Le rivedo al tramontar del sole, piegate sotto il carico di legni e di stecchi, racimolati nella tagliata del bosco di Tatti. Erano le boscaiole volterrane.
Di molte di loro non ho mai conosciuto né il nome né il cognome. Si erano affibbiati certi nomignoli, bene azzeccati, da far sorridere anche un moribondo. Eppure se li erano messi da sé, fin dai primi tempi che si erano conosciute: Tarallana, Canina, Pèpe, Zenzerina, Ciompa, Ciolla e poi Zela, e poi Brizzola e così via.
Andavano al bosco di buon mattino4, nei mesi vernini, fino a primavera inoltrata: fino a quando le piante non ritornavano in succhio.
Al suono della campana mattutina delle ore 6,30 le boscaiole si mettevano in viaggio. Quel suono era l’annuncio della cosiddetta “campana dei boscaioli”. Secondo una notizia mal sicura, riportatami da una boscaioìa, la proprietaria del bosco di Tatti avrebbe lasciato in eredità questo bosco all’Amministrazione Comunale, mettendo tra le condizioni l’obbligo di far suonare la campana alle ore 6,30 del mattino, per salutare i boscaioli, augurandoli buon lavoro. Di certo si ha che quella campana suonava e suona per annunziare il giorno: e l’Ave Maria del giorno oppure l’er Maria, per dirla come i nostri nonni.
Tra l’andare e il tornare percorrevano una ventina di chilometri, con un pezzo di pane duro, arrotondato in una pezzòla da spesa legata alla vita. Per questo modo di avvolgerlo lo chiamavano pane girato.
«Quand’ero ne’ mi’ cenci – mi diceva la Pèpe – s’andava al bosco cantando e stornellando ma allora c’era la gioventù. S’aveva una miseria che si pestava, da quanta se n’avea, però si cantava l’istesso. Insomma s’inventava la storia e poi si faceva a gara a chi la diceva più meglio. Sa una ‘osa: gliene voglio cantare una, gliene voglio…»
E si mise a cantare così, sottovoce:
«Mamma non mi mandate a prender l’acqua,
alla fonte der masso di Mandringa:
ir mi’ Morin mi ci spaccò la brocca;
se ci ritorno mi spacca quell’artra.»
Naturalmente nessuno si metteva a cantare per la via del ritorno; e come potevano: curve, un po’ arrembate sotto il peso di quei fasci di legna, non vedevano il momento di arrivare al posatoio per riposarsi e rinfrancarsi.
Erano tempi in cui il Comune di Volterra, all’oggetto di fornire ai propri comunisti il combustibile occorrente ai loro usi domestici, faceva tagliare i boschi di Tatti e di Brenti per quel tanto che occorreva alla popolazione. A quei tempi si chiamavano comunisti gli abitanti dei Comuni. La legna veniva consegnata a metri cubi ai compratori, in quantità non inferiore a mezzo metro. I fascinotti venivano venduti “alla conta”; la carbonella a peso. Peraltro la consegna del genere veniva fatta da un incaricato, a chi era in possesso di un buono rilasciato dal Sindaco, e il trasporto poteva essere fatto con bestie da soma, riconosciute e controllate.
Ma chi aveva la bestia? Chi non poteva procurarsi il buono? Chi non aveva neppure il valsente per comprare un po’ di carbonella per rizzare la pentola? Chi, insomma, non aveva lavoro, che altro poteva fare se non andare a racimolare un po’ di legna tra i pedagnoli o tra l’rinfrescato del taglio del bosco?
Bisogna dire tuttavia che il guardaboschi era piuttosto di manica larga, quando la ricerca veniva fatta con discrezione, rispettando il sottobosco, secondo le disposizioni della Giunta Comunale. Ma le boscaiole non si accontentavano tanto facilmente e s’industriavano ed escogitavano sempre tanti piccoli sotterfugi per raggranellare qualche tondello oppure un po’ di carbonella da nascondere nel fascio grande, cercando di evitare la penale che a quei tempi poteva raggiungere la ragguardevole cifra di otto lire.
E otto lire, checché se ne dica, erano tante per quei tempi lontani; era una bella cifra, se è vero, com’è vero, che con pochi centesimi si poteva fare la spesa per un’intera famiglia per un giorno intero.
È anche vero che quelle boscaiole non pagavano le contravvenzioni: o perché riconosciute povere, o perché s’ingegnavano, o perché pur di non pagare andavano più volentieri un giorno o due in prigione, o perché non si sa. Si sa però che era per loro una grossa seccatura presentarsi davanti al Pretore per essere interrogate e per sostenere le loro tesi mettendo alla berlina le loro miserie.
