Quei pochi giorni in carcere, in ultima analisi, mi furono di gran giovamento per tanti motivi. Prima di tutto perché mangiai «Usque ad satientatern et ultra» in quanto la gente di Ponsano, conosciuta la mia disavventura, volle mostrar simpatia offrendo ad Antonietta pane, farina, salsicce, uova: tanta di quella roba che lei e Marisa non sapevano come fare per portarla a casa. E mangiai quasi tutto io. In secondo luogo, ogni sospetto a mio carico cadde permettendomi appena libero, di aggredire con parole aspre il Capitini, in Via Guidi e, in mezzo alla Piazza, Renzo, che si sganciò con un: «Mi dispiace, ora ho tanto da fare» mentre saliva su al Comando.
Da scuola, causa il fattaccio, m’avevano sospeso. Poco male; tanto, non mi pagavano, e così avevo più tempo a disposizione.
La questione dello stipendio era andata così: come sbandato, pretendevano il documento di nuova presentazione al Distretto Militare, e io non l’avevo.
Mi decisi a tentare la richiesta il 10 gennaio del 1944, giorno successivo al tremendo bombardamento di Poggibonsi. Ugo Massetani mi aveva portato a Firenze, chiuso nel suo furgoncino «Balilla» che disgraziatamente perdeva dallo scappamento, trasformando quella scatoletta in una specie di camera a gas.
Arrivai al Corpo d’Armata, in Via Cavour, un po’ tardi. In un ufficio, a un tale in borghese, dissi di Poggibonsi, dissi che avevo furia, che non avevo documenti, che ero spaventato. E quello, sotto mia dettatura, scrisse cognome, nome, data e luogo di nascita: tutta roba fantasiosa, ma adattabile in secondo tempo. Ed ebbi il foglio, con timbri e tutto. A casa con accuratezza lo addomesticai. Un lavoro bellissimo, ma purtroppo non c’era più la Direttrice Baldini e la malfidata succedanea aveva arricciato il naso.
Però, ora, non mi fidavo più neanche io, e la sera, pochi minuti prima del coprifuoco, uscivo di casa e scivolavo da Umberto che era ancora «pulito» là negli Orti di S. Agostino, che si chiamavano ancora «della Denda», in quel casone del Castellucci. Ci trovavo anche Francesco Brizzi e tutt’e due si dormiva nella galleria dell’alabastro, in due brandine, inutile dire delle attenzioni usateci da lsolina ed Anna, le padrone di casa, partecipi e collaboratrici preziose.
C’era anche il signor Tiburzio, sfollato da Roma, del quale non mi è rimasto nessun ricordo se non che era persona facoltosa. Socio di Umberto nell’attività alabastrina, aveva acquistato per suo tramite, Torri, una fattoria in quel di Montecatini, e là, con la scusa di certi restauri, per qualche tempo si trasferì Umberto quando sembrava che per lui fosse più prudente allontanarsi.
Il luogo si prestava anche per incontri con l’attività clandestina del pisano e un giorno, forse Basile, mi consegnò una lettera da recapitargli con premura. Faceva caldo. Appena fuori Città mi sfilai i pantaloni e rimasi coi predisposti calzoncini, per esser più libero. I pantaloni li legai sul portabagagli.
Alla prima salita prima di Torri, vidi per terra un cappello di paglia nuovo di zecca, mi fermai per raccoglierlo ed ebbi una sorpresa: dal portabagagli i miei calzoni se n’erano andati, e con loro il portafogli con un centinaio di lire e la carta d’Identità, e le chiavi di casa.
Consegnai la lettera e al ritorno bicicletta a spalla, mi arrampicai per la Frana. In S. Giusto, vicino alla scuola, trovai in casa Ivo Calonaci che mi prestò un paio di calzoni dei suoi, e con quelli rientrai.
Seppi dopo la curiosa storia di quella lettera: doveva leggerla Umberto e passarla subito a uno dei nostri a Montecatini. Per l’appunto quello era omonimo, forse parente del segretario del Fascio e la busta, per errore, andò proprio dove non doveva. Ma non successe nulla.
La documentazione dei fatti è oggi quanto mai frammentaria ché nessuno al momento opportuno si preoccupò di stilarla. In seguito apparve qua e là qualche scritto su episodi singoli, ma non di rado l’estensore si lasciò fuorviare da particolari suggestioni o diede credito a testimoni poco attendibili. Il numero unico «La Resistenza», ad esempio, che vide la luce nel decennale della liberazione – 9 luglio 1954 – sotto il titolo «Pagine di gloria partigiana» presentò alla data del 20 marzo 1944 un episodio di certa gravità: «Assalto ad un distaccamento di militi a Tignano (Volterra). Due militi repubblichini morti e vari feriti.» La notizia certamente sorprende più di uno e fa nascere spontaneo il dubbio che l’anonimo articolista non si sia bene informato. In effetti, a quella data, al Tignano accadde qualcosa, ma di proporzioni ben più modeste. Antonietta, ed anche Beppe Giudici, suo fratello, che si trovavano a Ponsano ricordavano bene: saranno state le sei dei pomeriggio. Cominciava a scurire quando al Tignano furono esplosi dei colpi In una sparatoria. Non tanto fitta. Per una diecina di minuti. Poi fu silenzio. I militi, su alla Casa al Vento, di certo si spaventarono, ma non si mossero dal loro rifugio, né spararono un colpo, quasi volessero far credere che neppur c’erano.
