicomio di San Girolamo. Non stupisce se, per questa esperienza sarà apprezzato all’estero, in Svizzera ad esempio, ma emarginato in Italia. Ad eccezione di Marco Levi Bianchini, contenuti saranno di fatto gli attestati di stima e di solidarietà da parte dei colleghi soprattutto nei momenti di difficoltà cui lo costrinse il regime fascista20, mentre furono evidenti la distanza e i sentimenti di estraneità della Società italiana di psichiatria, al tempo presieduta da Arturo Donaggio, psichiatra firmatario del celebre Manifesto degli scienziati razzisti del 1938, verso la sua vicenda personale e professionale.
In un testo inedito di memorie, Luigi Scabia se da un lato ricorda con orgoglio come il piccolo cronicario fosse diventato in poco tempo uno dei più importanti ospedali psichiatrici del paese, dall’altro non nasconde le tante amarezze causate dalle ostilità dei colleghi per le scelte operate a Volterra19.
Come sempre accade, nei decenni successivi alla morte, quando anche la chiusura dei manicomi spinse le coscienze di tanti ad interrogarsi su cosa siano state queste istituzioni, l’esperienza volterrana di Scabia, che con tutta evidenza presentava uno sguardo più umano a tutta la complessa vicenda dell’internamento, cominciò a ricevere più congrue attenzioni. Altrettanto tardivo, ma pur sempre onorevole, sarà il riconoscimento che l’intera collettività e la comunità scientifica attribuiranno all’opera, alla dedizione e alla persona di Luigi Scabia20.
Dal punto di vista della gestione complessiva dell’istituzione, Scabia introduce delle novità alquanto significative che segnano un cambiamento importante in tutta la dinamica di relazione tra manicomio e società, tra istituzione e il suo territorio: all’indomani del suo arrivo, infatti, il neo-direttore avvia una serie di trattative per stipulare delle convenzioni in base alle quali intere classi di ricoverati provenienti da altri istituti saranno accolti al frenocomio di San Girolamo. La novità non è sfuggita a Fabio Stok, che al riguardo ha scritto come questa operazione introducesse un «elemento potenzialmente dirompente» in una situazione in cui i manicomi esistenti nel paese servivano più o meno al proprio naturale bacino d’utenza21. Ma è ovviamente la qualità del rapporto tra istituzione e territorio ad essere sensibilmente modificata: da una attenzione che almeno al momento di ingresso era “singolare” ed individuale si passa ad una logica del tutto seriale; classi, per l’appunto, di soggetti grosso modo accomunati da una generica ed omogenea gravità vengono collettivamente spostati da un luogo ad un altro. Si impone, quindi, come ho già anticipato, una semplificata logica seriale in base alla quale classi di soggetti vengono totalmente gestiti dalle diverse Direzioni mediche e trasferite da un manicomio ad un altro.
Tale novità in primo luogo instaurò una logica di tipo “industrialista” nella gestione della malattia mentale; in secondo luogo, fece cadere quell’attenzione alla relazione squisitamente personale tra medico e paziente che, sia pur approssimativamente messa in pratica, era stata un cardine teorico del paradigma psichiatrico; fu abbandonata, infine, su larga scala, quella particolare relazione tra famiglie e manicomio fortemente improntata alla mediazione e, talvolta, alla condivisione della responsabilità nella “gestione” dei pazienti propria dell’esperienza ottocentesca.
La scelta di avviare le innumerevoli convenzioni – pressoché con tutte le province italiane – suscitò all’interno della corporazione psichiatrica non poche critiche. Già a partire dalla prima convenzione, quella stipulata con la provincia di Porto Maurizio, Scabia ricevette un giudizio negativo da parte di molti psichiatri del tempo, tra i quali anche quello del suo amico Enrico Morselli. Ed ancora Tanzi e Lugaro, nel loro importante trattato, condannarono l’esperienza di Volterra soprattutto per le varie convenzioni con province lontane dalla cittadina toscana. Forse, però, ci si dimenticava che un po’ ovunque, a partire dalla fine del XIX secolo, le Direzioni mediche avevano intrapreso significative operazioni di smistamento per i “cronici”; pur tuttavia il caso volterrano aveva un’accentuazione quasi parossistica. Le critiche espresse non risparmiarono inoltre aspetti più minuti: furono avanzate riserve sui modi in cui furono realizzati tal uni trasferimenti (viaggi in treni speciali) e sulle sofferenze e sui disagi cui venivano sottoposti i malati nel corso delle stesse operazioni. Al riguardo è lo stesso Scabia che ci offre un colorito resoconto:
[…] bisognava osare e trasportare in una sola volta gli alienati tutti da Como a Volterra. Presi accordi con le ferrovie, si stabilì di fare un treno speciale che feci attrezzare con ogni cura collocando anche nel centro una vettura per uso infermeria. Era il primo treno che correva in Italia trasportando un intero Manicomio! […] ci fu gridato il crucifige. Cominciò la stampa avversa, la socialista, a pubblicare articoli dal titolo «Carne da cannone». Delle accuse ce ne siamo infischiati perché balorde e a tutti rispondemmo di buon inchiostro22.
Fu evidenziato, inoltre, come la ricerca di accaparramento di quote sempre maggiori di malati divenne un obiettivo costantemente perseguito, che però finiva evidentemente con l’allontanare l’istituto dagli intenti assistenziali e terapeutici.
