Volterra, 30 novembre 1874

Caro Vittore,
quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più, è con un dolore immenso, non rimarginabile, che da quando è successo il fatto, penso che l’unica soluzione a questa vergogna che ci è capitata addosso sia quella di morire. Spero che questo basti, con il tempo, a mettere a tacere le malelingue e tu sai a chi mi riferisco, affinché questa cosa vergognosa che è stata fatta con malvagità gratuita nei confronti della nostra famiglia, non abbia ripercussioni sul futuro dei nostri figli.

Scusami, mi dispiace per il dolore che ti darò ancora ma non ce la faccio a togliermi dagli occhi le facce divertite col sorriso di scherno del gruppo dei fannulloni che conosciamo bene, quando sei arrivato di corsa, e le parole e i gesti che ti hanno fatto. Sono andati perfino a prendere la grancassa dalla banda per farsi sentire meglio. Che vergogna! Che umiliazione, povero Vittore! Sai bene che il capitano Agosti è passato solo a fare un saluto per l’amicizia che ci lega, come tante altre volte è venuto a salutarci, e si è fermato solo a bere un bicchiere di vino che gli offerto per cortesia. Ti giuro anche se so che già mi credi, che tra me e il capitano non ci sono mai state parole, sguardi o atti tali da giustificare una qualunque sorta di intesa. Forse questa calunnia è nata perché siamo una famiglia unita, ci vogliamo bene e abbiamo sempre tirato avanti onestamente con quello che abbiamo senza lamenti, ma una cattiveria così brutale, non si spiega nemmeno con il motivo di una grande invidia.

Mi dispiace, Vittore, mi dispiace così tanto che il cuore mi si spezza, al sapere che inconsciamente mi sono prestata ad una beffa così crudele nei tuoi confronti, ti voglio bene come quando ci siamo conosciuti poco più che giovanetti e questo non te lo meritavi davvero. Ora intendo sistemare le cose. Ho portato i bimbi a casa tua, in campagna, ho sistemato tutta la casa, mi sono lavata e messa il vestito buono, ti devi ricordare che la piccina, la Mariuccia, non deve prendere mai freddo per quella tosse cattiva che ha e che Giorgino, il più grande, quest’anno non ha cappotto da mettersi per affrontare l’inverno perché è cresciuto troppo e il suo lo adoprerà Giovanni. So che li educherai bene anche senza di me, mia sorella, sicuramente ti darà una mano. Insegnagli a perdonare le cattiverie che ci hanno fatto, non gli stimolare l’odio perché altrimenti diventerebbero come loro e quando ti chiederanno di me digli che gli voglio bene e che accompagnerò sempre il loro cammino.

Fatti forza Vittore, ti voglio bene
tua per sempre,

Raffaella

Raffaella posò la penna sul foglio, dal tavolo prese il bicchiere di vino nel quale aveva sciolto un consistente numero di capocchie di zolfo e lo bevve tutto d’un fiato.

Le cronache del tempo riportano il fatto: due sposi, Raffaella Adriani di 29 anni e Vittore Amaranti di 30 anni, alabastraio, abitanti in Via Franceschini con 4 figli, sono vittime della maldicenza popolare, gratuita, senza precedenti, fino a sfociare nel dramma del suicidio.

Una comitiva di perditempo: Francesco e Antonio Baldini, Antonio Gremigni, Bartolomeo Pocci, Tebaldo Bruschi e Torello Cari, istigati dalle chiacchiere delle vicine di casa della coppia, così, tanto per divertirsi e non contenti delle semplici calunnie, architettarono una tragica beffa: in occasione di una visita in casa del Capitano medico Agosti, mandarono un ragazzo a chiamare l’Amaranti che lavorava nella sua bottega artigiana, dicendo che sua moglie si sentiva male. Questi si precipitò e appena arrivato sotto casa, la combriccola che si era procurata anche una grancassa, presa dalla sede della banda cittadina, cominciò a fare rumore, offendendo l’Amaranti con parole del tipo “cornuto” e con gesti equivalenti delle corna. Con tutto il trambusto anche la moglie e l’ufficiale si affacciarono per vedere cosa succedeva e la donna ne riportò un tale trauma che dopo tre giorni, presa dalla vergogna e dalla disperazione si suicidò.

© Anna Ceccanti, ANNA CECCANTI
P. Ferrini, Ancora una e poi basta, Ed.Migliorini, Volterra