La pubblicazione del libro dell’accademico Lelio Lagorio mi ha spinto nella memoria a ricordare un altro libro dello stesso autore, cioè “Ribelli e briganti nella Toscana del Novecento – La rivolta dei Fratelli Scarselli e la banda dello Zoppo in Valdelsa e nel Volterrano”, Olschki Editore, Firenze 2002.
Non debbo aggiungere nulla di nuovo alle tante recensioni che del libro sono state fatte, ma ritengo giusto dedicare un po’ di spazio di queste pagine su questa vicenda che portò la nostra zona alla ribalta della cronaca nazionale.
Per quanto riguarda più direttamente Volterra voglio partire dalla conclusione o quasi della vicenda della banda dello Zoppo, l’evasione cioè dal Maschio, un’evasione che fece epoca, in quanto era notorio che dalla fortezza medicea non era facile svignarsela. Lo storico concittadino Mario Battistini, autore di una bella pubblicazione sui prigionieri del Maschio, ne cita un solo esempio. L’evasione fece un chiasso terribile, soprattutto nell’epoca nella quale avvenne (notte tra il 4 ed il 5 ottobre 1924); il fascismo si era appena ripreso dal dramma del delitto Matteotti ed un episodio del genere non poteva certo rafforzare il regime. Però l’evasione avvenne: e come?
Protagonista ne fu Oscar Scarselli, lo Zoppo appunto, insieme a due compagni di cella. Egli si trovava in carcere dalla fine d’Agosto 1921 allorché, insieme al fratello Tito, era stato consegnato alla Polizia italiana da quella elvetica. Infatti i due, fuggiti in Svizzera dopo che la banda era stata sgominata in Toscana, erano stati qui arrestati dopo una rapina ed estradati oltre confine. Tito rimase poco con le manette ai polsi; un mese dopo, mentre era tradotto in un carcere del nord Italia, riuscì ad evadere in maniera rocambolesca alla stazione di Bologna, per poi riparare prima in Francia e poi nell’Unione Sovietica.
Oscar, invece, rimase un bel po’ di tempo al Maschio in attesa del processo fino a quella tempestosa notte dell’ottobre 1924 (pioveva a dirotto tra lampi e tuoni) allorché, anche per un intervento esterno organizzato dal fratello e, forse, per un appoggio interno, riuscì a fuggire con i due compagni nel più classico dei modi: tre fantocci nei letti per ingannare le guardie, le sbarre della cella segate, un passaggio nel cortile, una risalita sul cammino di ronda e poi giù verso la libertà servendosi delle lenzuola annodate.
La fuga, fece un chiasso terribile; ne ho letto le cronache, partendo dal settimanale volterrano “ll Corazziere” a “La Nazione” ed all’altro quotidiano fiorentino, “Il Nuovo Giornale”, etc. Tutti concordano nel sottolineare la facilità con la quale Oscar e soci, non solo uscirono pari pari dal Maschio, ma anche e soprattutto come si dileguarono da Volterra. Sulla vicenda fu composta anche una ballata popolare che ottenne grande successo nei mercati e nelle fiere di tutta la regione.
Non sono mai state accertate complicità all’interno del carcere; ci fu un’ispezione rigorosa ma nessuna conseguenza al di là delle urla del furibondo ispettore, urla che, pare, si sentissero al di là delle pur solide mura del penitenziario.
Invece entra qui in gioco una donna di Volterra; si chiamava Chiara Santoni coniugata Gronchi ed abitava in via di Castello, proprio di fronte al carcere. Era nata in Villamagna da una povera famiglia di contadini nel 1894; si era sposata ventenne con un Volterrano e con lui aveva messo su un’impresa di trasporto e vendita di mobili e stoffe. Era una donna di sinistra; aveva militato nelle file socialiste, poi, dopo la scissione di Livorno, in quelle comuniste, il che non le impediva di tenere in casa il ritratto di Matteotti, ma non le impedì nemmeno di dare una grossa mano ad un anarchico come lo Scarselli.
Cosa sia successo in quella notte non è stato mai accertato. La Santoni (me ne parlava il mio amico Giovanni Battistini che c’era in confidenza) non fu mai larga di notizie, anche quando, dopo la caduta del fascismo, se ne poteva fare un vanto. È pressoché sicuro che essa possedeva un autocarro della ditta, a bordo del quale i fuggiaschi raggiunsero Livorno dove si dileguarono. Oscar, appoggiato da una rete antifascista di marca comunista, raggiunse il fratello nell’U.R.S.S. Inutile il dire che Chiara Santoni, durante il ventennio, fece vita grama; rimasta vedova giovane, con figli da allevare, perduta l’iniziale agiatezza permessale dal lavoro, visse povera ma con grande dignità. Terminò i suoi giorni nella casa di riposo sul finire del 1960, affidata alla carità pubblica. La polizia la sospettò a lungo in ordine al coinvolgimento nella fuga dello Zoppo ma non riuscì ad ottenere prova alcuna. Magra soddisfazione il sequestro al suo domicilio del quadro di Giacomo Matteotti!