In verità Scabia fu tra i primi a rendere esplicita una prassi e – direi – un “bisogno di clienti” che contraddistinsero squisitamente tutte le relazioni tra istituzioni ospedaliere e territorio nel Novecento. Tra le finalità perseguite dalle amministrazioni di assistenza, infatti, si impose chiaramente l’esigenza di potenziare “industrialmente” le strutture di accoglienza. Facendo un piccolo balzo cronologico in avanti, ricordo quanto sia significativo il fatto che dinanzi al crollo delle presenze, verificatosi durante il secondo conflitto, gli amministratori del tempo si posero subito il grave problema di ricercare nuove fonti di attività e di ricoveri, senza i quali si sarebbe dovuto necessariamente ricorrere ad un ridimensionamento sia delle strutture sia dell’organico del personale. Non era infatti possibile tenere in attività un’attrezzatura creata per 5000 persone quando le presenze erano scese a 180023.
La prassi delle convenzioni sollecitò, comunque, un cambiamento importante che va approfondito: ho già sottolineato infatti il tendenziale abbandono dell’attenzione ad ogni singolo paziente che, almeno nelle intenzioni teoriche del primo alienismo e via via nelle riflessioni di tal uni psichiatri, era stata a lungo auspicata. Lo stesso Scabia scrive al riguardo della cura morale, proprio nel suo Trattato, passaggi molto importanti e precisi:
[…] l’alienista dovrà conoscere la vita, le abitudini, l’educazione, le condizioni famigliari, lo stato sociale dell’individuo e tutto, tutto ciò che si riferisce a lui e al suo ambiente.
Dovrà conoscere il suo malato intus et in cute, avendo sempre presente che più che la cura morale l’alienista fa le singole cure morali. Egli deve estrarre dalla sua anima (Magnan), dal suo cuore, dalla sua esperienza i mezzi morali che convengono a ciascun malato; deve farlo perché la materia medica psichica (Krafft-Ebing) è inesauribile24.
Luigi Scabia prosegue l’argomento secondo cui è impossibile prestare questa attenzione in uno stabilimento che ospita 800-1000 malati; e sarà lui stesso nei decenni successivi ad adoperarsi per raggiungere risultati ben superiori. La contraddizione in cui cade è quindi del tutto evidente.
L’idea che l’alienista, dotato di indiscusse e notevoli doti umane, dovesse prestare attenzione ad ogni singola personalità ed intrattenere con ciascun malato una relazione qualitativamente importante è un postulato dell’alienismo, la cui origine e il cui modello in termini di modalità di relazione di potere risalgono, a mio avviso, a ciò che Michel Foucault ha indicato come tecnica pastorale di potere25. La relazione medico-internato prevedeva, infatti, che il primo avrebbe dovuto «sapersi procurare la stima, la simpatia, l’amicizia, la sottomissione dei suoi malati»; il medico, inoltre, sarebbe dovuto essere capace di «agire con coscienza conoscendo ed avendo studiato il malato» ed essere cosi perseverante da mantenere «una conversazione continua coll’alienato». Ed ancora:
Al malato che espone le sue idee deliranti, l’alienista dia ascolto con la serietà che merita ogni esame medico […]26.
La politica delle convenzioni ad ampio raggio, con tutta evidenza quindi, ha segnato una irreversibile cesura rispetto a questa modalità di relazione.
In questa direzione fu quanto mai puntuale la critica che molte commissioni di vigilanza mossero a Scabia per l’approssimazione e la genericità con cui venivano redatte le cartelle cliniche al San Girolamo, prive in effetti di indicazioni accurate sulle origini e sugli sviluppi della malattia. Tale trascuratezza nella redazione delle cartelle era ovviamente la spia di una relazione medico-paziente forse troppo approssimativa e costituì, per l’appunto, la critica che – accanto alla mancata attivazione della scuola per infermieri, all’assenza di una biblioteca ad uso dei sanitari (era attivo solo un gabinetto scientifico), ad un eccessivo sovraffollamento delle strutture – sistematicamente le periodiche ispezioni finivano con l’evidenziare.
A tutte queste critiche Scabia rispondeva facendo riferimento alla mancanza di personale sanitario27.
In che modo, però, sono stati potenziati operativamente i flussi di ricovero? Fulcro di tutto il nuovo sistema di gestione è stata ovviamente l’alta competitività del costo della retta, che ha stimolato le richieste di moltissime province. Quella di Genova è, ad esempio, tra le più presenti nelle richieste di ospitalità: nel 1905 essa avanza formale domanda per un numero di cronici che potevano variare dalle cento alle duecento unità. Pur senza dimenticare la priorità riservata ai malati gravanti sulla provincia di Pisa, tale richiesta costituirà per il direttore Scabia, secondo un suo stile davvero peculiare, l’occasione per sollecitare la Congregazione di Carità alla costruzione di un nuovo padiglione. L’anno successivo, esattamente nel novembre del 1906, sempre la provincia di Genova avanza un’altra richiesta di internamento a Volterra per ben quattrocento alienati, riconoscendo le ottime condizioni proposte dall’istituto28. La competitività sui costi della retta costituirà sempre uno dei punti di forza su cui farà leva l’intera «impresa manicomio» a Volterra.
