Nonostante vivessi in un podere lontano dal poggio, senza strada, luce ed acqua, le vicende della guerra che i nostri uomini conducevano contro l’Impero austro-ungarico mi erano note perché proprio in quegli ultimi giorni del giugno 1917 era venuto in licenza di convalescenza Terzo, rimasto ferito nella prima fase della decima battaglia dell’Isonzo.

Terzo abitava al podere accanto al nostro, le terre erano confinanti e fra le due famiglie correvano buoni rapporti, anche perché dicevano che mia zia Ginetta, era innamorata, corrisposta, del valoroso soldatino e credo che fosse vero perché quando Terzo un sabato sera era venuto a veglia da noi, a raccontarci la vita di trincea, le sue avventure guerresche, avevo notato che molto spesso si stringevano le mani e si guardavano lungamente negli occhi.

Nonostante avesse fatto solamente la terza elementare Terzo aveva la parola facile ed un suo particolare modo di gesticolare avvinceva l’uditorio accentuando le fasi più salienti del discorso. Egli stava gesticolando anche più del solito, perché raccontava l’assalto verso la trincea nemica, con il lungo fucile «91» con la ben affilata baionetta innestata, al lancio delle bombe, fin quando – precisò con una smorfia – un dolore atroce alla coscia sinistra non lo fece cadere lungo e disteso nel fango macchiato dal sangue dei morti e dei feriti. Poi la lunga attesa, l’arrivo dei barellieri, le prime cure in un ospedaletto da campo, il susseguente ricovero all’ospedale militare di Bologna, ed infine la licenza.

Come tutti gli altri giorni, anche quella mattina del tempo di mietitura, gli uomini e le donne atte a quel lavoro, si alzarono molto presto e dopo avere preparato l’affettato di salame, mortadella e rigatino, alcuni pomidori, il fagottino del sale e pepe, le bottigliette dell’olio e dell’aceto per condire e il pane zuppo; misero il tutto nelle pezzole a scacchi, che poi annodarono con le cocche incrociate. Queste pezzole, insieme all’acqua e al vino contenuto in fiaschi rivestiti di fini giunchi, vennero posti in una rasinella, caricata sul carro, e via, verso la lunga calda e faticosa giornata di lavoro.

Ginetta quella mattina appariva svogliata, assente, come se una preoccupazione la tormentasse. Verso mezzogiorno, quando la calura comincia a farsi sentire, fra le imprecazioni dei congiunti, versò anche l’acqua contenuta nell’ultimo fiasco e, di malavogiia, si incamminò verso la sorgente per riparare al male fatto.

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Mia nonna Ultimina, cara vecchietta, rimaneva a casa e, per quanto possibile, aiutava la massaia nelle faccende.
Verso mezzogiorno, come tutti i giorni estivi, o di vacanza, mi dette due fiaschi da riempire alla sorgente e, per allietarmi il cammino, anche due cantuccini, belli secchi, che la massaia preparava ogni qualvolta cuoceva il pane nell’ampio forno del podere.

Rosicchiando e ripensando alle avventure di Terzo, andavo verso la fonte ma, prima di raggiungerli, un bellissimo melo mi attirò. Poiché ero bravo ad arrampicarmi come una scimmia, in pochi attimi fui in cima. Messomi a cavalcioni ad una forcella e con le spalle appoggiate a un ramo, mi misi a degustare le mele più mature e saporite.

Delle voci sommesse mi fecero incuriosire e sporgendomi un po’ vidi Terzo e la Ginetta che abbracciati stavano baciandosi. Mi ritirai indietro e, addossandomi al ramo come una lucertola, rimasi immobile, quasi senza respirare.

«Ginetta vuoi vedere la mia ferita!».
«Ma Terzo, cosa stai dicendo?!».

Intanto Terzo si era sbottonato i pantalonì e messa in vista una lunga e profonda cicatrice, vi faceva scorrere la mano di Ginetta.
«Mamma mia com’è grossa!». esclamò Ginetta, mentre Terzo incomindava a lottare. Dapprima sembrava vincesse lei, ma dopo l’uomo le montò addosso e dovette farle anche male perché anelò un urlo di dolore e alcune lacrime le scesero lungo le guance. Restarono alcuni minuti immobili e poi ripresero a lottare ed anche questa volta vinse Terzo, ma senza farle male, perché Ginetta non gridò e, anzi, sembrava contenta di aver perso.

Quando riguardai erano tranquillamente seduti, si baciavano e sentivo Ginetta che insisteva nel dire:
«Ora non andrai mica a raccontarlo Terzo, vero?! Vero che non lo racconterai a nessuno?!».
«Certamente! Se non lo racconta quello lassù, io non lo dirò di sicuro!».

Sentendomi scoperto, mi misi a scendere mormorando fra le lacrime:
«No! Io non lo racconto a nessuno!»

A questo punto della storia mia nonna Ultimina mi interrompe con una grande risata che mette in evidenza la sua bocca sdentata e mi grida:
«Ottavino, sei grande, racconta, racconta tutto di nuovo…»

© Pro Volterra, VINICIO DOMENICI
Quella brutta ferita di Terzo, in “Volterra”