Proseguendo oltre la chiesa di San Girolamo, ci si addentra nel territorio attribuito alla necropoli degli Ulimeti.
Questa vasta zona è così chiamata perché comprendente vari poderi denominati «Ulimeto», per lo più distinti fra loro da un numero romano. E’ una parte delle pendici volterrane situata su di uno scosceso sprone che, abbassandosi lentamente, scende verso l’Era e, per un tratto, rimane dirimpetto a quello del Golfuccio, lo supera e prosegue parallelo a quello più lontano, sul quale si erge Porta Diana e la zona della necropoli del Portone. La valle, situata fra questi crinali, è detta di Pinzano e prende avvio dalla Porta di Docciola per poi unirsi, dopo lo sprone del Golfuccio, con l’altra che ha origine nel tratto compreso fra Via dei Filosofi e l’Ospedale Psichiatrico.
Nella valle di Pinzano, da quanto afferma il Falconcini, nell’antico si trovava la Porta di Mercurio che, come Porta Diana, guardava a settentrione. Era cosi denominata perché prossima al tempio dedicato a quella divinità; mentre nella carta del Vadorini appare, invece, segnata «Porta Janii». Il più ampio cerchio delle mura etrusche costeggiava questa valle, ma poi la cinta medievale si restrinse da Pinzano a Docciola. In località detta Pinzanone furono rinvenute, nel 1960, due tombe a cassa, di tarda età imperiale, o forse barbarica, prive di corredo, che oggi sono collocate nel giardino del Museo Guarnacci. Nella valle di Pinzano, infine, sono tuttora visibili i resti in calcestruzzo di una grande vasca, che faceva parte di un antico edificio balneare romano.
Questa località prende il nome dal monumentale e settecentesco giardino della villa Inghirami, che si trova subito dopo il reparto Chiarugi dell’Ospedale Psichiatrico.
La villa dista dalla città due chilometri circa e vi si accede comodamente, oltre che dall’interno dell’Ospedale, anche tramite la strada, già consorziale e detta degli Ulimeti, che costeggia il complesso manicomiale. Le tombe etrusche che vennero trovate nella necropoli degli Ulimeti sono meno riunite rispetto a quelle delle altre aree cimiteriali, ma di maggior grandezza.
Gli ipogei più importanti sono quello della cosiddetta tomba Inghirami e l’altro detto di Torricchi, perché rinvenuto nei pressi di quel podere. Queste due tombe meritano una particolare considerazione per la loro struttura e perché, nonostante siano comprese all’interno dell’Ospedale Psichiatrico, sono rimaste pressoché intatte.
Quella Inghirami è situata sotto il piazzale dell’autoparco. Fu scoperta nel 1861 dai fratelli Iacopo e Lodovico Inghirami e vi si accede da un «dromos» con scalini tagliati nella pietra viva; l’ipogeo è di forma rotonda del diametro di metri 6,13 e si sviluppa per un’altezza di metri 2,33; al centro c’è un pilastro, ricavato nella roccia, del diametro di metri 1,45. Sull’ampio gradino che gira intorno all’intero ipogeo, da quanto alcuni storici asseriscono, erano collocate circa cinquanta urne, alcune di tufo, ma la maggior parte in alabastro e, non poche, messe ad oro e decorate a colori. Dall’iscrizione, rinvenuta sul coperchio di un’urna, fu stabilito che tale complesso funerario apparteneva alla famiglia Atia o Ati. Tutto il materiale qui ritrovato fu ceduto dalla famiglia Inghirami al Museo Archeologico di Firenze, nel cui giardino fu ricostruita fedelmente l’intera tomba.
L’altro ipogeo, detto di Torricchi, si trova negli scantinati del padiglione Bianchi. Presenta due cellette laterali ed una terza sul fondo, unite alla grande camera rettangolare absidata che si trova al centro, munite di letti funebri e dei consueti gradini per le urne.
Durante l’800 gli Inghirami eseguirono numerosi scavi, raccogliendo molto materiale archeologico, per cui la loro collezione, nonostante le donazioni al nostro Museo e l’acquisizione da parte della Soprintendenza alle Antichità della Toscana che, a norma della legge 20 giugno 1909 n. 304, aveva diritto alla metà del ritrovato, ammontava a sessantadue urne, delle quali quarantatré in tufo, diciassette in alabastro e due in terracotta. Tale materiale è andato in gran parte disperso per successioni ereditarie, ad eccezione di quello rimasto alla famiglia Inghirami di Volterra.