Questa in sintesi la vicenda di Oscar Scarselli, l’evaso; dopo di lui, a prescindere dalle vicende del secondo conflitto mondiale, c’è stata una sola clamorosa fuga dal Maschio negli anni Sessanta del Novecento; i protagonisti, audaci nella fuga ma senza aiuti esterni, godettero pochi giorni, se non ore di libertà. Questa volta la polizia arrivò abbondantemente prima.
Di fronte a questi casi così eclatanti, mi vien da ridere quando, sfogliando un giornale, leggo con risalto di un’evasione dal Maschio. Nessuno però ha segato le sbarre dopo aver messo un pupazzo in branda. Si tratta, più semplicemente, di qualche detenuto che, trovatosi in licenza grazie alle maniche larghe della legge Gozzini, non si era più ripresentato al domicilio di via di Castello.
Ma torniamo alla banda dello Zoppo. Nata a Certaldo quasi per caso, caratterizzata politicamente (siamo nel 1921) come anarchica o giù di lì, operò alla macchia in quel territorio che veniva definito tout court “Il Volterrano”, territorio compreso tra le vallate del Cecina, dell’Elsa e dell’Era. Bersaglio delle rapine furono per lo più proprietari terrieri e fattori, obiettivi, per loro braccianti e barrocciai, sia sul piano della lotta di classe che su quello redditizio.
E lasciamo stare la leggenda di rapinatori alla Robin Hood, di coloro cioè che rubavano ai ricchi per dare ai poveri. Certo, i banditi erano larghi di elargizioni verso i contadini della zona, ma erano elargizioni interessate: senza il loro appoggio, a cominciare dai viveri, sarebbe stato difficile stare alla macchia.
Di leggende la banda seminò una scia. La più emozionante, e tale da far presa sull’opinione pubblica, è legata alla morte di uno dei fratelli Scarselli, Ferruccio, il quale morì durante i fatti di Certaldo. Non l’uccise nessuno, poiché gli scoppiò in tasca una bomba a mano. Il fratello Tito sarebbe ritornato dalla macchia dove era con Oscar e gli altri e, travestito da frate, si sarebbe recato al cimitero, brontolando preghiere in un improbabile latino, addirittura riverito dai carabinieri di servizio. Al cimitero avrebbe lasciato un biglietto invocante vendetta per il fratello, onde poi fuggire ed attraversare l’Elsa a nuoto, sott’acqua, con l’ausilio di una cannuccia per respirare. Bella storia, tutta da dimostrare, ma che però fece larga presa specie fra la gente semplice.
Tito, dunque. Fra tutti a me pare il più intelligente ed il più deciso. Dopo la fuga da Bologna (19 marzo 1922) e prima di cercare scampo all’estero, tornò alla macchia, e questa volta assai vicino a Volterra. Probabilmente cercava di star vicino al fratello rinchiuso nel Maschio; e di lui si segnalano due interventi, uno modesto, l’altro assai più clamoroso. Basta leggere in proposito le cronache su “II Corazziere”; chi ne ha voglia può rivolgersi alla biblioteca comunale.
Nel luglio 1922, una sera, si presentò alla canonica di Spicchiaiola (siamo a 7 km. da Volterra) un giovane il quale consegnò al parroco, don Michele Pocci, un biglietto a firma di Tito Scarselli il quale intimava al prete di consegnare duemila lire, pena di fare i conti con lui allorché si sarebbe presentato. Don Pocci si rivelò un uomo in gamba; non solo non aprì il portafoglio ma cacciò in malo modo il messo dello Scarselli che non mantenne le minacce e non si fece più sentire né, tantomeno, vedere.
L’altro episodio suscitò un certo can can, perché non ne fu protagonista un parroco di campagna, bensì una personalità di grande spicco nella vita politica e sociale della città: il marchese Guido Incontri. Era un grosso punto dì riferimento per il mondo Iiberal-monarchico ed era stato per anni sindaco di Volterra, ricoprendo altre importanti cariche cittadine. La sua nobiltà risaliva nei secoli, la sua ricchezza proveniva da grandi proprietà terriere tra le quali emergeva la tenuta di Pignano. Era molto autoritario con i dipendenti ma anche largo di generosità nel far beneficienza; due suoi figli, volontari di guerra, erano caduti sul Carso ed il marchese portava con orgoglio sul petto le loro medaglie d’argento alla memoria. E fu proprio in una calda giornata d’agosto che il marchese, tornando in auto a Pignano insieme ai due figli, un maschio ed una femmina, la Norina, si trovò la strada sbarrata dal fucile di Tito Scarselli. L’Incontri dimostrò un grande sangue freddo, anche per proteggere i figli. Alla richiesta di 10.000 lire (una somma esorbitante per quei tempi), obiettò che non poteva certo averla in tasca ma intanto gli consegnò il suo orologio d’oro e gli spiccioli del portafoglio. Tito Scarselli si accontentò e si dileguò nella macchia. Inutile le ricerche in forze che i carabinieri di Volterra effettuarono allorché furono informati della rapina.