Anche in riferimento a questi aspetti matura, nel marzo del 1909, la richiesta della deputazione provinciale di Livorno di ricoverare presso le stanze di osservazione dell’ospedale volterrano “i propri malati”: nonostante presso i RR. Spedali Riuniti di Livorno fossero in funzione delle stanze di osservazione, la richiesta è esplicitamente sostenuta «per motivi finanziari». La domanda, si precisa in una missiva successiva, prevede l’invio di circa otto ricoverati al mese per una durata media dell’osservazione che si attesta sui dieci giorni. Il direttore Scabia, in una risposta del 29 maggio, accoglie la richiesta trattandosi anche di cifre esigue, «avvertendo però che sarà necessario provvedere ad una sezione separata e distinta»29. Ancora una volta la logica che persegue è quella della costruzione di nuovi reparti.
Scabia si batte fortemente per accaparrarsi fette importanti di questo originale mercato; nel suo scritto inedito scrive esplicitamente:
[…] considerato che nel nostro sorgente istituto le spese generali erano limitatissime, primitive ancora, ho offerto delle condizioni all’osso […]. Bisognava vincere – mettere le basi del futuro manicomio30.
Gli sviluppi successivi andranno infatti nella direzione “industrialista” tanto da segnare profondamente la fisiologia del rapporto tra società ed ospedale. Secondo un’antica tradizione, nell’Italia ottocentesca, come ho già anticipato, sia i ricoveri sia le dimissioni erano spesso accompagnati da pratiche di mediazioni, tessuti sulla base di variabili importanti, nei quali le famiglie svolgevano un ruolo spesso decisivo: ora infatti esse esprimevano l’esigenza di trattenere il malato in casa (per motivi affettivi o di impiego lavorativo), ora – viceversa – chiedevano il ricovero presso un manicomio in coincidenza con momenti specifici e difficili del ciclo di vita familiare. D’altra parte anche le direzioni mediche interloquivano e spesso condividevano la stessa logica di gestione dei ricoveri, manifestando un’attenzione, sia pur approssimativa, alle storie individuali di ciascun ricoverato31. Questo sistema di relazioni viene meno, già a partire dalla fine dell’Ottocento, in virtù della crescita di potere decisionale degli psichiatri e subirà ovviamente un crollo decisivo con l’adozione di una politica di gestione del malato che segue logiche di tipo seriale, come quelle descritte. Una logica di ricoveri basata sulle convenzioni con province lontane non può infatti che spezzare questa catena di relazioni e mediazioni, facendo del malato banalmente un numero da trasportare in un’istituzione o in un’altra.
La tendenza ad una gestione totalmente medicalizzata e al superamento delle pratiche di mediazione con la famiglia – che talvolta prendevano in approssimata considerazione anche le richieste dei pazienti – ha una accelerazione sua propria; si afferma infatti una logica psichiatrica sempre meno disponibile a prestare ascolto alle aspettative di pazienti e familiari e sempre più incentrata esclusivamente sulle proprie argomentazioni. In un certificato medico firmato dai medici dell’ospizio in data 19 agosto 1891, vi si legge, ad esempio:
Analizzato minutamente lo stato mentale del ricoverato demente
B. P. abbiamo trovato che egli non ha il giusto apprezzamento delle cose, che non ha attitudine a convivere in società, né mezzi mentali né materiali per provvedere col lavoro al proprio sostentamento. Le tendenze religiose persistono ancora e mantiene uno stato d’eccitabilità anormale. È da riservarsi a lungo tempo la decisione di corrispondere al suo vivo desiderio di libertà a quando cioè sia più regolare di mente ed atto a lavoro proficuo32.
Come avrò modo di dimostrare più avanti, la storia del manicomio volterrano nel corso del XIX secolo seguirà logiche diverse, ma indubbiamente la direzione medica assumerà una volontà decisionale sempre più autoreferenziale e meno aperta al confronto e alle mediazione con altri soggetti, proprio come avveniva in questa precisa fase storica in molti altri istituti manicomiali.
Il nuovo scenario si muove, quindi, secondo logiche e sensibilità nuove: oltre alle ragioni della scienza, a prevalere saranno anche quelle istituzionali, sempre meno le ragioni dei legami affettivi o delle esigenze dell’economia familiare che avevano invece in precedenza primeggiato nelle pratiche discorsive delle famiglie e nelle relazioni di queste con le istituzioni manicomiali. Per i soggetti che a Volterra giunsero in seguito alle convenzioni, è naturale che le mediazioni con le famiglie sarebbero state molto esigue, quando non inesistenti. Per i pazienti, invece, residenti nelle aree limitrofe, le famiglie (direttamente o attraverso i tradizionali mediatori istituzionali – i sindaci ad esempio) continuarono a chiedere notizie dei congiunti internati, quando non direttamente le dimissioni. È evidente che degli antichi stili di mediazione tra manicomio e società, e soprattutto di quell’antica capacità delle istituzioni di penetrare negli interni domestici, restano molto più che semplici impronte del passato e i rapporti di forza sono naturalmente alquanto mutati a netto vantaggio del corpo psichiatrico.
