I letterati con ambizioni scientifiche furono una caratteristica del 1700. Accanto alle pastorellerie ci fu anche l’Arcadia della scienza. Le dottrine scientifiche di ogni genere furono tirate in ballo ad ogni occasione finché si arrivò alla cosiddetta lirica filosofica con le “Rime filosofiche” del Lavinj, le “Egloghe filosofiche” di Everardo Andrich, “Le rime filosofiche e sacre” del Richieri, “La vera filosofia” del Corniani, “L’economia naturale e politica” di Sigismondo Chigi, il poemetto “Delle Meteore” di Gian Lorenzo Stecchi, “I coralli” del Pongelli, eccetera. L’intellettualismo trionfava uccidendo, quasi sempre, la vera poesia. Scriveva Antonio Vallisnieri: «Mescoliamo l’utile col dilettevole; empiamo i canestri di frutta e coroniamoli poi di fiori». La rivista fiorentina Le novelle letterarie affermava che bisognava «attendere allo studio delle cose, cioè alla scienza, alle arti liberali ed alla soda erudizione molto più che alla poesia la quale, da sé sola, non è apprezzabile, siccome al contrario essa è un bello ornamento in chi già possiede le predette scienze ed arti». Ciò non stupisce perché nel 1700 si affermano in maniera vigorosa gli epigoni del Galileo come il Redi, il Vallisnieri, il Targioni Tozzetti, il Cocchi, l’abate Paolo Mascagni di Pomarance, tutti naturalisti, medici chirurghi, anatomisti e tutto questo avviene con notevole influenza sulla letteratura.
Tra i letterati che si dilettano di scienza occupa un posto di un certo rilievo anche un poeta volterrano autore, tra le altre composizioni, di una raccolta di poesie intitolata “Le Muse fisiche”, dedicata al Metastasio. È Mattia Damiani.
Egli nacque a Volterra il 2 maggio 1705 da Gerolamo Damiani, chirurgo, e da Francesca del fu Mattia Cetti, figlia anch’essa di un chirurgo, nella parrocchia di San Pietro in Selci. Era una famiglia di uomini di scienza e ciò non fu, certo, senza influenza nella sua formazione. Uno dei padrini fu Benedetto Guarnacci, nonno di monsignor Mario Guarnacci. Il 19 dicembre 1716 il vescovo Ludovico Maria Pandolfini lo promuoveva chierico nella chiesa di San Lino. Il 18 dicembre 1734, nella cappella del vescovado, gli venivano conferiti gli ordini minori insieme a Lino Piccioli, autore, poi, degli “Stemmi delle famiglie volterrane”. Il 18 dicembre 1734 veniva nominato suddiacono, il 26 marzo 1735 veniva ordinato diacono ed il 9 aprile 1735 gli veniva conferito l’ordine sacerdotale.
Merita riportare la richiesta di proclama, prima dell’ordinazione a diacono, avanzata dal cancelliere vescovile Alessandro Salvetti al priore di San Pietro in Selci: «Se alcuno conoscesse notabili imperfezioni nella sua vita e costumi contrari alla purità et onestà che sono dovuti allo stato ecclesiastico, ovvero sapesse che egli fosse reo di qualche delitto o gravato di gran debiti o obbligato a render conto del maneggio di gran somma di denaro, deve farlo sapere a noi ed alla curia». È un procedimento, una formula insolita che ci fa intuire che l’ordinazione del Damiani esce un poco dal normale. Infatti, quando gli sono conferiti gli ordini minori, si parla di “clericum doctorem”. Egli, cioè, è già dottore. Più tardi viene citato in altri documenti come “doctor utriusque iuris”. Ancora adolescente egli studiò a Pisa, ove fruì di una borsa di studio granducale nel Collegio Universitario di quella città, e poi a Roma. I suoi legami con la famiglia Guarnacci furono sempre molto stretti. Uno di essi fu padrino, un altro, Niccolò Silla, zio del fondatore del nostro Museo, gli costituì un patrimonio (in data 4 settembre 1734) assegnandogli, vita natural durante, il podere detto “Il Rastrello”, non lontano da Sant’Anastasio, con reddito annuo di parte dominicale di scudi 321. Questa donazione permise al Damiani di essere ordinato sacerdote “ad titolum patrimonii” (senza cioè avere l’obbligo di andar a ricevere una cappellanìa od una parrocchia per vivere). Ciò lo mise in grado di dedicarsi con calma ai suoi studi ed alla carriera accademica che sarebbe stata brillantissima se le sue condizioni di salute lo avessero sorretto.
