“Oggi c’è un bel solicello, ragazzi, si fa lezione fuori” e tutti di corsa tra urla di gioia a tirar giù dall’attaccapanni golfetti e giacchini sdruciti; ce li infilavamo sopra il giubbottino blu, perchè allora, anni cinquanta, si andava a scuola in divisa, e via dietro il maestro. Lui in testa alla fila, cappottone grigio e sciarpa avana chiaro. In fila giù per le scale dell’elementare di San Lino, tra l’invidia dei nostri coetanei che rimanevano a far lezione in classe, poi su per via Ricciarelli, Piazza, i Ponti. Aria, libertà!
Lì, sulla spalletta dei Ponti, cominciava la lezione: “Vedete, ragazzi, quello spicchio di mare là in fondo e quella che sembra una montagnola, là sul mare tra le nuvole, quella è la Corsica: una grande isola francese, ma chi ci sta non si sente tanto francese eppure lì è nato Napoleone”, e così il Maestro ti raccontava quindi di Napoleone, delle sue battaglie, del suo esilio prima all’Elba, poi a Sant’Elena. Più avanti, sempre sui Ponti: “quelle fumarole laggiù sono di Larderello”, e così partiva una lezione di scienze sui gas geotermici. E così per me, bimbo di Via Codarimessa, per merito dei suoi insegnamenti, la Porta all’Arco divenne quel monumento degli Etruschi che i tedeschi volevano far saltare in tempo di guerra e che i volterrani avevano salvato ostruendone l’accesso con le pietre disselciate dall’omonima via; e Porta San Francesco fu la porta ai cui merli il Ferrucci aveva attaccato un gatto per la coda, che povera bestia, faceva miao miao ad irridere Maramaldo che guidava le sue truppe all’assedio della città; mille storie, raccontate sul posto, vissute, immaginate, come in un film, nella mia fantasia di bimbo, che ti davano il senso dell’appartenenza, dell’origine, dell’essere volterrano.
Questo era Lorenzo Lorenzini, il Maestro, e molto di più. Ti parlava con parole semplici, che ti entravano dentro a scolpirti l’anima. Non buttava via una parola il Maestro, e mentre parlava ti insegnava grammatica, analisi logica, ti invitata a riflettere, a capire il senso delle parole e così la magia, il gioco dei numeri, la matematica. Era di un’ironia unica, simpatica, intelligente, spontanea, mai cattiva, come lo è spesso quella di noi toscani. Ricordo che mi passava accanto mentre mi cimentavo nella prova di disegno a scarabocchiare sul foglio improbabili pesci, mi prendeva la mano, mi correggeva il tratto e mi diceva “No, te un diventerai mai Giotto!”. Aveva un cuore immenso, amava tutti i suoi ragazzi, senza distinzioni di censo, di carattere, di capacità. All’esame di quinta elementare, l’allora terribile esame di quinta elementare, mi ritrovai accanto un ragazzone pluriprepotente; ero tutto schiacciato sul foglio impegnato a risolvere il problema di matematica e il maestro mi passò accanto, si piegò e mi sussurrò all’orecchio “tirati su, fagli vedere il compito!” Non smetteva mai di insegnarti qualcosa.
Mi preparò gratis all’esame di ammissione alla scuola media e quando in seconda media ebbi un incidente che mi tenne tre mesi lontano dai banchi di scuola mi fece sempre gratuitamente lezione di italiano, latino, storia, geografia, matematica per rimettermi in pari. Andavo a casa sua in via Roma e la ricordo con le stanze in penombra, un mobilio elegante e austero, lapis, penne, gomme sparse dappertutto. C’era una vita in quella casa, profumava di buono, ti sentivi accolto, protetto. E poi c’era la stanza stamperia con il clichè che vomitava le pagine del Bubbolo, il giornalino del Liceo, che i suoi vecchi allievi, ormai liceali, componevano lì impiastricciati di inchiostro, allegri, urlanti.
Il Maestro aveva una passione smodata per il Liceo Classico, una scuola che pure non aveva frequentato, ma che riteneva il top dell’istruzione. Era lui che progettava i carretti per la corsa annuale, appunto dei carretti, nella quale si sfidavano le scuole superiori delle città e quando vinceva l’odiato Tecnico era sotto casa Lorenzini che i futuri ragionieri andavano a celebrare il successo. E ricordo anche che alla lavagna in classe disegnava i suoi prototipi di carretto e ci parlava di attrito di cuscinetti, delle ruote e del peso del mezzo; insomma, una lezione di fisica applicata.