Nonostante che questa zona sia stata, largamente esplorata, si può supporre che, con uno scavo organizzato, si possano ottenere nuovi ritrovamenti. Il territorio circostante, infatti, essendo da secoli boschivo, potrebbe nascondere tuttora altri ipogei etruschi e basandoci su quelli già rinvenuti, è lecito pensare che, oltre ad arricchire ulteriormente di reperti archeologici il nostro Museo, potrebbero offrirei più valide conoscenze su questo antico popolo.
Che nella zona esista una consistente necropoli, lo dimostrano anche quei lunghi corridoi e quelle camere comunicanti, tipo labirinto, che si trovano nel sottosuolo del boschetto della villa Inghirami e che furono oggetto della nostra giovanile e forse imprudente curiosità: senza alcun dubbio, testimoniano anch’essi l’importanza di questa vasta area cimiteriale etrusca.
Presso il podere Fontebella, si trova la fonte d’Ulimeto. L’acqua sgorga in una vaschetta a forma di semicerchio, che sembra sia stata ricavata da un cippo etrusco. Più sotto, nel podere Volpaie, si trova un’altra fonte quasi disseccata, dove è ben visibile. in un frontone, lo stemma in terracotta della famiglia Inghirami.
Scendendo oltre la villa Inghirami, si arriva a Sanfinocchi, cioè ad una ex villa con oratorio, che prese il nome da una nota famiglia volterrana. Tale casale fu costruito infatti dai Sanfinocchi nel tardo 1600, o ai primi del 1700, forse utilizzando in parte una costruzione già esistente.
La prima traccia di questa famiglia risale al 1° febbraio 1697, con l’atto in cui Gaspare di Matteo Cinci e Giovanni Maria Sanfinocchi si assunsero l’impegno di rifare il tetto della chiesa di Sant’Andrea, di metterne in piano la facciata, farne la volta, allargarne alcune finestre e di effettuarvi altri lavori nell’interno, il tutto per novanta piastre di sette lire l’una e una soma di vino. Comunque l’origine della famiglia Sanfinocchi risale al secolo XVI e dette a Volterra vari personaggi, tra i quali Giuseppe di Giovan Maria, che fu maestro muratore e capo della compagnia dei Bombardieri di Volterra, vissuto nel secolo XVII, al quale furono affidati i lavori di restauro del nostro Battistero. Segue suo figlio Filippo, anch’esso maestro muratore, capo della compagnia dei Bombardieri e anche abile scalpellino. Filippo eseguì l’altare della cappella della Madonna delle Grazie, presso la chiesa di Sant’Agostino, su commissione del conte Giuseppe Maria Felicini, che fu detenuto per oltre quarant’anni nel Mastio di Volterra e che vi mori nel novembre 1715; fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini.
Filippo Sanfinocchi eseguì questo lavoro nel 1703, segando in un grosso muro l’immagine della Madonna delle Grazie, dipinto a fresco, che venne poi collocata sull’altare, dove si trova tuttora. Si dice anche che l’immagine provenisse da un’edicola che si trovava nella zona di San Girolamo, mentre è certo che tale lavoro sia stato compiuto al tempo in cui era priore di San Pietro in Selci Pietro Minucci e che il Sanfinocchi ebbe in compenso duecento scudi.
Alla famiglia Sanfinocchi appartenne anche Pietro, che dall’anno 1781 fu canonico della nostra Cattedrale, poi decano nel 1816, arciprete nel 1821, nonché socio dell’Accademia dei Sepolti dal 27 agosto 1792; morì nel 1836. È ricordato, tra l’altro, anche per aver salvato, da una turba di popolani, l’aquila scolpita in legno dorato, del secolo XVI, opera dell’intagliatore Iacopo Paolini di Castelfiorentino, che ancora si trova sul parapetto del pulpito in Duomo e che serve da leggio. La turba di popolani, entrata nella nostra Cattedrale, voleva impadronirsi a forza dell’aquila, per bruciarla, perché in essa vedeva rappresentato l’emblema imperiale di Napoleone I, allora caduto dal potere, mentre invece rappresenta l’aquila dell’evangelista Giovanni. Il buon canonico Pietro Sanfinocchi affrontò gli accesi popolani e, con semplicità di parola, riuscì a persuaderli che quell’aquila non aveva nulla a che fare con quella imperiale.