A Roma fu, certamente, compagno di studi di monsignor Mario Guarnacci di quattro anni più anziano di lui e con l’amico frequentò i circoli aperti alle nuove idee di rinnovamento come, forse, aveva già fatto a Pisa. A Roma conobbe Pietro Metastasio, anche lui giovane abate (con i soli ordini minori) e con lui strinse quella amicizia affettuosa che doveva durare fino alla morte.
Tornato in Toscana, a Volterra ed altrove ebbe diversi incarichi. Quando monsignor Francesco Gaetano Incontri fu nominato vescovo di Pescia, fu suo vicario generale. Dopo il trasferimento dell’Incontri alla Cattedrale di Firenze, egli lo seguì nella città del Giglio e fu nominato bibliotecario della Riccardiana. Purtroppo questo incarico fu di breve durata perché le sue precarie condizioni di salute lo costrinsero a tornare a Volterra. Qui fu insegnante di Filosofia nel Seminario di cui era già stato rettore dal 1737 al 1738. Fino alla morte, salvo brevi parentesi, trascorse la sua vita nella città natia dedito all’insegnamento ed alla poesia. Fu socio dell’Accademia dei Sepolti, segretario dell’Accademia degli Infecondi, socio dell’Accademia fiorentina, apatista, eccetera.
Le opere più importanti del Damiani, più volte ristampate vivente l’autore, sono le già ricordate “Muse fisiche”, nozioni di fisica in versi metastasiani, dedicate appunto all’amico Metastasio ormai già trasferito alla corte imperiale di Vienna.
Oltre a questa opera, edita a Firenze nel 1754, egli ha scritto canzonette, cantate ed azioni sceniche melodrammatiche, poesie di occasione più volte stampate ed accresciute. L’ultima edizione è la “Raccolta di poesie diverse del signor dottor Mattia Damiani di Volterra”, in tre volumi (terza edizione accresciuta), stampata nel 1770 a Livorno. È l’opera omnia del Damiani. Stralciamo qualche titolo per dare un’idea di questo genere di poesia. “Dei satelliti di Giove”, componimento filosofico detto nell’Accademia dei Sepolti di Volterra, festeggiandosi l’elezione di “S.M.I. Francesco sempre Augusto Granduca di Toscana”; altre hanno un titolo di sapore pariniano (anche se, purtroppo, di valore diverso) come “La vita rustica”, “La povertà” ed una serie di composizioni dedicate ad una certa non meglio precisata Nice (“Canzonetta a Nice”, “La cioccolata a Nice”, “Il Genio di Nice”, “Le viole a mammola a Nice”, ecc.). Vi sono anche numerose cantate musicalmente scorrevoli, in cui i personaggi arcaicamente sono chiamati Elpino, Licida, Dameta riecheggianti gli omonimi pastori virgiliani e teocritei, musicate da maestri anche famosi. Un’altra poesia rievoca “la splendida restaurazione di una pittura rappresentante la caduta da cavallo di San Paolo Apostolo”, opera di Domenico Zampieri, eseguita dal signor Niccolò Franchini ed esposta nella Cappella Inghirami della Cattedrale di Volterra2 (A quando, allora, almeno un sonetto di lode al contemporaneo buon Chiarini, moderno restauratore della stessa tela?). Altri versi sono le consuete composizioni di maniera o di occasione per dame, gentiluomini, prelati volterrani, fiorentini, senesi, notabili: tra questi, la gentildonna Livia Accarigi di Siena a cui è dedicata la “Raccolta” di poesie suddette oltre ad alcuni componimenti. A questa dama, che villeggiava spesso a Volterra, il Metastasio scriveva (2 settembre 1763): «Noi mal soffriamo i ritratti che esprimono le nostre brutture» intendendo sottolineare un canone poetico per lui fondamentale; passioni ed aspetti realistici non dovevano essere materia di poesia. Altre poesie della “Raccolta” sono indirizzate a monsignor Inghirami vescovo di Arezzo, a monsignor Incontri vescovo di Pescia. Una composizione in occasione della partenza da Volterra della signora Caterina Scarlatti nata Frescobaldi, intitolata “Le ninfe dell’Era a Clori”, contiene questo metastasianissimo riferimento:
Pellegrina rondinella
lunghi dì con voi soffriva
Parte poi ma alfin ritorna
quando nembi il ciel non ha
(Ricorda l’arietta della “Semiramide” ed altre metastasiane). Interessante, specialmente per quanto riguarda la tradizione di Sant’Ottaviano, è un Componimento drammatico pastorale sulla morte di Sant’Ottaviano, protettore della città di Volterra, rappresentato nella chiesa Cattedrale di Volterra il 21 settembre 1761. L’azione si figura nell’agro volterrano, di là dal fiume Era, nel luogo dove visse il Santo nell’anno 520. I personaggi, oltre al solito coro di pastorelle, sono Aminta, Licori, Tirsi e Dafne. Riportiamo i seguenti versi, in cui sono descritti la zona ed il monte della Nera.