Nonostante la spiccata vocazione volta a moltiplicare gli spazi, ad accogliere tanti malati, a seguire una gestione seriale dei malati, a Scabia non sfuggì che i pazienti cronici, essenzialmente i dementi senili, non avrebbero avuto alcuna ragione di essere ricoverati e che la loro presenza serviva solo «ad ingombrare, a strappare ai sanitari il tempo che riuscirebbe sommamente profittevole pei casi acuti, ad aumentare la percentuale dei morti, a diminuire quella delle dimissioni»33. Naturalmente non verrà mai meno l’attenzione, per ovvi motivi di equilibrio interno, verso le dimissioni di pazienti forse ancora utili alla società. È il caso di A. R. per la quale, però, è unicamente la direzione medica ad assumere la completa decisione del suo futuro. Si tratta di una donna pisana, tessitrice di 36 anni, destinata, sembra, ad un lungo internamento; fa infatti il suo ingresso presso il frenocomio di San Girolamo il 22 dicembre del 1893, ma era già stata ricoverata al manicomio senese nel 1888. È il direttore che, nel giugno del 1904, quindi dopo quasi 11 anni di ricovero nel manicomio volterrano e dopo ben 16 anni di complessivo internamento, durante i quali risulta curata con sedativi e ricostituenti, ne propone il licenziamento. Scrive infatti Luigi Scabia nel luglio del 1904:
[…] la paziente si trova in condizioni di salute tali che non è più giustificata la sua degenza in manicomio. Le pratiche fatte per trovare i fratelli sono nulle.
Un biglietto del luglio successivo conferma la scelta e sancisce le dimissioni in quanto «[ … ] travasi in buone condizioni di mente […] potrebbe essere molto utile in famiglia per lavoro di cucito e telaio»34.
L’argomento che spinge Scabia ad optare per il rilascio della donna è, in questo caso, quella già richiamata: al manicomio devono risiedere solo i malati, non i soggetti a vario titolo bisognosi di assistenza. In questa cornice rientrano le dimissioni in un certo senso “forzate” di taluni soggetti residenti in Toscana che non presentano manifestazioni “acute”.
Ancora più esplicita è la vicenda di G.D.N., definito:
[…] docile, operoso, abbiamo in animo di dimetterlo, ma a sconsigliarci è stata una lettera del sindaco del paese che informa che i fratelli vivono autonomamente e che non solo non sono in grado di poterlo ritirare, né di assicurare quella minima sorveglianza e impedendogli 1’abuso di vino e quindi la possibilità di una ricaduta.
Il commento di Scabia è chiaro ed esplicativo:
[…] io sono del concetto che il Manicomio debba rispondere alla sua vera funzione di accoglimento e cura del malato di mente, quando non esistono più disturbi psichici il ricoverato non può, né deve più restare al manicomio.
Non solo luogo di specializzazione, il manicomio è anche luogo di insegnamento morale e di punizione; prosegue infatti lo Scabia:
Chi ha abusato di vino deve capire il danno che a lui è recato e gli si deve mostrare la possibilità di trascorrere la vita in manicomio35.
Un ulteriore esempio del potere decisionale totalmente nelle mani del medico direttore – non disponibile alle negoziazione ed esplicitamente contrario alle dimissioni richieste da un genitore – è rappresentato dalla storia di F. P., il cui padre esprime una ferma adesione al discorso nazional-patriottico e ai valori militari; scrive infatti in una lettera del 31 ottobre 1915:
Giacché mio figlio dimostra il discernimento del dovere, come tutti i figli d’Italia, egli è giusto che sia dimesso e compia [illegibileJ il proprio dovere per il bene della patria nostra.
Sappiamo che si tratta di un giovane soggetto a nevrastenia e che ad un certo momento sembra migliorato; il padre, pertanto, chiede di poterlo ritirare in famiglia, «dovendo egli pure soddisfare agli obblighi del servizio di militare per cui esso accennò più volte che si contenta meglio a battersi al fronte nemico che continuare ancora a rimanere in detto Istituto».
La risposta dell’istituzione è perentoria: «F. P. è un deficiente, insofferente di freno, violento, facile agli impulsi. Non è consigliabile l’affidamento»36.
Alcuni stilemi delle pratiche di antica mediazione rimangono con tutta evidenza fortemente presenti: moltissime – certo non tutte – sono le famiglie che periodicamente chiedono informazioni sulla salute dei propri congiunti; poche ottengono le dimissioni, solo quando queste richieste incontrano il pieno favore della direzione medica. Altri familiari ancora chiedono di poter riavere il/la parente ricoverato/a solo dopo aver ottenuto delle precise garanzie sullo stato di salute del soggetto37.
Sono, inoltre, ancora presenti le tradizionali figure di mediazione, che hanno a lungo svolto una funzione sia di controllo capillare del territorio, sia di mediazione con le famiglie: carabinieri, agenti di polizia e sindaci. Nel giugno del 1898 il sindaco di Pisa scrive alla Congregazione per avere notizie di un demente trasferito da Siena e chiede una risposta «con sollecitudine affinché io possa tranquillizzare la famiglia che vive angustiatissima»38.
Mediazione, negoziazione e aperture sono possibili sempre dinanzi a casi molto precisi: in presenza di una famiglia, ovviamente, e di una condotta regolare. La famiglia naturalmente è presente con il suo linguaggio del bisogno, con quello affettivo, ma anche con il tratto arcaico patriarcale che intrinsecamente la contraddistingue. Il caso che segue mostra come le dimissioni di una giovane donna siano il frutto di una chiara volontà del marito che arbitrariamente sceglie quando liberarsi della moglie e quando liberarla: in occasione del parto, perché sia assicurata la discendenza, la moglie deve tornare a casa. In questa direzione, il manicomio accoglie infatti pienamente le asimmetrie di genere della famiglia italiana. Ma seguiamo in breve la vicenda in cui eccezionalmente la voce dei medici è del tutto assente: G. S. è una donna di venti sei anni, di Castellina Marittima, recidiva, regolarmente coniugata con figli e classificata come affetta da frenosi maniaco-depressiva con forte esaltazione mentale. La sua cartella, come sempre non particolarmente accurata, allo spazio ATTI COMMESSI CONTRO SÉ STESSO O CONTRO ALTRI IN RELAZIONE ALLA MALATTIA MENTALE della modula di informazione contiene le seguenti indicazioni:
[…] si è tagliata i capelli. Veste senza cura ed attenzione. Esce di casa e scappa alla macchia ed in altri luoghi portando seco i bambini suoi. Fa discorsi sconnessi e squilibrati.