Del resto, un conflitto a fuoco non rientrava nel programma dei partigiani che erano venuti solo per un prelevamento di viveri. Ugo Massetani, che era stato preavvisato e trattò con loro, ne saprebbe certamente di più. Ma la logica ci porta a credere che trattandosi di generi razionati da conferire all’ammasso, per giustificarne il decurtamento sia stata inscenata la sparatoria, simulando un atto di forza che avrebbe posto il Massetani al riparo da una possibile grana. Un po’ di baccano e niente altro.
La Milizia dal canto suo, anche per dimostrare che c’era per qualche cosa, organizzava di tanto in tanto rastrellamenti nella platonica intenzione di far retate di partigiani. Ogni operazione veniva preceduta da vistosi preparativi che non potevano sfuggire all’attenzione così che le staffette avevano il tempo di preavvisare gli interessati.
Partivano gli autocarri fra canti bellicosi dei militi diretti verso i boschi, ma via via che si avvicinavano alla méta l’allegria si smorzava. Era evidente che nessuno di loro desiderava veramente di trovarsi a tu per tu coi nemici. Giunti sul posto si limitavano per lo più a disporsi in fitto cordone davanti alle rade propaggini della macchia, e da lì incoraggiarsi a vicenda con grida provocatorie all’indirizzo dei fantomatici avversari perché avessero il coraggio dì mostrarsi. Con loro sollievo non venivano esauditi e così, dopo avere sparacchiato qua e là e dopo aver lanciato qualche bomba a mano fra i cespugli, l’audace spedizione si concludeva in casa di qualche contadino, del quale veniva saccheggiata la dispensa, con la scusa di ricercare qualche renitente alla leva, o di sospetta connivenza coi partigiani.
Dei quali, naturalmente, neppur c’era l’ombra; ma ogni volta doveva serpeggiare fra i militi un certo non so che molto simile alla paura, perché una volta, sotto Ariano, giù nei Fosci, uno di loro, al solo sentire muovere di frasche mollò con precipitazione una fucilata per accorgersi subito dopo, ma troppo tardi, che aveva ammazzato un commilitone. Mi pare che dopo il fatto, impossibile ad essere sfruttato come propaganda, i rastrellamenti fossero sospesi.
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Sul Poggio, intanto, il C.L.N. continuava l’attività clandestina nei limiti del possibile. I fascisti restavano sempre più isolati, mentre la gente, sotto l’assillo della fame e delle privazioni riversava su loro, quasi più che sui tedeschi, il rancore per quanto accadeva.
Laggiù a S. Lino, dove si verificavano i pesi e misure, avevamo dovuto portare i nostri apparecchi radio, che Mario Volterri aveva avuto ordine di bloccare sulla stazione di Firenze, perché fossero ascoltate solo le notizie di comodo. E Mario, da quel volpone che era, con la massima serietà, faceva due forellini nelle manopole della scala d’onda e le collegava con un filo che chiudeva coscienziosamente con un piombino. L’operazione costava due lire.
A casa bastava allentare la vite di pressione, sfilare la manopola e la voce di Radio Londra, malgrado una fastidiosa interferenza disturbo, si faceva di nuovo sentire: – Parlo Candidus – Qui il Colonnello Stevens – e così si venivano a conoscere i catastrofici rovesci dell’Asse. C’era senza dubbio, anche lì, dell’esagerazione, ma valeva ad alimentare la speranza e soprattutto a meglio chiarire le «ritirate strategiche» di cui al programma nazionale.
Seguiva poi la trasmissione di alcuni «messaggi speciali», frasi apparentemente prive di senso, come – Il tetto è stato riparato – La luna è tramontata – Cesare aspetta Francesco – ma che tenevano in sospeso il cuore di migliaia d’iniziati. Perché quelle poche parole erano un sottile legame con gli Alleati e soprattutto si riferivano al contributo che si poteva dare per la sconfitta del nazi-fascismo.
Poi s’ebbe anche noi il nostro segnale, ed è strano che quasi nessuno se lo ricordi. Neppure io ne son sicuro, ma mi pare che fosse «Il sole sorge ancora».
Quel che ricordo bene, però, è la viva emozione che provai nell’ascoltarlo la prima volta. Preavvisava di un prossimo lancio paracadutato d’armi, di viveri di medicinali per la nostra formazione partigiana. Da effettuarsi in una delle seguenti notti favorevoli. In località che doveva esser delimitata da predisposte luci di posizione.
Non era cosa, per me, di interesse immediato, ché doveva avvenire in luogo piuttosto lontano, e in un momento non ancor precisato, ma la mia eccitazione era tale e tale l’impazienza che andai subito da Umberto a riferire. Naturalmente, lui lo sapeva già.
Ebbi poi anch’io la mia parte; Beppe Amidei venne un giorno da me, giù nell’Orto, e mi consegnò un pacco di roba da far rizzare i capelli: scatolette incendiare a tempo (2 ore dalla rottura della fialetta), parecchie noci di plastica ripiene di cheddite o roba simile, un paio di chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale, con a parte miccia a lenta e detonatore. Quanto sarebbe bastato, secondo le istruzioni, a polverizzare una mole pari al Palazzo Solaini, torri comprese.
AI Comitato Femminile andò invece la stoffa dei paracadute, d’un bel colore celeste, e fu trasformata in indumenti per chi ne aveva bisogno.