‘Aminta’:
Ecco, mio pastore,
del felice cammino, esso la meta.
Ciò ch’ha finor predetto a noi la fama,
ben corrisponde a queste
solitarie foreste. Alpestre è il suolo,
pieno d’orrore il bosco, e in faccia al loco,
ove l’astro del giorno
il celeste incomincia arduo sentiero
veggio inospito monte orrido e nero3.
L’economia del lavoro non ci permette di indugiare ancora su queste citazioni poetiche.
Nella Biblioteca Guarnacci c’è un pacco di lettere del Metastasio, insieme a molti manoscritti del Damiani che furono donati alla Guarnacciana (di cui era allora direttore Niccolò Maffei) dal canonico Pietro Damiani, erede del poeta, in data 17 luglio 18704. Le lettere abbracciano il periodo dal 18 settembre 1734 all’11 marzo 1776, oltre ad una lettera del Metastasio al nipote del Damiani dopo la morte del poeta. Il carteggio, anche se pochissimo noto, è stato pubblicato, fino alle lettere del 1766, nel Tomo IV delle “Lettere del Metastasio” stampate a Firenze nel 1789.
Le stesse lettere, con altre tredici, furono stampate a Volterra nel 1847 dalla Tipografia all’insegna di San Lino, senza indicazione del raccoglitore e col titolo, solo parzialmente esatto, di “Lettere inedite”. Risulterebbero inedite la n. 18 della “Raccolta” del 25 settembre 1753 e la n. 28 del 10 settembre 17725. C’è poi, tra le altre carte, una lettera (anche questa inedita) dell’avvocato Leopoldo Metastasio fratello del poeta, datata da Roma, in risposta all’omaggio del volume “Le Muse fisiche” inviatogli dal Damiani. È un epistolario tipicamente settecentesco, raffinato, elegante, pieno di complimenti ma spesso anche umano. Esso dimostra come il Metastasio mai si sia dimenticato dell’amico volterrano, inviandogli in ogni occasione lodi, riconoscimenti, consigli ed affettuose attestazioni di stima, ampiamente contraccambiato dal Damiani che sentiva l’orgoglio di poter premettere alcune di queste lettere a guisa di introduzione alle raccolte delle sue poesie, abilmente sfruttando questa illustre amicizia.
Il Metastasio, benché assillato dalle continue incombenze di poeta di corte (talvolta si sfoga con l’amico augurandosi che non ci siano in vista né nascite, né battesimi, né nozze, né funerali) ed assediato da richieste di recensioni e consigli per opere inviategli da ogni parte d’Europa, è particolarmente attento a rispondere all’amico volterrano e spesso si duole con lui per le eccessive spese postali e per il disservizio delle poste che impedisce ogni tanto il recapito di plichi, pacchi e dispacci. Le lettere metastasiane sono datate, in grande maggioranza, da Vienna, ma anche quando nell’autunno egli, con frequenza, emigrava nelle campagne della Moravia a Jaslowitz, a Di Frain, a Czackekturn, rallegrato dalla bionda, splendida matura bellezza della contessa Marianna D’Althann, non dimentica mai di scrivere. Parla anzi di quelle gaie villeggiature, delle cacce, dei pranzi, dei giochi, delle passeggiate sentimentali.
Tra i due poeti si parla anche di poesia. Il Damiani si mostra avido di notizie circa la composizione dei “Melodrammi” dell’amico. Nelle lettere si parla dello stato di composizione di vari melodrammi come “La clemenza di Tito”, “La Betulla liberata”, “Il Ruggiero”, “Il Parnaso confuso”, l’“Estratto della Poetica di Aristotele”, ecc. e di varie pubblicazioni degli scritti del Metastasio che indica al Damiani l’edizione delle sue opere già stampate a Venezia nel 1736, un’altra nuova edizione in corso di stampa presso l’editore libraio Bettinelli e l’edizione di Parigi, ristampa di tutti i suoi scritti, in sei volumi, “in piccola forma che chiamano in 12°, da portarsi comodamente in saccoccia” (lettera del 3 dicembre 1774). In altra lettera del 12 giugno 1756 si parla di una edizione parigina in nove volumi in 8°, molto corretta e guarnita di una buona dissertazione d’un Calzabigi, magnifica, addirittura elegante, e di altre in preparazione a Lipsia e a Vienna.