Ad un’ altra informazione prevista dal formulario, ossia PER QUALI RAGIONI L’AMMALATO NON PUÒ ESSETRE CUSTODITO E CURATO FUORCHÉ NEL MANICOMIO? È annotato:
Il marito non ha con se altre persone cui affidare la cura dell’ammalata ed impedire che essa rechi nocumento ai figli.
La donna è, però, nuovamente incinta e la gravidanza è seguita dal marito, che in due lettere precedenti aveva già chiesto delle condizioni generali della moglie e se era effettivamente stata accertata la notizia della sua gravidanza. In una missiva ancora successiva, vi leggiamo:
[…] sono a dirle che ossempre il desiderio nell’occasione del parto di mia moglie G. S. di averla a casa e lunedì prossimo sono a pigliarla39.
Diversa è la storia di A. M., una nubile di 43 anni, di Sanremo, ricoverata nel novembre del 1914 che partorirà nel 1915 un bambino che sarà riconosciuto dalla madre ma affidato al brefotrofio. La cartella clinica, davvero molto scarna, non aggiunge nuovi elementi, se non che è affetta da «follia circolare»40. Dimessa nel settembre del 1915, è probabile che in questo caso sia stato utilizzato il manicomio per provvedere e gestire un’emergenza difficile ma circoscritta, quale una gravidanza illegittima41.
3. Gli spazi e i ricoverati.
Una politica di espansione come quella che si è delineata, che contiene in sé una tendenza ad incoraggiare la lungodegenza, implicava anche un periodico ampliamento delle strutture. Già con il nuovo secolo il panorama è certamente ben diverso da quello esistente nel 1896 quando si diede inizio alla costruzione del primo padiglione, detto dell’orologio. In quell’anno, infatti, il presidente della Congregazione di Carità Aurelio Caioli fece costruire una sezione capace di ospitare oltre duecento pazienti: sarà il futuro padiglione Krafft-Ebing, ultimato nel 1898 e successivamente dedicato a l.uigi Scabia42. Da quella data l’espansione sarà continua, ma il volto dell’istituzione cambia significativamente in seguito all’infaticabile dedizione e all’ininterrotto lavoro del direttore costruttore. Egli a buon diritto poteva scrivere, nel lavoro inedito sulle origini dell’ospedale, che nel vecchio convento di San Girolamo si era trovato a fare contemporaneamente «il Direttore, il Segretario, lo Scrivano, l’Economo»43 e poteva anche con orgoglio concludere che se prima a Volterra sorgeva un cronicario in piena decadenza, con una moria impressionante, successivamente vi era un moderno istituto psichiatrico di grande ampiezza e di altrettanta originalità.
Dopo un primo «momento di sconforto»44, Scabia darà inizio all’incessante opera di costruzione di nuovi padiglioni con un ritmo, per tutti i primi due decenni del secolo, davvero sostenuto.
Ho già evidenziato la dinamica instaurata: Scabia si adoperava incessantemente per accaparrarsi quote di pazienti provenienti da tutte le province; venivano così superati i limiti possibili di accoglienza e sollecitava quindi altri ampliamenti; periodicamente, inoltre, le apposite commissioni di vigilanza rimproveravano alle strutture la presenza di spazi troppo angusti e dunque si procedeva con le successive costruzioni. In ciò il manicomio sperimentava un’accelerazione propria nella crescita del numero degli internamenti che, ovviamente, collegata ad una altrettanto crescente domanda di istituzionalizzazione, contribuisce a spiegare l’alto numero degli internati nei manicomi durante il XX secolo45.
Circa la dinamica descritta, tra Scabia e le commissioni di vigilanza, della quale è opportuno sottolineare la comune finalità – cioè la crescita delle dimensioni dell’ospedale – è illuminante una risposta che lo stesso direttore diede ad un appunto mosso dagli ispettori che avevano denunciato la tradizionale mancanza di spazi:
[…] si pensa alla costruzione di un altro padiglione per agitati ed un altro di isolamento per tubercolosi; in tal modo si potrà provvedere al necessario sfollamento già richiesto dalla commissione46.
L’urgenza di costruire nuovi padiglioni fu dunque costantemente sostenuta. In questo senso sia i locali più antichi sia tal uni padiglioni più recenti vennero via via ampliati, ristrutturati e dotati di nuove attrezzature: tra il 1900 ed il 1910 si costruirono il padiglione Kraepelin che fu ottenuto dal riadattamento della villa Falconcini; di notevole impegno fu anche la costruzione di un edificio di grandi dimensioni, a tre piani (il Verga) e del piccolo Koch, reparto d’isolamento destinato alle malattie infettive (essenzialmente per i tubercolosi) nonché del padiglione Zacchia; sempre in quel frangente venne ultimato il padiglione Lombroso, come comparto di osservazione, e, nel 1914, si avviarono i lavori per la colonia Esquirol e i padiglioni Biffi e Vidoni47.