Se ripenso a quei tempi, a quel simpatico lavaggio del cervello tra Bubbolo, carretti, bandiere biancoverdi, capisco perchè poi ho fatto il Classico.
Sono sempre rimasto in contatto con il Maestro anche nel periodo dell’università. Ci incontravano alle Stanze per qualche partita a scacchi ed era un’occasione per fare due chiacchiere in libertà. Lorenzini era un liberale convinto, di quelli old generation, signorile, intellettualmente onesto, acuto nell’analisi degli avvenimenti dell’epoca; io ero tra i fumi sessantottini e quindi le nostre discussioni erano accese nell’argomentare quanto rispettose delle reciproche diverse idee. Era sempre lui che mi stuzzicava “Ho sentito che a Pisa voi studenti avete fatto il solito casino” “Lo so a cosa si riferisce, Maestro, ma non c’ero” “Mah! Sarà…” E da lì si partiva in una discussione sui massimi sistemi. Bella, ci imparavo sempre qualcosa.
Era il Maestro che mi aveva insegnato alle elementari a giocare a scacchi, e da gradicello lo battevo sempre; me ne facevo un po’ una colpa, mi sembrava un’irriverenza. Una volta provai ad alzargli distrattamente un pedone per favorirgli un’infilata d’alfiere e dargli un bel vantaggio. Mi rimise a posto il pezzo, mi guardò con quegli occhi buoni, ma che ti facevano le lastre e mi disse “Gioca, non mi prendere per il culo”; ancora una lezione!
Ci ritrovammo negli ultimi tempi nella redazione del settimanale Volterra, lui contrarissimo alla manifestazione di Volterra ’73, la prima rassegna di arte contemporanea e sperimentale a Volterra, io istintivamente favorevole. E fu un bello scozzo. Avvertiva in quella manifestazione un attacco dissacrante alla storia, alla cultura della città e confesso che il calore, la passione, la coerenza con cui sosteneva le sue tesi mi misero in una soggezione terribile. Perchè sentivo che, proprio in virtù di quel calore e di quella passione, il mio Maestro aveva ragione sempre, anche quando mi sembrava in torto.
Morì di lì a qualche anno. Mi dette la notizia mio babbo, ricordo bene, nell’androne del Persio Flacco. Non so dire cosa provai, di certo sorpresa e angoscia. Sentii che non poteva essere vero; non doveva essere vero, perchè una persona così non poteva morire e lasciarti. Ne hai troppo bisogno, sempre, perchè è parte di te, della tua formazione, di quello che sei e sei diventato, perchè ti ha trasmesso sempre e solo valori positivi, ti ha messo a disposizione le sue conoscenze, la sua cultura, la sua profonda umanità.
Poco dopo Dante e Stefano, i figli, mi fecero recapitare una stampa postuma di un libro che il Maestro aveva scritto; una specie di biografia della sua adolescenza, quasi un presentimento della fine che gli si avvicinava. L’opera si intitolava “La malia del casato” e quel libricciolo l’ho tenuto lì, in un angolo della mia libreria per anni, senza riuscire a leggerlo. Tutte le volte che ci provavo rivedevo il Maestro e chiudevo il libro. L’ho letto vent’anni dopo quando, sempre i figli, mi chiesero di farne una presentazione pubblica nella ricorrenza della morte. Un capolavoro di sentimenti, di discrezione, di saggezza, di umanità.
Lorenzo Lorenzini è stato premiato, unitamente alla moglie Antonietta, alla memoria, durante una commovente cerimonia nella sinagoga di Firenze come “Giusto tra le Nazioni”, la massima onorificenza tributata dallo stato di Israele per aver salvato in tempo di guerra un amico ebreo dalla deportazione. In tanti anni mai mi ha detto una volta “io ho salvato, io ho fatto”, e mai l’ha detto perchè sentiva sicuramente di aver fatto non un grande gesto, rischiando la pelle, l’incolumità della famiglia e tutto il resto, ma la cosa più normale di questo mondo: un atto di amore e di solidarietà verso chi soffriva e aveva bisogno di aiuto. Più grande ancora il silenzio della grandezza del gesto!
Ancora una lezione di vita. Il Maestro non muore mai!
Come era bella Volterra con te Lorenzo Lorenzini.