Gli episodi relativi a don Pocci ed al marchese Incontri sono i due che riguardano il territorio solo di Volterra. Se poi si parla del Volterrano, le rapine e gli assalti alle fattorie furono diecine, anche se spesso la cronaca attribuiva alla banda dello Zoppo ciò che altri avevano commesso.
Il prezioso libro di Lelio Lagorio è basato su tre capitoli fondamentali. Il primo è intitolato “Il contesto” e l’autore ricerca le basi delle vicende storiche le quali poi indussero nel particolare paesano. Il secondo, “La rivolta”, parte dall’iniziale vicenda della fiera di Certaldo per poi abbracciare tutti gli episodi che alla banda dello Zoppo furono collegate. Il terzo capitolo è, forse, il più malinconico e riguarda “L’esilio”, iI lungo periodo cioè che gli Scarselli vissero in Unione Sovietica, dove entrambi morirono, Tito in un incidente sul lavoro, Oscar nel secondo dopoguerra dopo aver chiesto invano all’ambasciata italiana di poter tornare a casa.
E probabilmente fu lui lo sconosciuto italiano che andò a parlare ed a sentire odor di patria tramite la lingua fra i marinai che la nostra guerra aveva scaraventato in Crimea per attaccare (e lo fecero con successo) la flotta sovietica.
Qui potrebbe chiudersi il discorso sulla banda dello Zoppo, mezzi banditi mezzi guerriglieri (vogliamo fare un richiamo, ante litteram, alle brigate rosse?) se non fosse che, nella sciagurata avventura, non ci fossero scappati due morti, entrambi di opposte sponde. Il primo fu l’ing. Catullo Masini, funzionario del Comune di Certaldo, apprezzato esponente del Partito stimatissimo dalla popolazione. Sceso in piazza per calmare gli animi, fu raggiunto da una rivolverata sparata dall’anarchico Guido Masini. Gravemente ferito, morì una settimana dopo all’ospedale di Empoli.
La seconda vittima fu un altro ingegnere, Mario Filippi, un ricco possidente deIla tenuta di San Vivaldo, valoroso combattente nella guerra mondiale, segretario fascista della zona, anche se nessuno poté accusarlo di violenze e persecuzioni. Aggredito sulla strada del ritorno a casa dal mercato di Castelfiorentino (era il 25 giugno 1921), fu costretto a chiedere un forte riscatto alla moglie e poi, allorché intervennero i carabinieri, fu trucidato a sangue freddo dal solito Giulio Masini il quale, giova sottolinearlo, era stato soldato nei bombardieri alle sue dipendenze durante la guerra.
Se non ci fossero state queste tragedie, la banda dello Zoppo avrebbe potuto tranquillamente diventare la banda di Zorro, argomento per telefilm, insomma.
È ovvio che nessuno può qui valorizzare o denigrare la vicenda dei fratelli Scarselli e dei loro complici. Il tutto va inquadrato in quell’epoca feroce vissuta dalle nostre parti: l’eccidio dei marinai presunti fascisti ad Empoli, la bomba in piazza Antinori a Firenze, gli omicidi del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini e del fascista Giovanni Berta. E l’elenco potrebbe tragicamente continuare.
Voglio solo aggiungere una nota dolorosamente gentile, pur sfuggita all’impagabile lavoro di Lelio Lagorio. È una testimonianza che mi dette la Rosa di Maggio, vice direttrice del conservatorio di San Pietro, dove ella passò tutta la sua vita. Mi raccontò che in quel terribile giorno di giugno, allorché giunse a Volterra la notizia dell’uccisione del Filippi, la figlia, una bella, intelligente ragazza, alunna del conservatorio (allora il nostro collegio fioriva con il contributo di presenze da tutta la regione ed oltre) stava sostenendo degli esami di idoneità. Non so quali, poiché allora non era stata attuata la riforma Gentile ed ogni scuola privata agiva per conto proprio.
Arrivata la terribile notizia, la direttrice, Zorama Brogi, decise di non darle alcuna comunicazione e di lasciarla in pace a sostenere gli esami, risultati positivi. Poi la ragazza fu accompagnata a San Vivaldo dove si trovò davanti alla salma del padre.
È questo un ultimo tocco, doloroso ma sentito, in ordine alla vicenda dei briganti e dei ribelli della banda dello Zoppo che, per un paio di anni, sconvolsero (o furono accolti come eroi) il Volterrano.