L’organizzazione degli spazi è tema centrale di ciò che è stata definita “tecnica manicomiale” e pertanto non è priva di importanti significati: in un documento del marzo del 1903 Scabia fa presente che:
In seguito al trasferimento di tutti i malati della provincia di Pisa nel nostro manicomio, questo deve subire un ampliamento. Il nostro sviluppo è subordinato alle convenzioni locali, all’esistenza di fabbricati e ad un ordine di idee diverse: padiglioni isolati, padiglioni sparsi, dove tutto è asimmetrico, dove non esiste più la irrazionale ed antiscientifica divisione in tranquilli, sudici, semi-agitati, agitati, paralitici etc. Nei manicomi villaggio la divisione è assai più pratica e rispondente ai bisogni degli inquilini. Sia pure per gli uomini che per le donne esiste un corpo di fabbricato centrale destinato ad accogliere i malati in osservazione, le infermerie, i malati per i quali lo stato psichico si addice la vita nelle colonie, le quali sono fabbricati semplicissimi, rustici destinati ad accogliere tutti gli individui suscettibili di lavoro e quelli in via di guarigione. Molto spesso esistono fabbricati destinati ad accogliere i cronici, i dementi terminali assolutamente incapaci di attività e solo bisognosi di custodia48.
Su basi più funzionali, certamente meno ispirati a meri criteri segregativi, il direttore costruttore promuove i suoi progetti di razionalizzazione e di costruzione. Al riguardo va sottolineata la sua contrarietà al mantenimento dei reparti per gli agitati, perché crede che essi possano contribuire «ad isolare i malati più spesso di quello che la necessità lo domandi» ed ancora «ad aumentare il numero degli individui antisociali nel Manicomio, conseguenza questa non confutabile dell’isolamento. […] tanto vale mandare proficuamente l’agitato a scaricare le sue energie, a esaurire i suoi impulsi all’aria aperta guardato dall’inferrniereo»49. La legge sugli alienati, purtroppo però – prosegue Scabia – domanda il padiglione per agitati e dunque anche il suo frenocomio sarà costretto ad omologarsi50.
Relativamente alle relazioni tra manicomio e utenza, al fine di cogliere le dinamiche di crescita delle dimensioni dell’istituto, va precisato che, a parte le convenzioni con le province, i binari seguiti sono sostanzialmente di due tipi: per un verso Scabia si impegna moltissimo ad offrire spazi sempre più specializzati e dunque destinati a soggetti con determinate patologie o a specifiche classi di pazienti (per esempio ai pellagrosi, ai bambini deficienti, ai criminali alienati), per un altro verso la diffusione su grande scala di fenomeni quali l’alcoolismo e la generica crescita della domanda di assistenza faranno lievitare il numero dei ricoveri.
Alla prima tipologia appartiene l’impegno di Scabia per l’istituzione di un pellagrosario come sezione autonoma del frenocomio, deliberata nel 1900 dalla Congregazione di Carità e inaugurato nel 1902 con quattordici presenze (undici uomini e tre donne). Nel caso specifico, si prese atto del fatto che la pellagra andava sempre più diffondendosi nella classe dei contadini e che il pellagrosario si era reso urgente affinché le cure iniziassero fin dalle prime manifestazioni della malattia per impedirne le più funeste conseguenze51.
Il nuovo pellagrosario avrà una parziale autonomia amministrativa che comporterà, però, qualche complicazione burocratica: nel 1902 viene ammesso, ad esempio, con decreto del tribunale di Volterra, S.P. che, però, durante il periodo di osservazione non aveva presentato disturbi psichici; la sua presenza non è pertanto ritenuta tollerabile nel manicomio e quindi può essere dimesso «per non constatata pazzia». Il soggetto in questione, però, è un «disgraziato pellagroso» in condizioni fisiche disastrose con gravi eritemi e con lesioni spinali da pellagra, dovrebbe quindi passare alla sezione dei pellagrosi, ma il comune di Castelnuovo deve produrre la necessaria autorizzazione. Intanto la direzione provocherà il decreto di dimissione dal manicomio, anche se il soggetto sarà subito internato nell’apposito reparto»52
Analoghe sono le aspirazioni di Scabia nei riguardi dei minori: vuole creare uno spazio ad hoc per essi ed è fermamente convinto della necessità di una loro precoce medicalizzazione. Va notato, al riguardo, che fin dai primissimi anni di esercizio del deposito è presente un numero significativo di minori: sono presenti infatti ben quattro ragazzine di età compresa tra i 10 e i 14 anni ed un bambino di 9 anni, i quali ovviamente condividevano gli stessi spazi e le stesse regole di vita manicomiale dei degenti adulti53.
Se nei confronti dei bambini con una famiglia, è corretto parlare di un generico bisogno di assistenza, nei confronti, invece, dei minori abbandonati le istituzioni preposte al “controllo sociale” mostravano ovviamente i loro volti più duri. Il manicomio, negli anni della fondazione, tendeva comunque ad accogliere, non mostrando alcuna specifica sensibilità per il tema dei minori; successivamente il quadro sembra mutare significativamente. Scabia in virtù dei progetti di medicalizzazione era invece deciso a ricoverare solo i ragazzini che presentavano una più evidente patologia mentale, manifestando in ciò una sensibilità che proprio in questo contesto andava emergendo verso le specificità delle patologie psichiatriche infantili54.