Il Damiani scrive all’amico anche da Pescia e da Pisa servendosi talvolta di volterrani (un tenente Falconcini, lettera del 4 ottobre 1756) o di altri toscani che si recano nella capitale asburgica. Si parla, nelle lettere, della grave malattia che tormenta il Damiani. Anche il Metastasio confida i suoi acciacchi all’amico (lettera del 24 maggio 1753): «Da otto anni in circa ho contratta una scandalosa consuetudine con una impertinente cagiona di affetti ipocondriaci che si sono alloggiati in questa mia tormentata macchinetta, in compagnia de’ flati degli acidi, delle nausee, degli stiramenti de’ nervi e di mille altri loro anonimi diabolici satelliti. Al primo assalto fra le novità del fastidio e l’autorevole ignoranza de’ medici, ho creduto di perdervi il sonno e la vita; ma oggimai siamo divenuti familiari, non so se per diminuzione di vigore in essi, o per aumento di tolleranza in me». Il tono delle lettere, spesso, diventa umano. Il Damiani ha scritto diverse lettere per ottenere raccomandazioni del potente amico in vista della assegnazione di una cattedra nello Studio di Pisa. Il Metastasio assicura l’amico del suo interessamento. Con lettera del 22 maggio 1766 e successive del 31 dicembre 1766 e del 3 dicembre 1767 il Metastasio ragguaglia l’amico circa un affare che stava molto a cuore al Damiani. Egli aveva fatto pervenire al poeta a Vienna un promemoria che il Metastasio aveva consegnato, con raccomandazioni, al conte di Richecourt per ottenere per il nipote Vincenzo Damiani, studente presso l’Università di Pisa, un posto gratuito nel Collegio della Sapienza come aveva ottenuto lo zio nella sua adolescenza. I posti erano solo 40 e la faccenda, prima di arrivare felicemente in porto, fece stare per lungo tempo in ansia il Damiani ed il Metastasio, che temeva di non veder presa in considerazione la sua fervida raccomandazione.
La salute del Damiani peggiorava sempre di più, come si può vedere dalla lettera del 13 marzo 1771 in cui l’amico si preoccupa da Vienna per “la grande tempesta che ha sofferto la salute” del Damiani. Interessanti sono anche le lettere del 1° maggio 1775 e l’ultima dell’11 marzo 1776.
Importante per un insolito accenno ad oggetti di alabastro è la lettera da Vienna del 18 gennaio 1738 in cui il Metastasio ringrazia calorosamente l’amico per l’invio di un busto in alabastro raffigurante la sua effige.
«In questo momento mi vien recata dalla Dogana una scatola, con entro un mio ritratto in alabastro, una piccola pietra intagliata, e due suoi riveriti fogli… Io non so donde incominciare a rendere grazie a V.S. Ill.ma per così prezioso ed obbligante dono. Il valore della bellissima pietra, l’esquisitezza del lavoro con cui l’ha fatta ridurre a l’uso a cui l’ha destinata, l’eccellente pittura, l’ingegnoso adornamento che la circonda, la rara antichità che l’accompagna e soprattutto la cura d’informarsi fin del colore delle mie vesti, non che dell’armi mie gentilizie, sono tutte cose che richiedon, ciascuna per sé medesima, una particolar riflessione ed un separato ringraziamento… Conserverò finch’io viva i preziosi suoi doni fra le mie più care ed onorate memorie… ».
Chi ne volesse sapere di più legga le opere del Damiani che troverà nella Guarnacciana.
Il nostro poeta morì il 28 luglio 1776 a Volterra (“Gazzetta Toscana” del 10 agosto 1776). Il padre e la madre erano stati sepolti nella chiesa di Sant’Agostino in sepulcro maiorum. Si può presumere fondatamente che anch’egli sia stato sepolto nello stesso luogo.
Chiudiamo questo breve saggio, che è il primo per ora scritto sul Damiani, con la lettera che il Metastasio inviò da Vienna in data 22 agosto 1776 al nipote del poeta Vincenzo Damiani in Volterra.
«Ill.mo signor Padron Col.mo – Volterra -. L’amara perdita di un così degno, così antico e così caro amico, quale mi era il sig. Abate Mattia Damiani suo Zio, m’ha trafitto nel più vivo del cuore, benché non mi abbia sorpreso, avendola così lungo tempo temuta. Argomentando dal mio la misura del suo dolore, mi desidero altri mezzi per sollevarla che le usate ufficiose consolatorie, che rendon presenti le perdite senza ristorarle. Se mi si presenterà occasione di esserle utile nella sfera della mia attività, io procurerò di convincerla a qual segno sia per me cara la memoria d’un meritevolissimo amico, che mi ha dati così indubitati segni dell’amor suo. Non trascuri Ella di imitarlo anche in questo, come io non lascerò mai d’essere con la dovuta affettuosa e divota stima di S.V. Ill.ma D.mo Obb. Servo vero Pietro Metastasio».
Certe auliche perplessità sono ormai quasi del tutto messe da parte per lasciar parlare la tristezza dell’animo.