Per molti decenni, don Castello è stata una figura popolarissima. Il suo vero nome: molto reverendo don Tebaldo Bartolucci, parroco di Villamagna. Ma chi si azzardava a chiamarlo in quel modo!, lui che era uomo semplice, pratico, burlettone, riottoso ad ogni formalismo, anche in materia ecclesiale.
Viveva all’aria aperta, allevando galline e conigli; diceva messa presto e poi o si dava alla campagna oppure saliva a Volterra, quando era possibile con il calessino, o con la macchina, oppure a piedi. Per lui era quasi indifferente.
Perchè era chiamato don Castello? Perchè aveva una notevole altezza, una grande corporatura ed un incedere imponente da richiamare alla mente l’idea di una solida costruzione. Quando saliva a piedi in città, dopo gli oltre dieci chilometri e la lunga salita, entrava in Volterra dalla Porta San Francesco, dritto come una quercia, con le mani all’altezza del panciotto (che portava sotto quella specie di toga) ed il cappello di traverso. Avanzava, con passo marziale, lungo e lento, ma inesorabile, verso la Piazza dei Priori, dove di solito, dal cuoco Serafino o poco distante dalla Cesara di Dora, consumava una abbondante colazione a base di trippa, pane fresco e vino rosso. Naturalmente non mangiava solo, aveva quasi sempre i suoi affezionati colleghi di colazione.
Don Castello era uno spirito vivace, acuto e certo non si peritava a raccontarvi; tra una forchettata ed un bicchiere di vino, qualche barzelletta piccante, condita dalle sue tipiche espressioni e dai toni forti della voce. Era l’unico prete che non desisteva nell’entrare in tutti gli ambienti e i clericali, in merito, avevano qualche reticenza nei suoi riguardi, ma intendiamoci: riguardavano solo la forma, non la sostanza.
Il mondo che frequentava lo stimava e assorbiva, magari inconsciamente, quel profondo insegnamento di cristiano essenziale che scaturiva dal suo comportamento ed anche dal suo modo di discutere e di ridere.
Durante le solenni processioni, in cui le parrocchie dovevano intervenire con gli stendardi, Villamagna era sempre presente e dietro il grande vessillo – in mezzo ad una teoria di ragazzetti – si ergeva la mole di Castello che, malgrado fosse vestito con toga, cotta e stola, sembrava un personaggio fuori posto. Anzi, solo allora, vestito da cerimoniere, dava l’impressione di goffeggiare, e non quando passeggiava per Volterra con le mani nelle tasche della tonaca ed il cappello “sulle ventitrè”.
L’avvicinarsi di Don Castello era udito da lontano: la sua voce, bella e tonante, copriva tutto il salmodiare.
Aveva un cuore ed un animo grandi come la sua corporatura.
La sua casa era sempre aperta a tutti, e questo non per modo di dire; era effettivamente la dimora di ognuno.
Il suo interesse per i parrocchiani non si limitava a quello spirituale, si dava da fare anche per i loro bisogni temporali; al tempo del fascio verso i gerarchi fascisti; con la democrazia verso i democratici.
La sua concezione della vita era di una semplicità elementare. Viveva nella collettività, ma se ne stava fuori: non gli piaceva vivere come vivevano i più. Per lui ogni norma che gli impedisse di operare in modo naturale e spontaneo, era un peso insopportabile; infatti, quando a Volterra subentrava un nuovo vescovo, al primo contatto si avevano notevoli perplessità da parte dell’eccellenza nel trovarsi davanti quel “prete speciale”: una tortura per don Castello, costretto – sia per poco – ad entrare nella formale normalità.
Eravamo così abituati a don Castello che non pensavamo che via, via che gli anni passavano anche la forte costituzione di don Tebaldo incominciasse a sentire il tempo. Ed un giorno, in semplicità come era vissuto, morì. D’altra parte anche i colleghi delle sue deliziose colazioni volterrane, uno per volta, se ne erano andati, e lui non poteva certo più a lungo sopravvivergli.
Così l’epoca di don Castello si chiuse, ma rimase aperta la vasta pagina del suo insegnamento umano e cristiano.