Da parte delle istituzioni le procedure sembrano classicamente avviate nel mero spirito burocratico: la Deputazione provinciale di Pisa autorizza l’invio presso il frenocomio di Volterra, il 20 febbraio del 1898, di 1. G., una bambina di dieci anni degente nelle sale di osservazione degli RR. Spedali Riuniti di S. Chiara perché affetta da idiozia55. Ed ancora, per una “giovinetta” non riconosciuta dai genitori, di circa 13 anni, affetta da sordomutismo e idiozia, si chiede il ricovero perché «dà spettacolo di sé per le strade della città» con l’auspicio che cessi lo spettacolo che di sé offre al pubblico56. In questo caso è lo «scandalo», sempre racchiuso nell’espressione del «dar spettacolo di sé», dell’esporre le proprie nudità, ad assurgere a parametro discriminante per il ricovero. Sarà infatti, come è noto, lo «scandalo» il termine esplicitamente usato nel testo legislativo del 1904 sui manicomi, che quindi non faceva altro che accogliere e ratificare un parametro di individuazione della patologia mentale già ben adottato nella pratica di internamento.
All’indifferenza burocratica si alterna talvolta un vago ed incerto paternalismo: in una sorta di abbozzo di perizia psichiatrica, datata 12 luglio 1889, al bambino A. P., ricoverato come demente innocuo nell’ospizio di mendicità, viene attribuito uno stato di alterazione delle normali facoltà mentali; se ne attribuisce la causa ad una probabile epilessia. Tenendo tuttavia conto delle «impressioni fallaci, dei gesti, delle risposte, del modo di comportarsi» si conclude che se il bambino fosse trattato «con amorevolezza, senza essere mai contrariato, non dovrebbe trascendere più ed incorrere in atti di violenza che sono piuttosto da riferire ad una irritabilità nervosa speciale. Si chiede soltanto un riguardo speciale» in relazione alla giovane età del ragazzino57.
Anche per i minori era prevista la possibilità di impiego presso una famiglia colonica; prassi, come ho già ricordato, già instaurata prima della direzione di Scabia. Un ragazzino ha i genitori ed il fratello maggiore impegnati in Spagna nel commercio di alabastro. La nonna di 73 anni, che custodisce tre nipoti minorenni, chiede una sistemazione per il bambino di cinque anni che non pronuncia che poche parole «e ciò per difetto di natura». Viene avanzata la richiesta di collocare il bambino presso una casa colonica, ma essa appare alquanto inopportuna perché il bambino è anche affetto da un’ernia sviluppata tale da renderlo inabile al lavoro; sarà un privato, marito della balia del bambino stesso, ad assumersi l’onere del mantenimento e dell’educazione chiedendo, anche attraverso la mediazione del Comune di Montecatini Val di Cecina, la retribuzione convenuta58.
Il quadro cambia, a mio avviso, significativamente, a partire dalla netta accelerazione che Scabia imprime ai processi di medicalizzazione: tenderà infatti a non accogliere i bambini e a trasferirli presso altri istituti se non strettamente colpiti da specifiche patologie e ad internare quindi quelli a suo avviso «veramente deficienti», per i quali rivendicherà un nuovo padiglione ad hoc59.
Alla prima tipologia appartiene il caso di D. P., un bambino di 9 anni colpito da paralisi infantile ed idiozia, per il quale Luigi Scabia scrive nel 1903 che, dal momento che non ci sono gli “estremi di pericolosità” e data la sua tenera età, è opportuno che rimanga a casa o ricoverato presso altri istituti60. Per gli altri, ossia per gli idioti “pericolosi”, invece, è previsto l’internamento manicomiale.
La questione dei ricoveri dei minori è stata, secondo le modalità che ho già evidenziato, drammaticamente posta al centro dell’investigazione della commissione di vigilanza del 1902: la commissione ha fatto condurre dinanzi a sé tutti i bambini ricoverati nel manicomio ed ha, con sorpresa, costatato che essi non erano diminuiti rispetto alla precedente ispezione nonostante si fosse già ribadito che dovessero essere trasferiti presso altri istituti, più adatti alla loro assistenza e cura. Ma per Scabia nessuno dei bambini ricoverati era «suscettibile di guarigione». La commissione insiste nel considerare il manicomio di Volterra completamente inadatto a mantenere dei bambini, per i quali «non esiste colà neppure una sezione o camerata», aggiungendo inoltre che deve essere eliminato «il gravissimo inconveniente di bambini a contatto con adulti, dai quali non possono che ricevere influenze deleterie e danni maggiori»61.
La commissione conclude i propri lavori individuando altri punti certamente deboli della gestione di Scabia: bolla come errata la scelta di aumentare la popolazione solo perché vi sono dei nuovi edifici in progetto o in costruzione; si sollecitano le procedure di affidamento dei bambini deficienti in appositi istituti; si chiede di intensificare la custodia omo ed eterofamigliare e di siglare le dimissioni per coloro che possono usufruirne62.