Ecco perché le nostre boscaiole si dimostravano allegre quando riuscivano, con maldestri accorgimenti a farla franca in barba al guardaboschi il quale, poveretto, vedeva e non vedeva, quando non voleva vedere. Fatto sta, quando riuscivano a fare il colpaccio, si portavano soddisfatte sul greto del fiume, considerato zona franca e laggiù si apprestavano a mandare finalmente quel pane girato, imbrogliandolo magari con una cipolla selvatica che avevano svelto al mattino lungo un argine o in mezzo a un campo.
Poi, dopo mangiato, incominciava la via del ritorno e quei dieci chilometri della mattina sembravano di più; non finivano mai; erano più faticosi e si capisce il perché. Bisognava comunque venire fuori da quella vallata e salire quei ripidi viottoli di collina per raggiungere la via maestra dove le aspettava il primo posatoio di una lunga serie.
Perché, tutto sommato, raggranellare quegli stecchi per affastellarli in un fascio grande, non era la fatica più grossa. La fatica vera incominciava dopo mangiato, quando bisognava mettersi addosso quel po’ po’ di fascio di legna e sopportarne il peso per ore ed ore.
L’unica consolazione, diciamolo pure, era quella di arrivare al posatoio per rinfrancarsi e, per la verità, ve n’erano diversi lungo la strada maestra. Li avevano sagomati e sistemati gli stradini, sugli argini della strada, ad altezza giusta per poterci stare a sedere e per posare dolcemente il fascio di legna. La parte alta sembrava aggettata; la parte bassa era scavata all’altezza di settanta centimetri circa per fare da sedile. A volte questo sedile era addolcito da un incavo, praticato sul sedile stesso, in maniera che seguisse un po’ la linea del sedere; era chiamato sedile col rigoglio e aveva tanto ridere a sentirlo rammentare.
Ne ho conosciute tante di quelle donne boscaiole! Tutte campatoie. Sarà stata l’aria, la ginnastica, le cipolle apparentate con quel pane girato, fatto sta quelle bòne donne che ho conosciuto avevano tutte una gran bella salute ed una gran bella forza da mettere in difficoltà anche le persone male intenzionate.
Col, trenta di aprile di ogni anno, alla più lunga, cessavano tutti i tagli dei boschi e con quel giorno finiva anche il lavoro delle boscaiole. Le piante rientravano in succhio, la primavera rimetteva in movimento la natura e il taglio cessava per riprendere nell’autunno successivo.
Ma le boscaiole non erano donne da riposo; non potevano stare ferme stimolate com’erano dal bisogno di guadagnare qualcosa per portare avanti la famiglia. Infatti, appena finita la raccolta delle legna, incominciava per loro la scerbatura della gramigna.
Per lo più i contadini erano contenti che quelle cosiddette gremignaie liberassero i terreni dalle erbe infestanti che sottraevano acqua, sali, luce, spazio alle piante coltivate, ma anche questo lavoro era estremamente duro: duro per il tempo che stavano chinate; duro in tutte le maniere.
Dopo la scerbatura portavano la gramigna nel fiume, la sciamannavano per liberarla dalla terra, la risciacquavano e poi l’asciugavano al sole, ma non troppo.
Fatto tutti questi mestieri si apprestavano a mangiare quel pezzetto di pane, poi facevano il fascio grosso come quello delle legna e lo mettevano addosso e finalmente partivano a passo lento, quasi cadenzato, come quello dei montanari.
Naturalmente per rinfrescarsi un po’, vi erano anche su queste strade i tanto rammentati posatoi. Il più famoso era quello del “Campo di Giacco”, tre chilometri circa da Volterra, laggiù in fondo alle Balze, prima di iniziare la rapida salita delle Piagge. Lì, la riposata era d’obbligo perché erano stanche per i diversi chilometri già percorsi e perché proprio da li iniziava la salita più lunga e la più dura.
Questo posatoio (praticato sull’argine destro della strada che prende a salire per Volterra, “dove i cavalli cessan la trottata”) era di fronte al viottolone che immetteva nel campo di Corrado Simoncini, detto “Giacco”, abitante nel borgo San Giusto, deceduto nel 1958. Le Gremignaie si davano appuntamento proprio lì, per riposarsi un bel po’ e per affrontare meglio la salitaccia delle Piagge. Ancora oggi si usa dire: “Aspettami al campo di Giacco!”, ma per un rovesciamento semantico, facile ad intuire, questo detto, esclusivamente volterrano, ha assunto il significato contrario, come per dire: “Un m’aspetta’! Vacci da te!”.
Dopo la sosta rimanevano poche centinaia di metri per arrivare finalmente alle loro case, anche se stanche morte.
Quel fascio veniva ripreso l’indomani mattina presto e portato in piazzetta dell’erbe, in piazza Minucci, e lì veniva messo in vendita per i cavalli dei barrocciai, al prezzo di venti centesimi, se tutto andava a buon fine. Altrimenti bisognava esitarli ad un prezzo inferiore.
Era una miseria e sembra una novella.