Altro importante personaggio di questa famiglia fu il dottor Gaetano, anch’egli canonico, socio dell’Accademia dei Sepolti dal 10 dicembre 1787 e insegnante di diritto canonico nella Università di Pisa; morì nel 1817.
Nei canonici Pietro e Gaetano e nelle sorelle Maria Angelica, maritata a Giuseppe Antonio Campani, e Teresa, che fu moglie a Gaetano del dottor Cosimo Simonelli di Casole, si estinse la famiglia Sanfinocchi. Nel ramo femminile di essa è da ricordare anche Luisa che fu l’ultima badessa del Monastero Benedettino, poi Francescano, di Santa Chiara dal 1804 al 1807.
Un altro componente di questa famiglia, rimasto anonimo perché ricordato solo come il signor Sanfinocchi, è definito, nel 1742, il più esperto tra i lavoranti di alabastro; faceva ottimi lavori di scultura e altri di fine precisione, come scatole per tabacco, margheritine ecc. Il Signor Sanfinocchi l’ho lasciato volutamente per ultimo perché, a differenza degli altri suoi consanguinei, è noto, nel periodo dal 1738 al 1744, anche per azioni poco ammirevoli. Egli, infatti, contribuì, su commissione, insieme ad un pittorello, anch’egli rimasto anonimo, alla falsificazione di urne cinerarie in alabastro, che poi venivano introdotte nelle tombe e fatte passare per autentiche. Il primo tentativo del genere avvenne, addirittura, con contraffazioni della scrittura etrusca, su frammenti originali di ceramica a vernice nera, che furono fatti trovare nelle tombe scavate nell’ottobre del 1739.
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Nel trovarmi al cospetto della villa Inghirami, mi sono sentito invadere da un forte senso di sconforto. Mentre da ciò che rimane ci si può ancora rendere conto della sua indiscussa monumentalità, al tempo stesso, in ogni sua parte, dal viale d’ingresso con la scalinata e le colonne pericolanti, dal giardino con i suoi mosaici in maiolica ormai sbiaditi e decadenti, dall’abbandono in cui è lasciata la grande peschiera, dai resti della serra che fu trasformata in un insieme di castri per maiali, dal vasto parco in balia di se stesso, si evidenzia un completo e deplorevole disfacimento. La villa, con contratto del 17 settembre 1930, fu ceduta, con l’annesso parco, i terreni circostanti e le relative case coloniche, dalla famiglia Inghirami al Frenocomio di San Girolamo. Per un breve periodo fu destinata ad abitazione del di rettore dell’Ospedale, ma poi subì numerosi altri impieghi che hanno trasformato quel signorile e decoroso ambiente in un catastrofico, desolante e confuso ammasso di sbiadite testimonianze della sua originaria bellezza. Non è possibile nemmeno immaginare il perché di tanta trascuratezza nei confronti di un patrimonio che, se invece fosse stato ben conservato, avrebbe moltiplicato in dismisura il suo valore nel tempo.
La zona del Giardino fu, per un periodo assai lungo, meta delle scampagnate dei volterrani, in occasione della festività del 1° maggio e del lunedì dopo Pasqua. L’area destinata a tale ritrovo era quella del boschetto, nella cui piazzola si ballava al suono di un grammofono a tromba, mentre i più giovani, non ancora abilitati a questo svago, si divertivano a fare l’altalena, allora dialettalmente riconosciuta nelle «pisciangole», o a tentare di prendere un pesciolino rosso nell’ampia peschiera. A causa dell’abolizione della festa del lavoro dal calendario delle ricorrenze politiche e sociali, imposta dal regime di allora, e degli ostacoli frapposti per ottenere l’autorizzazione a feste da ballo, l’orientamento dei volterrani, e limitatamente al lunedì dopo Pasqua, si volse verso la scampagnata di Santa Margherita.
Nella zona degli Ulimeti, poco più sotto a Sanfinocchi, si trova il podere denominato «Ulimeto Tortoli», nei cui pressi vi è la cappella, già della famiglia dei marchesi Tortoli, poi Matteucci, nella quale si trovano varie sepolture di appartenenti a quella casata. Da quanto risulta, con la morte della marchesa Giulia Tortoli Matteucci, già abitante in via dei Sarti, nell’omonimo palazzo che fu poi sede della Cooperativa Artieri dell’Alabastro, questa casata si è estinta in Volterra.