Nonostante restino presenti i bambini ricoverati già da tempo, Scabia sembra adeguarsi ai diktat ricevuti. Il sindaco di Suvereto, in data 27 aprile 1921, volendo trovare una collocazione per una «giovinetta quindicenne», scrive:
Questa amministrazione si trova nella necessità di provvedere per il ricovero di una giovinetta quindicenne la quale, orfana di ambo i genitori si trova in condizioni mentali e fisiche alquanto deficienti le quali senza renderla del tutto impotente, fanno sì che abbia bisogno di custodia.
La risposta di Scabia, redatta dopo solo due giorni, è categorica: non possiamo accettarla «fino a che l’amministrazione non avrà risolto la questione tante volte prospettata relativa al ricovero di orfani deficienti»63.
La sua proposta è con tutta evidenza quella di creare una struttura con personale medico specializzato per bambini deficienti opportunamente respinti da tutti gli altri istituti perché non attrezzati per questa specifica tipologia di pazienti.
Un approccio simile è seguito anche nei confronti di un’altra tipologia di possibili ospiti del San Girolamo: gli alienati prosciolti. Oggetto di un successivo paragrafo, è qui d’uopo ricordare che solo nel 1932, in seguito ad una precisa convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia, si istituì un’apposita sezione e che Scabia stimolò la presenza dei malati prosciolti fin dall’inizio del XX secolo al fine di ottenere successivamente anche la presenza istituzionalizzata di questa specifica tipologia di ospiti64. I «malati a disposizione dell’Autorità giudiziaria», come furono definiti in una prima fase, costituiranno quindi il primo nucleo del tristemente celebre reparto Ferri, ma saranno soprattutto un altro importante tassello dell’incremento del frenocomio di Volterra. Scabia, come si può intuire, sarà attivissimo per non lasciarsi sfuggire questa altra significativa quota di pazienti da ricoverare.
La crescita demografica dell’istituto naturalmente sarà dovuta anche all’aumento della domanda di assistenza che ovunque si è avuta, ma anche alla diffusione di nuovi comportamenti di massa: tra questi, primo tra tutti per incidenza, è rappresentato dal vertiginoso aumento del numero degli alcolisti. Definito tra le più gravi questioni della società moderna, vera calamità pubblica, emergenza sociale, l’alcolismo fu, a partire all’incirca dagli ultimi decenni dell’Ottocento, al centro di grandi preoccupazioni da parte di psichiatri, politici ed amministratori. I dati sono eloquenti: il numero di alcolisti ricoverati nei manicomi passa da 207 nel 1874 a ben 1387 nel 189865. Dal punto di vista strettamente medico, l’alcool è ritenuto causa o concausa della paralisi progressiva, ossia di una grave forma di patologia mentale. Nella letteratura medica del tempo, le donne, madri di famiglia, i servitori del culto, le leghe antialcoliche sono i principali attori e paladini della moralità del corpo sociale, mentre ai medici non resta che organizzare istituti speciali per guarire tali soggetti.
Presso il San Girolamo, i dati riguardo agli alcolisti sono davvero eloquenti: sono registrati solo due alcolisti nel 1900 tra gli internati, ma diventeranno otto nel 1902, quindici nel 1903 per proseguire la loro notevole ascesa66.
Cambiamenti sociali rilevanti, maggiore potere decisionale del corpo psichiatrico e logiche “industrialiste” nella gestione della malattia mentale faranno lievitare le dimensioni degli istituti psichiatrici soprattutto nella prima metà del Novecento. L’espansione edilizia e il parallelo aumento del numero dei ricoverati prosegue infatti fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale: dal 1926 al 1935 vengono, tra gli altri, allestiti i padiglioni Charcot, Caggio e Ferri; quest’ultimo ospiterà dal 1932 i pazienti prosciolti; dal 1935 al 1939, saranno ristrutturati i reparti Livi, Bianchi, Chiarugi e alcuni locali di servizio67.
Il manicomio condividerà con gli altri istituti analoghi la strenua lotta per gli aumenti del personale sanitario e infermieristico: nonostante le ovvie limitazioni di budget imposte, le fonti archivistiche attestano nel 1909 la presenza in organico dei dottori Giuseppe Sacchini e Giuseppe Benini68; nel 1912, a fronte di una popolazione di ricoverati che si attestava attorno alle 750 unità, l’organico prevedeva, oltre al direttore, altri 5 medici, 58 infermieri e 36 infermiere. Nel 1920, dinanzi alla capacità di disporre di circa mille e cento posti letto, si ha un aumento significativo del personale in ruolo, che ora comprende: 7 medici (oltre al direttore, due medici di sezione o primari e quattro assistenti), 167 infermieri (l03 uomini e 64 donne) e 13 suore (sono attive le Sorelle de’ poveri di Santa Caterina con cui periodicamente la Congregazione rinnovava la convenzione69.
L’anno successivo, in occasione del trasferimento del dottor Giuseppe Benini, il direttore Scabia ne chiede prontamente la sostituzione, richiamando l’urgenza di non snellire il numero dei medici in organico, dal momento che le presenze dei ricoverati si attestano attorno alle 1500 unità e «che abbiamo anche all’istituto un numero rilevante di malattie cornuni»70.
Già all’inizio degli anni Venti del Novecento, risultano ben avviate le numerose officine “terapeutiche” che avrebbero reso autonoma la comunità di San Girolamo; tra le tante, ricordo quelle di fornaci, latterizi, calzature, la fabbrica di mattonelle, la falegnameria, il macello, il fabbricato per elettromeccanica, il molino, il forno, il pastificio, il frantoio, la fabbrica di ghiaccio, le stalle e così via.